L’attore nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

Questo testo è stato pubblicato per la prima volta sul Patalogo 18. Annuario dello spettacolo 1997.

Pubblicato il 17/12/2005 / di / ateatro n. 000

Questo testo è stato pubblicato per la prima volta sul Patalogo 18. Annuario dello spettacolo 1997, edito da Ubulibri.




“Compito scherzoso: ritrai te stesso senza specchio,
senza le illazioni che ricevesti dalla tua immagine riflessa in uno specchio.
Esattamente come ti vedi con l’occhio della mente, senza guardarti”.


(Paul Klee, Diari 1898-1918)

“Ti ho chiesto io, creatore, dal fango

Di farmi uomo? Ti ho chiesto io

Di trarmi dal buio?”.

John Milton, Il Paradiso perduto, posto
da Mary Shelley in epigrafe a Frankenstein)





La Supermarionetta
Totempol combina sequenze analogiche filmate
e danzate nell’episodio Vancouver di Circumnavigation e sequenze
digitali composte utilizzando il programma Life Forms, che permette la
creazione di danzatori virtuali. Il punto di partenza è basato sull’ibridazione
che nasce da questa alterità e, in maniera ridondante, sul dualismo
che costituisce un elemento costante del pensiero amerindio, in particolare
della Columbia Britannica; questo dualismo è ispirato da un’apertura
all’Altro che si è manifestata fin dai primi contatti con i Bianchi.
La possibilità di riprendere scene urbane con veri interpreti e
quella di animare dei danzatori virtuali in una scenografia immaginaria
introduce nel filmati dei rapporti di movimento da un terreno di scrittura
all’altro”.


(N+N Corsino, sinopsi di Totempol)

“Nicole e Norbert Corsino, coregrafi marsigliesi, sono
impegnati nella modellizzazione dei corpi dei danzatori. Utilizzando il
programma Life Forms, messo a punto da Tom Calvert per Merce Cunningham,
i Corsino hanno elaborato un sottile vocabolario di movimenti che consente
loro di creare coreografie straordinarie. Ciascun danzatore viene rappresentato
da un insieme di elementi che ricostruiscono le diverse articolazioni delle
sue membra, del torso e del capo. Life Forms permette di raggiungere una
precisione tale che, per esempio, è possibile controllare separatamente,
una per una, tutte le vertebre (le 7 cervicali, le 12 dorsali, le 5 lombari).
I coreografi definiscono i movimenti e poi ne regolano la durata, coordinano
i diversi danzatori, ne correggono le traiettorie. E infine posizionano
la loro telecamera: la stessa scena può essere osservata di fronte
o di profilo, dalle quinte o dalla graticcia.


Vedendo muovere questi “omuncoli” sullo schermo del computer,
d’improvviso si intuisce che i Corsino non stanno realizzando l’ennesimo
video di danza, ma vogliono risolvere un problema che ossessiona attualmente
numerosi artisti: inventare una nuova figurazione del corpo umano. I Corsino
non stanno dialogando con i registi che filmano spettacoli, neppure con
i più abili. Stanno dialogando con Degas, Picasso o Balthus, Rodin
o Giacometti”.


(Jean-Paul Fargier, “Le Monde”, 30 luglio 1994)

 


Con Circumnavigation, video realizzato tra il 1992 e il 1995, i
Corsino hanno smesso di realizzare coreografie per spettacoli veri e propri,
e hanno iniziato a lavorare con i danzatori unicamente per il video. Nella
fase successiva, con Totempol (1995), utilizzando un software che
tiene conto dei vincoli del corpo umano e delle leggi fisiche, hanno rinunciato
alla presenza dei danzatori per lavorare unicamente con “danzatori virtuali”.
La perfezione dei movimenti, che riprendono in parte le coreografie di
Circumnavigation,
è di stupefacente realismo: da quelle evanescenti figure traspare
una naturalezza che a tratti riesce a far dimenticare la loro origine digitale.

Gli immateriali interpreti di Totempol sembrano l’ultima incarnazione
di un fantasma che da tempo ossessiona i teatranti: la marionetta, o meglio
la Supermarionetta, in grado di eseguire alla perfezione i movimenti ideati
dal regista, e destinata a soppiantare l’attore “umano”. Il sogno di Kleist
e Craig, il definitivo matrimonio tra la bellezza del corpo umano e la
perfezione dei movimenti della macchina, sta finalmente per realizzarsi,
anche se con una tecnica e in una forma imprevedibili.

