Parte 8. L’energia dell’attore. Una conversazione con Alfonso Santagata (1988)
Da Il nuovo teatro italiano 1975-1988
da Il nuovo teatro italiano 1975-1988. La ricerca dei gruppi: materiali e documenti, La casa Usher, Firenze, 1988. © copyright Oliviero Ponte di Pino, 1999
COMPAGNIA KATZENMACHER
Anche se l’etichetta di “teatro dell’emarginazione” a loro sta giustamente stretta, è questa la prima chiave di lettura che s’impone di fronte agli spettacoli di Alfonso Santagata e Claudio Morganti. Con un’avvertenza: l’emarginazione non è il tema dei loro lavori, lontani da ogni indagine banalmente sociologica come dal teatro politico. Costituisce piuttosto il nocciolo centrale della loro ispirazione, un filo rosso cui restare sempre legati, una costante spinta all’instabilità. Così ecco sfilare nei loro lavori i sottoproletari emigranti di Katzenmacher, il violento e alienato antieroe di Büchner, i sordidi sicari elisabettiani di En passant, i due killer e la claustrofobia del Calapranzi, i fantasmi dei personaggi shakespeariani insieme a quelli degli abitanti di Mucciana City, la disperata solitudine e la reclusione ospedaliera di Kaspar Hauser, le vite sconfitte e spezzate di Dopo, l’omaggio al Don Chisciotte. Ovvero la criminalità e la follia, l’ospedale e il carcere, ma anche la maledizione della diversità dell’artista (e del teatrante), lo slancio sempre eccessivo del grande sognatore, che spingono ogni volta oltre la norma, in una terra di nessuno in cui dominano insieme violenza e tenerezza, in cui deve prevalere il senso del rischio.
Lo stesso processo creativo appare centrato su questa necessaria alterazione, su un eccesso di energia psicologica e fisica da riversare sullo spettatore. Alla base c’è però, sempre, la conoscenza della precisa realtà materiale e dei rapporti sociali che determinano l’emarginazione: da questa coscienza nascono insieme il realismo e l’intensità della loro presenza scenica. Sono gesti e toni tanto precisi da diventare il ritratto assoluto di una condizione umana, fino ad assumere, nella loro minuziosa quotidianità, un carattere astratto, fino a contenere il ritratto di un intero mondo.
La scelta di questa poetica della marginalità non è quindi la conseguenza di un populismo o di un neorealismo fuori tempo: è piuttosto legata al nocciolo del romanticismo, alla salvaguardia di una zona franca in cui preservarsi dalla volgarità del presente, in cui far riemergere i sentimenti in tutta la loro tensione, fisica e morale. Per aprirsi alle forze, anche distruttive, dell’inconscio. Per tenere aperto uno spiraglio alla creatività.
CONVERSAZIONE CON ALFONSO SANTAGATA
Vorrei che ripercorressimo insieme le tappe del vostro lavoro. Il punto di partenza e di incontro è stato la compagnia di Carlo Cecchi.
È stata la cosa decisiva, io e Claudio ci siamo conosciuti in quella situazione. Poi siamo rimasti senza lavoro, perché quella di Carlo Cecchi era già diventata una specie di compagnia di giro, aveva già tempi precisi, doveva programmare con molto anticipo. Cecchi ci comunicò che nel lavoro successivo per noi non c’era posto. Eravamo nel mondo dei ruoli, nel mondo tremendo del lavoro, in cui ogni anno si decide un testo diverso con una sua messinscena, senza un’idea o uno spirito di gruppo: c’è un personaggio che puoi fare e un altro che non puoi fare. Quindi, o entri in questi meccanismi un po’ impiegatizi – le conoscenze, le telefonate, ecc. – oppure ti scrolli di dosso tutto e rischi in prima persona, ed è stato quello che abbiamo fatto io e Claudio.
Come eravate arrivati a Cecchi?
Io avevo addirittura frequentato la Civica Scuola d’Arte Drammatica di Milano; poi c’è stato il primo lavoro con Dario Fo, un’effimera esperienza con Ronconi e infine ho lavorato con Carlo Cecchi per tre anni. Ma avevo da tempo una mia idea da realizzare: all’inizio doveva essere una specie di monologo, che era poi la storia di Katzenmacher,e proprio questa traccia è diventata in seguito lo spettacolo che abbiamo fatto io e Claudio. Siamo partiti assolutamente da zero, senza nessuna possibilità produttiva. Nessuno ci ha dato un soldo, non ce n’era bisogno, l’importante era solo sopravvivere. All’inizio doveva essere semplicemente un momento di ricerca di un’altra possibilità: ci dicevamo che andava bene continuare con la compagnia di Carlo Cecchi (che è una persona che stimo e con cui si può lavorare) ma volevamo anche crearci una nostra chance. E invece, dopo Katzenmacher, siamo partiti per la nostra strada.
