L’Europa allargata, le sue ansie, il suo teatro a Dialog
Il Festival Internazionale di Wroclaw, 8-16 ottobre 2005
Dialog è un festival teatrale internazionale biennale. E’ solo alla terza edizione, ma si sta affermando come uno dei principali appuntamenti della “nuova Europa”. A decretare il suo successo basterebbe la numerosa e qualificata rappresentanza di operatori presenti, direttori di festival teatri, critici provenienti da tutti gli angoli del vecchio continente – pochi dall’Italia – ma non solo (Stati Uniti, Corea, Canada …), mescolati al gruppo vivace dei giovani aspiranti critici che, selezionati a livello internazionale, seguono un laboratorio di analisi scrittura legato al programma, e al pubblico-pubblico, numeroso e giovane.
Una platea attratta da un programma che accosta nomi “sicuri”, conosciuti a livello internazionale ma non troppo scontati (proponendoli comunque in un’ottica di progetto o di percorso, più che per l’opera in sé o semplicemente perché esistono), con proposte curiose, senza barriere di tendenza e di generazione e con una selezione accurata di proposte polacche e dell’area baltica. Ma soprattutto un programma che si sforza di sviluppare un pensiero, di articolare un ragionamento sul teatro e sulla sua funzione nel presente. Il festival è infatti strutturato – con una serie di percorsi interni – intorno a una considerazione di fondo, la stessa che dà il titolo al convegno conclusivo, Il teatro come specchio delle ansie dell’Europa.
Con rigore e chiarezza di idee, seppure lasciando aperti molti interrogativi, Dialog offre una propria risposta al dibattito sulla forma/festival e la sua funzione: si parte dal teatro e al teatro si torna, senza dimenticare che non è l’ombelico del mondo.
Chiacchierando con gli altri ospiti ma anche da qualche battuta degli artisti negli incontri che costellano la manifestazione, mi rendo conto che questa struttura non è apprezzato da tutti, e ad alcuni appare forzato e pretestuoso: il rischio esiste, come sanno tutti quelli che progettano festival a tema, ma mi pare più interessante correre questo rischio con rigore che moltiplicare i festival tipo grande-abbuffata o la formula (variabile secondo budget) 2 o 3 di soliti-noti, qualunque cosa facciano + un paio di scoperte altrui a medio costo (possibilmente già di moda) + riempitivi locali e non.
Gli spettatori più critici sulla struttura del programma sono stati del resto attratti qui dal dinamismo e dal prestigio del suo direttore, Krystyna Meissner. Oltre che dal fascino della città: Wroclaw è una di quelle antiche capitali europee di medie dimensioni, dove chi c’è stato ritorna volentieri. Città d’acqua, solcata da canali e attraversata da ponti, città che ha saputo salvaguardare e restaurare mirabilmente i suoi tesori medievali (una selva di campanili e torri gotiche solcano il cielo orientando – e disorientando – il visitatore), barocchi (la splendida università) e neoclassici (il Teatro dell’Opera), come il suo recente e fiorente passato liberty, la città appare oggi estremamente viva (ci sono 120.000 studenti e si vedono!), che un inizio autunno particolarmente mite rende allegra. L’immensa piazza del mercato -dove i locali polacchi e tedeschi si alternano ai ristornanti italiani, spagnoli, cinesi, e naturalmente al McDonald e al Pizza Hut – pullula di giovani e meno giovani fino a notte inoltrata, quando tutte le contraddizioni della vecchia e nuova Europa si stemperano in un’allegria di fondo, un po’ “alcolica” ma senza eccessi.
Un ultimo elemento, ma di non minore attrazione, è dato dal ruolo tutt’altro che secondario che la città ha giocato nella storia recente – e meno recente – del teatro polacco ed europeo. Da qui è partita negli anni Sessanta l’attività di Jerzy Grotowski, con il suo Teatro Laboratorio, ed esiste ancora un centro attivo che porta il suo nome. Qui Henryk Tomaszewski ha fondato il suo famoso teatro di pantomima. Qui Jerzy Grzegorzewski, considerato uno dei maggiori registi del paese, scomparso nell’aprile di quest’anno, è stato a lungo, fra gli anni Settanta e Ottanta, direttore del glorioso Teatro Polski, considerato dal punto di vista istituzionale il terzo teatro polacco, dopo il Teatro Drammatico Nazionale di Varsavia e lo Stary Teatr di Cracovia. Per il Teatro Polski ha realizzato alcune delle sue principali produzioni anche Krystian Lupa, oggi indiscutibilmente il massimo regista del paese e fra i protagonisti del festival. Da una mostra fotografica storico-teatrale allestita presso la sede di Dialog apprendo fra l’altro che anche Kieslowski ha girato qui il suo primo film e che questa vivacità non è solo culturale: Wroclaw è stata uno dei principali centri di Solidarność, qui è nata “alternativa arancione”, forse il principale movimento anticomunista, nell’87-88.