L’esperimento dei Corsino non è un caso isolato, la deriva verso
l’interprete elettronico non interessa solo la danza. Qualche anno fa c’è
stata l’apparizione anticipatrice di Max Headroom, protagonista tutto elettronico
di una serie di telefilm vagamente fantascientifici. Senza trascurare le
genealogie dei personaggi dei videogame, in grado di obbedire ai comandi
del programmatore-regista e del giocatore-regista, o l’intrusione nel reale
della travolgente Jessica Rabbitt.

Ma queste erano solo rozze anticipazioni, che per troppi aspetti non
possono competere con una controparte umana. Dopo una serie di esercitazioni
con animali più o meno pericolosi o preistorici (più facili
da programmare di un homo sapiens), gli sviluppi più recenti
della “showbusiness technology” sembrano ora voler affrontare la sfida
con decisione.

Al cinema, l’attore Brandon Lee, ucciso sul set del Corvo da
una pistola che avrebbe dovuto essere caricata a salve, è stato
miracolosamente “resuscitato” da una serie di effetti speciali elettronici
nelle sequenze che mancavano al completamento del film. C’è chi
sta cercando di far rivivere Marilyn, chi ricostruisce la voce di John
Lennon per “resuscitare” i Beatles, chi sta cercando di far cantare nuovamente
Maria Callas (magari correggendo qualche sua debolezza vocale).

E’ curioso che a ispirare i desideri di questi primi “registi virtuali”
siano spesso dei morti, divi chiamati a una resurrezione involontaria.
Ma è già allo studio una seconda generazione di “attori virtuali”:
quelli che assommeranno le caratteristiche migliori delle star attualmente
in circolazione, per dar vita all’attore e all’attrice ideali, virtuali
e definitivi. Capaci di sedurre il pubblico del villaggio globale. E soprattutto
pronti a eseguire docilmente, alla perfezione, tutti gli ordini del regista.
Senza problemi di cachet o di controfigure, senza mai far le bizze sul
set: bastano la pazienza dei programmatori e l’efficacia del software.
Inoltre l’attore elettronico si adatta meglio di quello tradizionale agli
scenari rozzamente fiabeschi della realtà virtuale, ed è
quindi più adatto alle esigenze dell’interattività. Quando
si aprono prospettive come queste, a che cosa può servire un attore
in carne e ossa?

Di fronte a queste straordinarie potenzialità, val forse la pena
di ricordare l’ambigua maledizione lanciata da Platone contro l’attore
– inteso come perfetto imitatore. Delineando lo stato perfetto della Repubblica
e affrontando il problema, giunge a questa conclusione:

“Se nel nostro stato giungesse un uomo capace per la
sua sapienza di assumere ogni forma e di fare ogni imitazione, e volesse
prodursi in pubblico con i suoi poemi, noi lo riveriremmo come un essere
sacro, meraviglioso e incantevole; ma gli diremmo che nel nostro stato
non c’è e non è lecito che ci sia un simile uomo; e lo manderemmo
in un altro stato con il capo cosparso di profumi e incoronato di lana”
(La Repubblica, III, 398).

Totempol non è un video particolarmente “bello” né
eccessivamente innovativo. E’ realizzato in un morbido bianco e nero, anche
perché le sagome dei danzatori sono – per ora – monocrome. Aldilà
della maestria tecnica e dell’effetto verità, il video dei Corsino
trasmette una sensazione di freddezza, di lontananza vagamente poetica.
I movimenti dei burattini-ballerini sono perfetti, fin troppo. Seducono
con la loro lenta morbidezza. Ma soprattutto questi esili scheletri luminosi
trasmettono allo spettatore una sorta di malinconia. Come se a muoversi
su quello sfondo astrattamente grigio fosse in realtà la traccia
di qualcosa che si è perduto per sempre. Osservandone le evoluzioni
si insinua una sensazione di perdita. Non sembra certo l’esplosione gioiosa
di una nuova forma d’arte o di vita, la liberazione tanto attesa dai vincoli
del reale. Piuttosto, Totempol affonda nella nostalgia.
“Abbiamo abbandonato la materia

è un istante

un breve istante

l’istante più breve

e siamo morti

Il segno d’una smorfia è rimasto

null’altro

Il moto d’una mano

L’espressione sbigottita

null’altro

Per tutta la vita fingiamo

un qualcosa

che nessuno capisce

Però percorriamo questa strada

non un’altra

quest’unica strada

finché moriamo

e per tutta la vita non sappiamo

se è matematica

o se è arte drammatica

(alla signora)

E’ la follia signora mia”.