Cosa vi è rimasto dell’esperienza con Carlo Cecchi?
È stato soprattutto un maestro di vita. Per esempio, era interessante non tanto quando esponeva le varie esperienze, le varie teorie, ma quando richiamava gli attori al senso concreto della vita. Non era importante l’uso di una metodologia, non si trattava neppure di tirare in ballo i propri fatti privati, ma di mettere in gioco il “Ci credo” o il “Non ci credo”, di sollevare il grande dubbio: e questo è fondamentale.
Puoi parlare del vostro primo spettacolo?
Di Katzenmacher mi è rimasto quasi tutto. E una di quelle cose che hai così dentro… è il grande amore che non puoi rivelare a nessun altro. Non hai più bisogno di incontrarne altri di quella natura: non più di quel mondo, di quella forza, di quella grande energia drammatica. La storia era sull’emarginazione degli emigranti in Germania, ma si rapportava anche all’educazione, alla memoria. È stato fondamentale proprio il lavoro che abbiamo fatto sulla memoria, soprattutto nei primi tempi, finendo oggi, con Saavedra, nell’annullamento totale della memoria, nella ripetizione ossessiva. In Saavedra non si tratta più di ricordare, di prendere qualcosa dalla memoria e trasfigurarlo: era proprio l’oblio totale, chiudere con la memoria e giocare. L’oblio, insomma, fuori dal mondo: e questo è il Don Chisciotte.
Per tornare a Katzenmacher, la lingua era il meridionale; Claudio, pur essendo ligure, era bravissimo a entrare in questo mondo. Per me era un momento particolare: avevo incontrato un grande pensiero drammatico, quello di Artaud; mi sono molto identificato con la sua opera, anche se poi Artaud ha sempre fallito nella pratica. Mi ha come spostato la vita e il pensiero della vita, in rapporto alle mie cose personali, ai nervi; a questo teatro dei nervi, alla tensione drammatica, a un evento possibile, alla grande illusione, al grande teatro, e anche al midollo, al sangue, alla pulsione, al corpo irrigidito, al corpo che si frantuma: in rapporto a quelle grandi sensazioni che sono fondamentali per chi agisce e si mostra sera dopo sera.
Noi, io più di Claudio, abbiamo bisogno del disagio, in teatro: non possiamo farne senza. Non riesco a concepire un teatro dove ci si fortifica sempre più. Anzi, quando ce l’ho, levo qualcosa. Per me sono fondamentali una caduta casuale, un’amnesia, una pausa, l’afasia: non fino alla patologia, sia chiaro. Sono grandi momenti che lasciano segni senza cifrarli. E infatti non abbiamo mai fatto un teatro di immagine, anche se abbiamo tentato di fare un teatro con un immagine molto forte; è chiaro che Bruegel, tanto per fare un esempio, lo si conosce bene, ma non abbiamo mai tentato di fare trasposizioni teatrali della pittura. Pensiamo sempre prima di tutto all’anima di colui che agisce, anche perché abbiamo sempre considerato colui che agisce come unico artefice del proprio lavoro. Lo dice anche Carmelo Bene: “Io non voglio servire i personaggi degli altri, voglio servire me.” Quindi l’incontro con Artaud è stato fondamentale; anche perché lui non ha mai parlato di interpretazione, di caratterizzazione, di personaggi…
Credo che in questa necessità di autospiazzarsi in quanto attori sia possibile rintracciare uno dei motivi per cui costruite personaggi di emarginati, che non si ritrovano all’interno delle regole sociali codificate.
Ci sono condizioni e stati d’esistenza supremi, che sono fondamentali per il teatro come per la vita: l’amore, la guerra, la gelosia, la follia. Sono rimasto così affascinato da quel grande momento drammatico che è la follia che ho dovuto allontanarmene, perché la follia sprigiona anche un fascino che ti cattura. Come successe ad Artaud, che in questo senso era un emarginato; o a Don Chisciotte, un altro grande eroe emarginato. Per noi è fondamentale l’emarginazione in questo senso. Non tanto l’emarginazione determinata dalla stratificazione sociale, il sottoproletariato, ecc., anche se in Katzenmacher; in Büchner mon amour e in En passant c’erano anche questi aspetti; ma sono fondamentali soprattutto questi grandi sentimenti, i grandi sentimenti alterati. Non si può pensare a un teatro rilassato, quieto, pacifico. Quando arriverò a cercare la pace, smetterò di fare teatro. Il teatro è un grande momento, un grande incontro, un grande scontro: mi vengono in mente il ring, l’arena, i momenti di pericolo.