Dialog: la struttura
Sono dunque le problematiche dell’allargamento dell’Europa a guidare le scelte e i percorsi interni del festival. La domanda centrale è se il teatro sia in grado di esprimere, riflettere, interpretare le inquietudini e le ansie di questa Europa allargata. Ma non aspettiamoci un generico europeismo di maniera o un indulgere al diffuso euroscetticismo.
Il preambolo della Costituzione europea parla di un'”identità culturale, religiosa e umanista dell’Europa da cui si sono sviluppati i valori universali”.
Si chiede Krystyna Meissner:
Cosa significano in pratica questi valori universali? Che cos’è – e in quale condizione si trova – la comunità spirituale e culturale dei 25 stati membri?
Che cosa significa esattamente identità europea?
E soprattutto quale è il posto del teatro nella comunicazione fra gli uomini e nella discussione intorno ai valori oggi?
Il teatro esprime le ansie dei cittadini dell’Europa unita, e come lo fa?
Questi temi stanno prendendo peso anche in teatro: sempre di più gli artisti, in queste ultime stagioni, si pongono domande di fondo sul codice morale che regola oggi la vita della gente, si chiedono se esiste un credo comune e in cosa consiste.
La terza edizione di Dialog-Wroclaw è un tentativo di diagnosi – all’interno del teatro e attraverso il teatro – sulle condizioni dell’europeo oggi. Con il festival di quest’anno vorrei porre le domande più importanti intorno all’identità. Questo è stato il criterio per scegliere gli spettacoli, questo è lo spirito che anima gli incontri, i laboratori e il convegno conclusivo.
L’assunto è sviluppato strutturando ogni giornata intorno a un tema, o a un quesito particolare:
– Esiste una coscienza europea?
– Cittadini di un’Europa allargata.
– Di fronte alla violenza e alla guerra.
– L’arte come sublimazione.
– Oltre l’uomo (l’uomo è qualcosa che va superato).
– Guardarsi dall’essere umano.
– Il mondo dell’eroe detronizzato.
– Il problema dell’altro: l’Europa e il mondo.
Infine fa tema a sè il progetto/epilogo di Marthaler. Titolo:
– Difendersi dal futuro.
Non pensate però a un festival sbilanciato in senso socio-filosofico. Il rigore delle scelte, per quanto aperte in termini di tendenza, privilegia criteri di gusto e qualità, più che una stretta pertinenza ai temi (che non sono però nel complesso elusi).
Del resto Krystyna Meissner è soprattutto regista e direttore di teatro, anche se nota all’estero più come artefici di importanti appuntamenti nazionali e internazionali, fra cui va citato almeno il festival Kontakt di Torun, sempre in Polonia (cui Dialog mi sembra porsi oggi in concorrenza); è stata inoltre consulente di manifestazioni internazionali (spesso molto ufficiali come la discutibile Europalia di Bruxelles) e componente di giurie prestigiose (fra cui quella del premio teatrale europeo).
Il rischio che una struttura troppo precisa indirizzasse verso una lettura rigida dei temi proposti, è stato quindi brillantemente evitato dalla qualità delle proposte e da un’offerta articolata ma non sovraccarica: 18 in tutto gli spettacoli (di solito con 2 rappresentazioni ciascuno), distribuiti in 8 giorni + un epilogo distanziato (la produzione di Marthaler che non ho potuto vedere). Fra questi: 6 spettacoli polacchi, 4 dall’area baltica, e per il resto produzioni inglesi, russe, olandesi, belghe, ungheresi (nessuna italiana: nella precedente edizione, nel 2003, erano state ospitate le Albe di Ravenna con I Polacchi), 8 discussioni, un convegno finale, due mostre, un laboratorio internazionale per giovani critici.