(Thomas Bernhard, Minetti)

Il carisma
“Un mio amico era un vecchio attore polacco, molto molto
grande. La struttura di ciò che faceva era una struttura estremamente
precisa e premeditata, in ogni dettaglio era realmente premeditata, ed
era anche premeditato come questa agiva sullo spettatore. Si potrebbe dire
che era una gran maestro di forme, della composizione; non è mai
partito, quando lavorava, dal processo organico, ha sempre cominciato dalla
struttura, ha lavorato alla struttura dettaglio dopo dettaglio, con molto
senso al tempo stesso dell’umorismo e dell’ironia di fronte all’essere
umano, e anche di fronte a se stesso, ma è sempre stata una costruzione
estremamente premeditata. Un giorno ho notato che durante lo spettacolo
che egli faceva, si è presentato un fenomeno luminoso. Tutto era
come ogni altro giorno, ma c’era questa libertà, come se la sua
partitura si sviluppasse in un grande spazio e se ci fosse dentro lui stesso
qualcosa di luminoso che usciva, qualcosa di estremamente calmo; si può
dire che il suo viso, i suoi occhi piuttosto erano diventato quasi trasparenti.
Allora sono andato un altro giorno ancora, la stessa cosa, un altro giorno
ancora, la stessa cosa. Gli ho telefonato, gli ho proposto un appuntamento
e gli ho domandato semplicemente: “Che cosa succede?” e lui replica: “Chi
gliel’ha detto?” e io gli ho risposto: “Nessuno me l’ha detto, è
per questo che chiedo, ma io vedo”. Ed egli dice che il medico l’ha informato
che il suo stato del cuore è talmente cattivo che se continua a
recitare può in ogni momento morire sulla scena. Allora gli ho domandato:
“Qual è ora la differenza, quando Lei entra in scena?” ed egli ha
detto: “Sai, la reazione del pubblico mi è diventata quasi indifferente”.
E’ diventato disinteressato”.


(Jerzy Grotowski, Tecniche originarie dell’attore,
traduzioni a cura di Luisa Tinti, testi non riveduti dall’autore, 24/3/1982)

 
“Fa parte della rappresentazione di se stesso che ha l’attore,
il dominio su come mettere le dita, come stare con i gomiti, come apparire,
la consapevolezza e il controllo dell’apparizione, il dominio del proprio
corpo in tutte le espressioni dei propri arti, la consapevolezza di rappresentare
qualche cosa di irripetibile che ha a che fare con il proprio nome e cognome.
E’ proprio questo che crea attorno a loro una sorta di fosforescenza che
poi riesce a mantenersi anche nella vita, non solo sul palcoscenico. Io
poi di mestiere faccio il domatore di questo tipo di creature, ma devo
dire che ancora adesso per me conservano quel carisma, e quella specie
di alone che li rende affascinanti sul palcoscenico e sullo schermo. Hanno
tutti quanti, specialmente se sono al centro di proiezioni così
a lungo portate e indossate, un qualcosa che li rende diversi”.


(Federico Fellini, Il mestiere di regista. Intervista
con Rita Cirio
, 1994)

Nell’epoca del divismo televisivo, degli applausi che scattano all’accendersi
di una lampadina o risuonano freddi da qualche nastro preregistrato, chissà
se da qualche attore lampeggerà ancora quest’aura fosforescente…
Secondo Fellini, solo il lungo contatto con il pubblico, le serate con
la platea mezza vuota e il pubblico distratto, le impennate guittesche,
i mille imprevisti, gli entusiasmi e gli applausi degli spettatori, potevano
alla fine sedimentare, miracolosamente, quell’alone irripetibile.

Questo carisma riverbera ancora, in forme magari grottesche e distorte,
in certi memorabili personaggi di Thomas Bernhard: nel Teatrante,
con la sua guitteria megalomane e sfrangiata, e – come abbiamo visto –
in Minetti, incarnazione suprema del Grande Attore da Vecchio. Anzi, in
questo caso il testo bernhardiano non è altro che il sedimento,
la formalizzazione, del fascino del grande attore.