In che senso parli di scontro e di pericolo? Contro chi si rivolge tutto questo?
Contro una ideologia, una cultura, verso certe cose e contro delle altre. Non contro un nemico, non penso mai al pubblico come a un nemico. Anzi, può esserci veramente, nel buio tremendo della sala, la sensazione di qualcuno che ti sta vicino senza che lo si veda in faccia. Comunque, c’è sempre una lotta, un incontro/scontro: per noi il teatro è anche rischio, ci ha fatto e ci fa molte ferite. Ma non ci interessa l’idea dell’happening, del “Quel che succede, succede”. Lavoriamo sempre con un grande rigore, nei confronti del teatro e di noi stessi.
Come costruite i vostri spettacoli?
C’è sempre un qualcosa di informe: vuoi fare qualcosa ma non riesci a capire esattamente cosa: sono sensazioni. L’unico dato preciso è quello che non vuoi fare. Questa grande ombra che hai dentro, questa materia ancora senza corpo, è come una grande forza inconscia, oscura. In genere, comincio con una scaletta. Comincio da un’immagine, scrivo delle cose e iniziamo subito a lavorare.
A livello di scrittura, si tratta di una sorta di canovaccio.
Esatto. Cominciamo con alcuni elementi. Per esempio, la luce è fondamentale. Non la pensiamo mai impostata a monte, o creata dopo: per noi è fondamentale provare, fin dall’inizio, con una lampadina sistemata in un certo modo, oppure con un neon o con una torcia.
C’è una scena di Mucciana City in cui girate nel buio della platea con un ombrello e una lampada: un’immagine indicativa di questo processo di costruzione delle immagini con la luce.
Per noi è fondamentale, e proprio per questo non riusciamo a definirla prima. La luce è un gesto, è un atto drammatico: quindi abbiamo bisogno di provare con la luce, prima ancora di imparare a memoria le parti e di lavorare sul personaggio, prima di cominciare a dare respiro, aria, a questa cosa molto oscura, informe.
Da questa materia arrivi poi ad altro, e quando ci arrivi spesso l’elemento di partenza è proprio ciò che devi levare. Comunque quasi sempre l’immagine che ti fa partire, l’idea originaria, la sensazione di un certo momento drammatico, è proprio quello che alla fine vai a sottrarre: perché senti che c’è qualcosa di misterioso che non riesci bene a capire, che non riesci a codificare. Anche perché noi ci esprimiamo in prima persona, per cui non si tratta tanto di cucirci addosso il personaggio come un vestito, ma di far reagire bene la nostra anima, con aria. E ogni volta è fondamentale costruire questa specie di spartito libero, anche perché ti trovi ogni sera a dover reinventare l’energia: altrimenti c’è il rischio dell’impiegatizio, come nel novanta per cento del teatro italiano, che ha senso solo perché si ripete.
Quanto cambia lo spettacolo tra una replica e l’altra?
Per quanto mi riguarda, cambia moltissimo: ti cambia la respirazione, l’energia. Ma non si tratta di andare in un altro mondo, c’è un grande rigore in questo spartito libero.
Dunque la partitura è fissa.
Assolutamente. C’è qualcosa di musicale, quasi da direttori d’orchestra. Sera per sera si crea un rapporto molto diverso, senti, nel buio della sala, cosa c e e cosa manca.
Che rapporto c’è, nella costruzione degli spettacol4 con gli oggetti che usate in scena?
Non riusciamo a pensare alla scenografia. Perciò la scelta dell’oggetto scatta dopo, a cose fatte; ma può scattare anche prima. Per il nuovo lavoro che ho in mente di fare su Dostoevskij, ho un’immagine che parte dall’ombrello. Dico “immagine” anche se è sbagliato, ma ho un’immagine quasi cinematografica: partendo dall’ombrello, ho in mente di fare uno spettacolo su Dostoevskij, sul suo doppio pensiero della pioggia e del vento.
Gli oggetti per me sono fondamentali: quando giro per la città, piuttosto che davanti alle vetrine di indumenti mi fermo più volentieri davanti a un ferramenta, a un autoricambi o a un negozio di giocattoli. Queste cose mi incuriosiscono più di uno stile, di un indumento, di un costume. Per noi non esiste mai un oggetto che va a decorare qualcosa: l’oggetto fa esplodere qualcosa o è con te per far esplodere qualcosa.
