Stravolgendo Shakespeare

Una intervista a Francesco Randazzo

Pubblicato il 20/01/2006 / di / ateatro n. 094

La tua formazione è legata all’Accademia d’Arte Drammatica dello Stabile di Catania: nelle tue interviste parli spesso del debito nei confronti del tuo maestro, Giuseppe Di Martino. Quando hai cominciato a “metterci le mani” nel teatro, a scriverlo e poi a praticarlo come attore e regista per la compagnia degli Ostinati e quali sono i tuoi lavori più recenti?

Ho cominciato a 18 anni, dopo qualche frequentazione teatrale al liceo, al momento d’ iscrivermi all’università a Catania, ho fatto anche il provino alla Scuola d’Arte Drammatica del Teatro Stabile e sono entrato. Di Martino, che era allora il direttore, è stato il mio primo fondamentale maestro, tutto della mia successiva formazione ed esperienza viene dal grande magistero che da lui ho assorbito e, naturalmente, sviluppato, affinato, trasformato e fatto mio, Lo considero un padre, mi ha fatto nascere a Teatro e mi ha insegnato a cercare la mia strada. Dopo la Scuola sono stato suo assistente per tre anni, poi ho provato ad entrare all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, per il corso di Regia e sono stato ammesso. Anche questa è stata un’esperienza formativa formidabile, non soltanto dal punto di vista artistico ma anche umano. Tutto sommato, a ventiquattro anni (allora questa era l’età minima per gli allievi registi) ero un giovane provinciale che approdava a Roma, già soltanto l’impatto con la città era fortissimo. In Accademia c’era un gran movimento di idee, di artisti, intellettuali, attori, registi, scrittori, da Giorgio Pressburger a Luca Ronconi, da Paolo Terni a Elena Povoledo, Massimo Foschi, Andrea Camilleri, Marisa Fabbri, Enzo Siciliano e molti altri, sarebbe impossibile citarli tutti. Sono stati anni molto belli, anche molto duri, naturalmente.
Avevo già quest’esigenza di scrittura, che in Accademia trovò appoggio e sostegno, soprattutto da parte del direttore Musati e di Camilleri che era allora il docente di Regia. Così mi sono diplomato con uno spettacolo su un mio testo, un caso allora abbastanza raro. Ho continuato a scrivere, per il teatro prevalentemente, ma ho pubblicato anche un romanzo, poesie e racconti. Ultimamente ho anche scritto una sceneggiatura per un film, che ha vinto il Premio Sonar Script ed è stata presentata al Torino Film Fest con un reading curato da Affabula/Plot.
Finita l’Accademia ho lavorato, praticamente da subito, soprattutto all’estero e nel corso degli anni ho fatto esperienze, prevalentemente di regia o di drammaturgia, qualche volta anche come attore, in vari paesi: Olanda, Croazia, Stati Uniti, Canada, Venezuela. Ho potuto realizzare molte cose che qui sarebbe stato forse impossibile fare, sicuramente anzi. Però sono tornato sempre, e, nei periodi di mezzo, ho fondato gli Ostinati, con un gruppo di attori. Ho realizzato spettacoli, rassegne, eventi letterari, poetici, teatrali, partecipato a Festival, soprattutto in Sicilia e a Roma. Parallelamente ho tenuto seminari, stages, conferenze e attualmente insegno Storia dello Spettacolo e Recitazione all’International Acting School di Roma. É stato, e continua ad essere, un percorso lungo e travagliato, ricco anche di soddisfazioni, ma devo ammettere che forse avrei fatto meglio a non tornare in Italia… la situazione di questo Paese è pazzesca, tragica, grottesca, non bastano gli aggettivi… Mi ostino ad esserci, come molti d’altronde, a questo punto è un praticamente un dovere.