Dialog può contare su una dotazione eccezionale di spazi che, rispetto ai problemi consueti dei festival “intensivi”, consente una relativa tranquillità (e quindi una maggiore qualità) nel montaggio degli spettacoli. I quattro giorni necessari al progetto di Krystian Lupa Pièce incompiuta per attore, per esempio, lo rendono improponibile e lo tagliano fuori di fatto da altri festival. Alle tre sale tradizionali – il medio palcoscenico del teatro che organizza il festival, sempre diretto dalla Meissner (il Wroclawski Teatr Wspolczesny), il Teatro dell’Opera, la sede principale del Teatro Polski – si aggiunge una rete davvero invidiabile di spazi scenici non convenzionali o flessibili. Prima di tutto lo splendido spazio recuperato presso la antica stazione Wiebodski (la seconda sede del Polski). Almeno quanto a qualità e disponibilità di sale teatrali non ci si può proprio lamentare dei regimi ex socialisti. Poi le due sale di Film Studio, una specie di Cinecittà degli anni Sessanta, oggi poco o per niente utilizzata per la produzione cinematografica; e la vicina Hala Ludova, un gigatesco edificio in stile modernista del 1913, con una cupola che sfida San Pietro (ospita eventi sportivi, raduni di massa, a volte anche spettacoli). E ancora uno studio televisivo e un hangar in periferia.
I temi e gli spettacoli
Primo giorno. Esiste una coscienza europea?
Il quesito più impegnativo non può che trovare una risposta complessa: in principio c’è un sanguinoso passato comune, che ci ha visti l’un contro l’altro armati (La Grande Guerra di Pauline Kalker), e prima ancora una comune radice mitica, che ci ha consentito di elaborare, ma non ha nascosto, l’amoralità e perfino la bestialità (Fedra secondo Arpad Schilling). Oggi la chiave di lettura del cabaret noir dello stesso Schilling non consente facili ottimismi, ma solo di ridere con intelligenza, sull’evoluzione della nuova Europa, o meglio, sui mali rimasti e i nuovi contagi.
L’olandese Hotel Moderno diretto da Pauline Kalker, gruppo abbastanza noto, propone un raffinato, artigianale e tecnologico “teatro d’oggetti”. La Grande Guerra è una riflessione poetica che commenta attraverso lettere dal fronte (o viceversa), un sorprendente gioco a tavolino, realizzato dal vivo – con soldatini, trincee, bombardamenti – e proiettato su grande schermo.
Fedra, interpretato dalla compagnia indipendente Krétakör Színház di Budapest, offre una lettura moderna del mito, per certi versi una revisione totale, e ci riporta mitologicamente alle origini d’Europa. Lo spettacolo ha lasciato molte perplessità fra pubblico e operatori ma rappresenta, a mio parere, un esperimento coraggioso, una sovrapposizione consapevole di idee e stili diversi che in parte rappresenta – o forse prelude – a una presa di distanza dalla ricerca tutto sommato ancorata al realismo psicologico che aveva caratterizzato fin qui il lavoro del giovane regista ungherese. Una sorta di parodia della commedia borghese (con una staticità da soap opera) caratterizzano il personaggio principale e la celeberrima vincenda della passione non corrisposta, commentata da un coretto femminile irresistibile di “divette” in stile televisivo (e, nella scelta del commento musicale e delle modalità espressive del coro, mi sembra ci sia – come anche nello spettacolo successivo – un’evidente influenza di Marthaler), mentre un grottesco macabro ed esagerato – in stile operistico – è dedicato all’antipaticissimo Teseo. Tutto questo non impedisce, anzi valorizza, stacchi di verità: violenza o profonda pietà.
Successo indiscusso invece per BLACKland, il cabaret sociale e politico dedicato alla “nuova” Ungheria (e alla nuova Europa). Anche in questo caso una creazione corale, con il gruppo Krétakör Színház al gran completo. Temi seri, anzi serissimi – la corruzione, il razzismo, il suicidio, l’aborto – e specialità nazionali antiche o recenti – l’industria pornografica, la delinquenza d’imitazione, il doping, l’antisemitismo – si alternano senza soluzione di continuità, e a ritmo frenetico attraverso scenette caustiche, ironiche: irresistibili.
Secondo giorno. Cittadini di un’Europa allargata.
Alvis Hermanis – regista lettone, giovane ma non govanissimo – risponde con il rigore di un doppio progetto al tema proposto, che comprende uno spettacolo ispirato aNel fondo di Gorkij e Lunga vita, riflessione scenica sulla vecchiaia. Mi sembra che in sostanza il problema – la domanda, ma anche la risposta – stia nella constatazione che, vecchia o nuova Europa, esistono cittadini di serie A e di serie B, e anche “non-cittadini.