“Il peggior nemico dell’attore

è il suo pubblico

Quando lo sa

si esalta nella sua arte

Ogni istante l’attore deve dirsi

ora il pubblico s’avventa sulla scena

E’ in questo stato che deve recitare

contro il pubblico

contro i diritti umani capisci

Per tutta la vita

ho recitato contro il pubblico

per conservare la tensione

per non essere infiacchito

Mio padre l’illusionista

è stato il mio maestro

il mio unico maestro capisci

il più spietato”.

(Thomas Bernhard, Minetti)

A depositare questa patina misteriosa, e probabilmente indefinibile, è
il lungo rapporto con un pubblico ogni sera diverso – raffinato o ingenuo,
entusiasta o crudele. E’ l’abitudine allo sguardo dello spettatore, Bestia
Oscura dai mille occhi, da sedurre o da affrontare come un nemico. Nel
momento in cui l’incontro perde la forza dell’impatto diretto tra due vite,
l’attore perde irrimediabilmente un elemento segreto ma fondamentale della
sua arte.

 

Una definizione dell’attore

La sensazione è che oggi, qualunque cosa sia un attore, la sua
stessa essenza stia cambiando. L’attacco viene, come abbiamo visto, da
due versanti: da un lato la realizzabilità di una Supermarionetta
elettronica; dall’altro la trasformazione del rapporto con il pubblico,
un rapporto che le nuove teconologie della comunicazione hanno profondamente
mutato.

Già, ma che cosa è un attore? Né una SuperMarionetta
né una LumpenMarionetta, è ovvio. Ma allora: che cosa è
un attore, che un attore virtuale non potrà mai essere?

Per rispondere a queste domande, può essere utile ricorrere a
una variante del test di Turing per l’intelligenza artificiale, reso celebre
da Philip Dick e da Blade Runner. Per esempio, potremmo chiederci:
guardando un filmato con un attore reale e un attore virtuale, che cosa
differenzia queste due macchine per produrre segni e indurre emozioni?
Quali caratteristiche possiede il primo che il secondo non potrà
mai avere? Quali compiti può svolgere l’uno che all’altro sono preclusi?
Insomma, che cosa, nella presenza dell’attore, non può essere ridotto
a effetto speciale?

(Naturalmente bisogna presumere che i problemi tecnici più grossolani
– quelli che riguardano l’apparenza fisica e permettono di distinguerli
alla prima occhiata – siano stati risolti; ma è solo questione di
tempo: di chip più veloci e di algoritmi di compressione più
efficaci. Inoltre, in attesa dell’avvento degli ologrammi tridimensionali
in movimento, disponiamo attualmente solo di immagini a due dimensioni:
ma bisogna tener presente che una credibile rappresentazione bidimensionale
ne presuppone una tridimensionale.)

Possiamo per esempio partire dalla formazione dell’attore. Da quando
– circa un secolo fa – hanno iniziato a definirsi, i metodi di formazione
dell’attore puntano in primo luogo sulla acquisizione di una serie di tecniche:
gestuali (mimo, danza, acrobatica, biomeccanica, scherma, arti marziali
eccetera) e vocali (dizione, canto eccetera). Queste pratiche, per usare
la terminologia di Eugenio Barba, “servivano a trasformare il corpo-mente
quotidiano dell’attore in un corpo-mente scenico”.

In un attore virtuale, queste tecniche non sarebbero altro che sottoprogrammi
da implementare quando necessario. Lo stesso accadrebbe per stili e tecniche
particolari, come per esempio il kathakali indiano o il no giapponese,
la danza classica o la tecnica Graham: data una certa struttura corporea
dell’attore, una determinata angolazione delle articolazioni, alcune posture,
gesti, movimenti – faticosamente acquisiti con il lungo training tradizionale
– verrebbero automaticamente rinforzati e favoriti dai programmatori, ottenendo
gli effetti desiderati.

In questa prospettiva (e nella prospettiva del creatore-regista dello
spettacolo), l’attore virtuale surclassa il suo collega in carne e ossa:
più versatile, in grado di eseguire con assoluta precisione le istruzioni
e di ripetere all’infinito la sua perfetta interpretazione. Per quanto
riguarda il regista, si tratterebbe di mettere a punto, secondo un procedimento
di prove e correzioni, le espressioni, le posture, i gesti in grado di
esprimere nella maniera più efficace contenuti ed emozioni, garantendosi
nel contempo una ferrea coerenza al proprio disegno spettacolare.

E’ possibile esplorare un’altra variante del test di Turing: partire
da alcune definizioni di attore per verificare se sono compatibili o meno,
applicabili o meno a un attore virtuale, e vedere dunque se esiste una
differenza con il suo collega in carne e ossa; se nell’essenza dell’attore
ci sono elementi irriducibili alla perfetta funzionalità della Supermarionetta.