L’Otello nivuru, vincitore del premio Ugo Betti, è una specie di dark comedy a finale splatter, con un’ambientazione così folle da sembrare addirittura reale in una Sicilia contemporaneamente terra di speranza e di d’espulsione, di approdo o di transito per gli immigrati, e in un’Italia che accoglie gli extracomunitari e poi li maltratta nei CPT. Tu dici che nell’Otello ci sono “situazioni oscene ma oscene per la disperazione, la disperazione della stupidità al potere” ma che in fondo “non c’è murali, inutili circarla”. Il nucleo della tua riflessione allora qual è? Quanto il teatro può arrivare a mettere in ridicolo un sistema politico che genera ingiustizia?

È una specie di visione, quest’Otello… avevo la necessità di urlare che stiamo precipitando, ma non volevo essere didascalico, pedante. Da qui l’uso di mezzi espressivi alti e bassi, spinti al limite. La scelta di codici da Commedia dell’Arte trasposti in chiave contemporanea. É tutto sconcio, come questa realtà avvilente, questo degrado, di cui siamo parte. La morale non c’è perché non dev’essere espressa pregiudizialmente, adopero una trappola retorica, la “praeteritio”, dico di non giudicare, per spiattellare tutto come è, al peggio e nel modo più crudele e ridicolo allo stesso tempo, la morale sta già dentro l’enunciazione. Non è uno sberleffo soltanto, è un’azione che spinge al limite il grottesco che viviamo ogni giorno. Il sistema politico è biologicamente ridicolo, le ideologie possono anche aver prodotto disastri, ma avevano anche creato diritti, democrazia, libertà, a carissimo prezzo. Sta crollando tutto. Adesso, senza ideologie dovrebbe esserci qualche idealità quantomeno, etica, sociale, culturale: purtroppo invece, questa è diventata una repubblica fondata sul cabaret, sull’intrattenimento da crociera, finché non ci scontreremo con l’iceberg, quelli in terza classe moriranno prima, quelli in prima, affonderanno ballando.
Il Teatro, sono convinto, deve avere un esigenza di altezza che lo stacchi dalla mediocrità del reale, ma deve anche sapersi sporcare le mani, usando il reale. La realtà non cambia, o perlomeno non lo vedi chiaramente mentre vivi, puoi avere presagi, trasformarli in visioni, tentare di modificare rendendo evidente quello che la collettività, anestetizzata, non riesce a vedere, spostare lo sguardo dei tuoi interlocutori nel complesso della Storia. Provarci almeno. Questo Otello l’ho scritto con questo intento, demistificante e paradossale, e arriva al pubblico come speravo arrivasse: si divertono moltissimo e sul finale restano spiazzati, scioccati forse dalla piega seria, che attraverso lo snodarsi di situazioni grottesche, freddamente e cinicamente, alla fine si afferma.

E se l’autore dell’Otello fosse davvero quel siciliano Messer Florio come sostiene lo studioso Martino Juvara, costretto a riparare in Inghilterra dopo aver scritto un libello eretico, che come si legge “fuggì prima a Venezia, ospite di tale Otello, un tipo irascibile che durante una discussione strangolò la moglie, la signora Desdemona, e quindi riparò in Inghilterra”?

Tutto è possibile… ma perché nessuno dubita mai che Einstein fosse veramente l’autore della Teoria della Relatività, o che Galileo fosse in realtà il cardinale Bellarmino che era schizofrenico? La scienza è esatta anche negli uomini che la praticano, l’Arte è ineffabile, dunque anche l’artista… quindi si può “giocare” a sostituirlo con chiunque si voglia, intriga, diverte, rassicura. In un mio breve racconto parlando di questo, proprio a proposito di Shakespeare, gioco con tutta una serie di paradossi e alla fine mi chiedo: Who is who? Adesso che ci penso, anche mia madre sosteneva di avermi trovato in un bidone della spazzatura, il che mi pone dei seri problemi d’identità. Spero che qualcuno trovi delle prove e me li risolva. Sennò potrei arrivare a convincermi di essere il figlio intelligente di Sofia Loren.

La questione della lingua: come definiresti il tuo testo? Un pastiche? Un colorito siciliano? Un ardito ibrido linguistico?

La terza che hai detto.