Un altro punto di partenza dei vostri spettacoli sono le suggestioni letterarie: penso a Büchner, o all’ultimo spettacolo su Cervantes e Don Chisciotte o ancora al Dostoevskij di cui dicevi ora.
Credo che il fascino maggiore di questi autori stia soprattutto nella loro storia privata, nella loro biografia. Anche in Cervantes: mi ha colpito dapprima la sua vita e solo dopo ho letto Don Chisciotte della Mancia. Per noi la prima cosa importante è l’autore…
Non a caso uno dei vostri spettacoli si intitolava Büchner mon amour..
…la seconda è il grande romanzo. Sono molto più affascinato da un grande romanzo che da un testo teatrale.
Puoi provare a precisare alcuni motivi che hanno ispirato le vostre a/unità elettive letterarie?
Le prime cose che leggo sono le biografie, i momenti storici. In Büchner mi hanno colpito innanzitutto le lettere che scriveva ai genitori quand’era inseguito dalla polizia. Poi sono passato alle cose più piccole, come la novella Lenz, che è stata una rivelazione, una conoscenza, un grande incontro, un grande amore: che non vuol dire rispetto, ossequio, ripetere ciò che l’autore ha detto, ma dare pennellate con la dizione o comunque con i personaggi.
Nei confronti di un grande amore c’è sempre una grande infedeltà: c’è stata anche in Büchner mon amour, perché non abbiamo assolutamente fatto un testo di Büchner ma siamo entrati in alcune sue cose, anche fisiche, nel suo corpo, credo. Il tradimento è un grande gesto. Non è la vigliaccata, né la spiata: il grande tradimento è un gesto d’amore.
Alla Genet?
Sì, anche.
E dopo Büchner mon amour?
En passant… È stato il periodo degli elisabettiani. Ci siamo chiesti il senso dei grandi re elisabettiani, shakespeariani: che senso avevano, se non c’era la manovalanza criminale? Siamo partiti da questo e abbiamo costruito i percorsi di due criminali che si devono vendicare di Arden, perché sono innamorati di sua moglie. Poi abbiamo fatto Il calapranzi.
Pinter, un altro grande amore. È l’unico testo teatrale che avete portato in scena.
Ma è stato anche un altro grande tradimento. Il calapranzi, tra l’altro, è partito da una esigenza ministeriale, come del resto Dopo, che è nato per “Firenze capitale europea della cultura”. Ai tempi del Calapranzi avrei fatto più volentieri Genet, invece c’è stato questo incontro con Pinter e con Il calapranzi,che è stato lo spettacolo che ci ha lanciato. E stato un peccato.
In/atti è il vostro lavoro meno personale, meno connotato.
È vero. Oltretutto chiunque, iniziando a fare teatro, leggendo teatro, ha fatto Il calapranzi di Pinter. Ma abbiamo sempre idee precise su quello che non vogliamo fare: in quel caso si trattava di non fare gli inglesi. Secondo me l’idea più bella era imparare a memoria la parte per poi dimenticarla. L’elemento fondamentale era l’attesa, anche perché in teatro l’attesa c’è sempre, a meno che non si tratti di uno di quegli attori-impiegati che non vede l’ora di dire le sue battute e andare via. L’attesa è un momento del teatro, un grande momento.
Dopo Pinter abbiamo fatto Mucciana City. Già con Pinter avevamo messo in attesa molte persone che pensavano che avremmo portato in scena un altro testo: era un modo di tirarci dentro le istituzioni. E invece, con lo spettacolo successivo, alla Biennale di Venezia, su invito di Franco Quadri, rifiuto totale. Siamo partiti dalla mia casa di campagna, dove vivo: Mucciana è una strada, una via. C’erano una scuola, una chiesa, un cimitero. C’era un’autarchia totale, la gente poteva viverci senza che ci arrivasse nessuno per cinquant’anni, e viveva bene. Quando siamo arrivati noi, non c’era più niente.
Era stato abbandonato?
No, hanno semplicemente cominciato a costruire ville residenziali, ecc. Pensando a questa storia, fantasticavo sulla vita che poteva esserci in quel luogo e mi è venuta in mente Mucciana City: di fronte a una città di morti, è esplosa la necessità di rivendicare i grandi sentimenti e anche il tradimento di Amleto, di Ofelia. C’era anche Otello, ma anche in quel caso era tradito fino in fondo: perché non ci interessava l’”operazione”. Le operazioni non ci hanno mai interessato. Quando ci chiedono che tipo di teatro facciamo, rispondiamo sempre: “Il nostro!”. Ho sempre amato le grandi differenze, i Magazzini per esempio, che sono lontanissimi dal mio mondo teatrale e drammatico; poi Bob Wilson e Pina Bausch, con cui non abbiamo niente da spartire. Invece c’è chi ama le tendenze, e si crea un immaginario creativo, e in qualche modo sceglie i propri riferimenti. Invece io non voglio avere nessun riferimento. Se qualche volta ci sono state citazioni, che per fortuna non ci sono più, da Leo De Berardinis a Carlo Cecchi, erano dovute solo a un’ideologia drammatica, a una concezione del modo di stare in scena. In realtà facciamo un nostro gioco, assolutamente libero e senza riferimenti.