Per esempio, la Garzantina dello Spettacolo alla voce “attore” dice
semplicemente “chi recita, chi interpreta una parte a teatro, al cinema,
alla televisione”: una definizione da dizionario, generica, e perfettamente
adatta anche a un attore virtuale.

Gerardo Guerrieri, nelle prime righe della più ampia e articolata
voce redatta per la gloriosa Enciclopedia dello spettacolo, scrive
invece: “L’attore è colui che agisce di fronte a un pubblico, sostenendo
una parte in uno spettacolo. Il termine deriva etimologicamente da agere,
agire, e si riferisce a una finzione non raccontata o descritta, ma rappresentata,
in atto, dinanzi agli spettatori (anche indirettamente, attraverso un mezzo
meccanico: disco, cinema, radio, televisione)”: un’altra definizione che
si adatta tanto all’attore virtuale che a quello reale. Prosegue Guerrieri:
“L’attore rappresenta l’opera dell’autore (che può essere egli stesso),
incarnandone i personaggi davanti a un pubblico. Da un lato, egli compie
una sintesi tra il personaggio di fantasia e la sua determinata persona;
dall’altro, funge da mediatore fra l’opera d’arte e lo spettatore, nella
definitiva unità dello spettacolo”.

Anche qui, la sovrapposizione tra attore reale e virtuale è quasi
perfetta, sembra esserci un solo elemento discriminante: “la sua determinata
persona”. La fisicità e la psiche, la storia e la cultura dell’attore.

Prevedibilmente, in una prospettiva semiotica i due modelli d’attore
si sovrappongono alla perfezione: “La funzione teatrale primaria dell’attore
è la rappresentazione del personaggio” (Elaine Aston e George Savona,
Theatre as Sign-System, Routledge, Londra, 1991, p. 125). Anzi, l’intercambiabilità
viene addirittura teorizzata:

“Nel contesto teatrale, l’attore è l’agente attraverso
il quale il personaggio viene mediato allo spettatore (…) Se in alcune
circostanze la funzione dell’attore viene assunta da un “agente” inanimato,
per esempio un burattino o le macchine progettate da Oskar Schlemmer, nella
sostanza non cambia” (ibid., p. 46).

Più curiosa l’impostazione della Cambridge Guide to the Theatre,
che alla voce “acting” (quella dedicata all’attore non c’è), annota:
“L’impulso di “far credere” (make-believe) e
di recitare (play) è comune all’intera umanità. Recitare
è insieme fare e fingere di fare. Per l’attore come per lo spettatore,
il misterioso potere di ogni rappresentazione (performance) nasce
dall’ambigua tensione tra realtà e finzione. Questa ambiguità
è presente in tutte le forme di recitazione, comunque le diverse
società o individui tentino di risolverla. Nel XX secolo, per esempio,
in Occidente numerose teorie sulla recitazione hanno insistito soprattutto
sull’integrità del fare, mentre nel XVIII secolo gli europei erano
più interessati alla natura autentica della finzione, al suo stile
e al suo corretto ruolo nella società”.

Insomma, il bravo attore non è solo una Supermarionetta. Il suo
apporto creativo risiede tanto nella sua malleabilità e versatilità,
nel suo bagaglio tecnico e virtuosistico, quanto nella sua viscosità
fisica, psicologica e culturale, nelle resistenze che oppone al testo e
al lavoro del regista, nella sua irridicibilità a un progetto predeterminato,
nelle energie profonde che questa resistenza fa riemergere.

Tutto questo è già stato detto e ripetuto, certamente,
in varie forme. Per esempio da Brecht nel suo Breviario di estetica
teatrale
: “Mai, nemmeno per un attimo, l’attore si trasformi completamente
nel suo personaggio: “Non rappresentava re Lear, era Lear” sarebbe un giudizio
disastroso”.

Ma resta interessante andare a cercare – in alcune esperienze in progress,
nella storia professionale e nei percorsi teatrali di alcuni attori – alcuni
di questi nuclei di energia, alcune linee di resistenza sulle quali è
possibile fondare un rapporto creativo con il regista. Un alfabeto di base,
una serie di possibili “gradi zero”, sui quali costruire una possibile
grammatica.