Troppu trafficu ppi nenti è il titolo del testo con cui l’agrigentino Camilleri e Dipasquale hanno messo in scena in siciliano Molto rumore per nulla ambientandolo a Messina. Ti sei ispirato in qualche modo a questa operazione di risciaquatura in acque siciliane dei testi shakesperiani? E che valore ha per te ha oggi il ricorrere da parte di una nuova drammaturgia al dialetto? Diceva Camilleri: “E’ la forza dei grandi testi che non solo reggono ad altre incursioni, ma ne traggono nuova linfa. Il dialetto, patrimonio inestimabile di una civiltà, arricchisce, non riduce. Il problema è semmai che oggi, anche da noi, lo si usa poco. Quanto capiranno i siciliani?”

Non ho visto lo spettacolo di Camilleri. Credo fosse una traduzione, più tradizionale, dell’opera di Shakespeare. L’uso del dialetto è per me una valenza poetica in più, di differenziazione anti-omologante, nell’Otello in particolare assume anche un valore d’invenzione d’una lingua che non esiste, un ibrido linguistico, che mescola italiano antico del 400, latinismi, ispanismi e dialetto: come una nuova lingua. Pur essendo stato allievo di Camilleri, credo che in questo caso l’ispirazione sia più vicina al lavoro che Testori fece sul lombardo, naturalmente con le dovute differenze linguistiche, visto che sono siciliano.

La canadese MacDonald ripensa in Buonanotte Desdemona (Buon giorno Giulietta) alle donne dell’Otello e del Romeo e Giulietta come anime orgogliose, lesbiche e intraprendenti: qualcosa di questo filone omosessuale che stravolge oggi Shakespeare ti ha influenzato?

L’omosessualità è un tema che con l’affermazione di tutta una serie di progressive acquisizioni di diritti, sta diventando giustamente e semplicemente un terzo genere di sessualità, la cui ambiguità è da sempre drammaturgicamente potente. Aumentano le dinamiche possibili d’innamoramento ma anche quelle del tradimento. In generale le relazioni e le implicazioni emotive si moltiplicano (non che non fosse così anche prima, ma dovevano essere nascoste, al massimo alluse). Nel testo ho esplicitato le latenze che alcuni critici shakesperiani avevano segnalato ed ho aggiunto il presunto lesbismo di Disdemina e Iemilia. Persino Otello, quando bacia Iaco barcolla un po’ dal suo trucido machismo e confessa a mezza voce: “Non mi ci fece tanto schifio como ci penzava”. Fa ridere, ma è anche questo il disvelamento di una residua ipocrisia.

Cosa hai consapevolmente “saccheggiato” per i tuoi personaggi da Ciprì e Maresco, i “modesti, cinici cantori della fine” come si sono autodefiniti?

Consapevolmente niente. Ma si sa l’inconscio lavora nell’oscurità…

Scaldati diceva che “Napoli respira la commedia, la Sicilia la tragedia”. Ti senti un “tragediatore”?

In Sicilia siamo tutti tragediatori, persino ai bambini si dice: “Nun fari traggedie e camina!” o “Mii chi traggedia ca sta facennu pi na minchiata!”. C’ abbiamo dentro la tragedia greca classica e l’opera dei pupi, si sono fissate sull’elica del dna! Battute a parte, sono d’accordo con Scaldati, aggiungerei che da noi si respira tragedia e si espira poesia. Nei casi migliori, naturalmente, e Scaldati, per esempio, ne è un bell’esempio, anche Emma Dante…

La sicilianità come valore aggiunto a teatro: Emma Dante, Davide Enia. Cosa apprezzi del loro teatro?

Emma la conosco dai tempi dell’Accademia e sin da allora ne apprezzo il rigore, la pervicace ostinazione, l’idea pura di teatro che ha creato una personale poetica trasudata sulla scena. Enia non lo conosco personalmente, ma è portatore sano di “valore aggiunto”, indubbiamente! Bisogna anche dire però che questo valore aggiunto in Sicilia è più un ostacolo che un vantaggio…

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Anna_Maria_Monteverdi

2006-01-20T00:00:00




Tag: William Shakespeare (49)


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