Penso che non sia possibile che chi fa teatro non cambi mentre lo fa: hai più possibilità di conoscere la vita. Ma non credo assolutamente alla trasfigurazione attraverso il teatro. Penso sempre a cambiamenti per energia. Per me già pensare a un nuovo lavoro vuol dire – ma in modo naturale, perché me lo impongo battere una strada nuova, non tornare indietro, non rifarmi: è il piacere di inventare. Personalmente preferisco fare esperienze diverse, ma non ho voglia né di messe in scena, né di teatro di testo: voglio andare avanti sulla mia strada, per cui i cambiamenti sono, per così dire, nella pulsione, non tanto nel pensiero. Non ho mai pensato più di tanto a uno stile, a una forma, perché non mi interessano. Ma mi alleno, continuo ad allenarmi, perché l’avversario cambia ogni volta.
Finora avete lavorato in coppia, tu e Claudio.
Però una terza persona c’è sempre stata. E anche quando eravamo in due, non era il pubblico. In En passant, era una donna che ci faceva delle promesse che poi non manteneva. In Hauser/Hauser c’era un autentico attore di varietà, che recitava dall’inizio alla fine e funzionava come contrappunto alla nostra concezione del teatro; in Mucciana City c’era Silvia Pasello che faceva Lady Macbeth; in Saavedra c’è l’Albanese. Esiste sempre una terza persona; forse è veramente l’”altro”.
E il rapporto tra te e Claudio? Siete due doppi, identici?
Assolutamente no. Abbiamo due concezioni del mondo diverse, due energie diverse, due fisici diversi, due voci diverse. Siamo due strumenti opposti che suonano insieme. Ma possiamo farlo sulla base di quello che ciascuno di noi è. Non siamo due energie che si spalleggiano per l’attacco o per la difesa, anzi certe volte ci mettiamo il bastone fra le ruote. Ma per il teatro sono fondamentali il grado di attenzione, la tensione drammatica, gli sguardi. Io e Claudio siamo ognuno l’”altro” di se stessi, ma non il “doppio”. Non è l’altra faccia della medaglia, è il pensiero raddoppiato: penso che questa diversità tra me e Claudio sia indispensabile per il teatro che facciamo, per un teatro che potrebbe finire tutte le sere senza che si sappia cosa succederà il giorno dopo. Recentemente abbiamo ripreso Büchner mon amour: non riuscivamo, nei primi giorni, a cogliere lo spirito, l’anima, l’aria che l’avvolgeva. Mi dicevo che allora facevo grandi cose, che se agivo in un certo modo, avevo i miei motivi precisi.
Siete poi riusciti a ritrovare il senso dello spettacolo?
No… o forse sì, ma diverso da quello originale. Non possiamo fare uno spettacolo senza pensare a questo motivo preciso, a questo odore, a queste sensazioni, a queste atmosfere, a queste indecisioni, a questa forza, altrimenti è un problema: non possiamo rifare un vecchio spettacolo pensando alle battute, non esistono. Per noi la battuta, la parola ha un senso solo quando vai al suono, solo se parti dalla nascita della parola, perché non abbiamo mai pensato a come dire le battute. Esiste un momento per arrivarci, ma non abbiamo mai creato nei nostri spettacoli lo stato psicologico, analitico ecc. Per noi sono fondamentali il teatro, il gioco e la vita. È indispensabile sollevare il grande dubbio: “Ci credo” o “Non ci credo”. Quelli che fanno finta di crederci sono noiosi, stucchevoli. È meglio farsi una passeggiata piuttosto che andare a teatro a vedere quelli che alla fine scappano via senza avere una storia, senza credere a quello che fanno. Quello che facciamo, invece, è la grande menzogna. Ma non la devi leggere, non la devi scoprire. Questo è il gioco.
Per leggere il testo dell’intervista Clicca qui.
Oliviero_Ponte_di_Pino
2005-12-16T00:00:00
Tag: MorgantiClaudio (3), SantagataAlfonso (3)
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