Per trovare una fonte di energia può essere utile far ricorso
a una definizione di Jerzy Grotowski. Non propriamente una definizione
dell’attore (o del suo predecessore archetipico), piuttosto quella del
suo calco, della sua matrice:

Performer, con la maiuscola, è uomo d’azione.
Non è l’uomo che fa la parte di un altro. E’ il danzatore, il prete,
il guerriero: è al di fuori dei generi artistici. Il rituale è
performance, un’azione compiuta, un atto. Il rituale degenerato è spettacolo.
Non voglio scoprire qualcosa di nuovo, ma qualcosa di dimenticato. Una
cosa talmente vecchia che tutte le distinzioni tra generi artistici non
sono più valide” (Jerzy Grotowski, “Il Performer”, in Centro
di lavoro di Jerzy Grotowski
, Centro per la Sperimentazione e la Ricerca
Teatrale, Pontedera, 1987, poi in “Teatro e Storia”, n. 4, 1988).

Il lavoro dell’attore vive costantemente del precario equilibrio tra l’attore
come artista e l’attore come personaggio. L’attore elettronico, la Supermarionetta,
è completamente sbilanciato sul secondo versante. Sbilanciarlo completamente
sul primo sarebbe un errore altrettanto grossolano. Ma nell’attore come
artista, come creatore è più facile trovare alcuni antidoti
alla deriva verso la Supermarionetta, alla tendenza ad asservire l’attore
a progetti registici che avverte come estranei.

Non è un caso, allora, che uno dei nodi ricorrenti in alcune
delle più interessanti e innovative esperienze degli ultimi anni
sia proprio questo: come rendere autenticamente creativo (in termini di
collaborazione e non di riduzione dell’attore a pura funzione), il rapporto
tra regista e attori. Con quali “metodi” – ma è più corretto
parlare di “pratiche teatrali” – innescare un meccanismo di scambio e arricchimento
reciproco, superando i vincoli di uno schema drammaturgico o registico
prestabilito da un lato, e dello sfogo espressivo dall’altro. Perché
questi vincoli – dal punto di vista dell’attore – alla lunga rischiano
di trasformare in frustranti vicoli ciechi tanto il teatro di regia quanto
il metodo di montaggio messo a punto da Eugenio Barba, e naturalmente anche
l’approccio “d’autore” che caratterizza le avanguardie.

Allo stesso modo, non è casuale che – in una fase di crisi di
identità e di ruolo, se è lecito il bisticcio – molti attori
avvertano la tentazione di lavorare da soli (soli sulla scena e/o svincolati
dalla presenza di un regista e di un autore): quasi a recuperare, in questa
drastica semplificazione, in una situazione laboratoriale, le condizioni
per ridefinire se stessi e il proprio lavoro. Con un’avvertenza: la solitudine
non può essere una risposta definitiva. Se in determinate circostanze
è quasi un passaggio obbligato, un terreno di scoperta, a lungo
andare i rischi di isterilimento e di ripetitività prendono il sopravvento.
Per tornare alla nostra metafora, il germe di autenticità finisce
ben presto per ridursi anche in questo caso a stereotipo marionettistico,
buono soprattutto per il piccolo schermo.

“Il teatro nasce proprio come diversità. Credo
che sia questa la motivazione che spinge a fare l’attore. Quando non si
riesce a essere protagonisti sociali, quando si è completamente
comandati, allora si sceglie l’intervento pubblico. Ecco perché
si sceglie di fare l’attore e non lo scrittore. Quello dell’attore è
un intervento pubblico, in senso sociale e fisico: dire la tua frase, fare
la tua cosa”. (Leo De Berardinis, “Per un teatro jazz”, in Jack Gelber,
La Connection, Ubulibri, Milano, 1983)

“Mi scoprivo simile, e allo stesso tempo diverso, dagli
esseri umani dei quali leggevo e ascoltavo le conversazioni. Ero un osservatore
che simpatizzava con loro e che, in parte, li capiva, ma avevo qualcosa
di informe nella mia mente; io non avevo legami con nessuno, non avevo
relazioni con nessuno. “Il sentiero per la mia dipartita era aperto”, e
non c’era nessuno per piangere la mia scomparsa. La mia figura era ripugnante,
e la mia statura gigantesca. Cosa significava questo? Chi ero io? Che cosa
ero io? Da dove venivo? Dove andavo? Queste domande mi assillavano, ma
non sapevo rispondere”.


(Mary Shelley, Frankenstein)

Oliviero_Ponte_di_Pino

2005-12-17T00:00:00




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