Hermanis è l’autentica scoperta di questa giornata. Per me almeno, e per quanto mi riguarda dell’intero festival: una scoperta tardiva, ma non per questo meno folgorante. Se ne parla da un po’ nei festival europei, è stato fra l’altro nel 2003 a Salisburgo (col Revisore di Gogol), in Italia a Parma nel 2004 e quest’anno a Modena e Roma (ma nessuno ha presentato i due spettacoli assieme, con un certo disappunto del regista che li vede come strettamente collegati). Una produzione locale, Made in Poland, offre invece una poco credibile visione bluson noir della gioventù polacca.
By Gorkyy si ispira all’Albergo dei poveri (o Nel fondo) di Gorkij. Il mondo degli esclusi non è più composto solo da senza casa e mendicanti: scivolare dall’essere qualcuno a non essere nessuno può succedere a chiunque. In un cubo/casa trasparente e in un gioco di stanze, interni e esterni, Hermanis esplora e spia i suoi personaggi, i loro sogni, le loro finzioni, le frustrazioni, gli amori, l’aggressività e ce li propone – con voyerismo e con crudezza, ma con compassione – anche attraverso effetti multimediali. Uno spettacolo corale (15 gli attori del Teatro Jaunais di Riga, in Lettonia), ma con grandi prove individuali, sempre teso e senza cadute, ma con alcuni momenti di grande teatro. E anche (dal programma del festival) “un ricco campionario delle ansie delle generazioni giovani e di quelle di mezzo dell’Europa di oggi”.
In Lunga vita al centro dell’attenzione sono invece i vecchi: due anziane coppie sposate e un single osservate nel loro appartamento collettivo, la vita di ciascuno e le loro relazioni, dal mattino alla sera. Un ritratto della vecchiaia, a volte ridicolo a volte commovente: la fatica, l’impazienza, le risorse, i desideri, le manie, il rapporto con gli oggetti, la malattia, la povertà. Nonostante la situazione di partenza (l’appartamento collettivo), anche in questo caso non si esplora – mi sembra – l’Europa dell’Est, ma una condizione esistenziale comune. Lo spettacolo è senza parole e interpretato da attori giovani, un fattore che accentua il coinvolgimento emotivo del pubblico.
Made in Poland segna il debutto teatrale di un giovane regista cinematografico Przemyslaw Wojcieszek. E’ la storia di un giovane ribelle di un quartiere popolare. Unico elemento di un qualche interesse è che proprio in un quartiere si svolge la storia (esterni da Kieslowski, interno Hangar). Il linguaggio sembra incantare il pubblico (per la sua “verità” e “crudezza”, mi dice il produttore: anche per la volgarità, credo), ma a me è sembrato uno spettacolo vecchio, ammiccante e mal recitato.
Nella discussione dedicata all’Europa allargata, Hermanis insiste sul proprio scetticismo nei confronti di un teatro politico: il suo intende essere un teatro di poesia, non di denuncia e non realistico. Il teatro non ha l’energia per cambiare il mondo, anche se è ovvio (a domanda risponde) “che se si vuole nuotare bisogna accettare di bagnarsi”. I produttori di Made in Poland paiono senzaltro più esplicitamente votati a un impegno sociale che si concretizza nell’ascoltare e parlare la lingua e i problemi della gente – ma le buone intenzioni non garantiscono risultati.
Nel complesso gli spettacoli polacchi dei registi più giovani sono deludenti: me ne dà atto Krystyna Meissner, che però ritiene stia emergendo una generazione di giovanissimi e che al prossimo Dialog ci saranno sorprese.
Terzo giorno. Di fronte alla violenza e alla guerra
Sono proprio due produzioni polacche, quelle scelte per affrontare il problema: un “classico” del genere come Arancia meccanica e un classico tout court come Macbeth.
La scelta lascia insoddisfatti, come anche la discussione che l’accompagna, per quanto animata. Evidentemente il problema è troppo complesso per affidarlo a uno spettacolo un po’ ovvio (il primo) e a un altro decisamente non riuscito (il secondo). Ma costituisce elemento di interesse dell’incontro la presenza autorevole di Josef Szajna, uno dei maggiori registi polacchi, co-fondatore del teatro “laboratorium” di Grotowski. L’anziano regista – ancora attivissimo come pittore – è stato invitato sopratutto in quanto sopravvissuto al campo di Auschwitz. Anche con lui – un’icona per i colleghi polacchi – non si riesce però a uscire dalla genericità. Un punto interessante mi sembra il collegamento che tutti gli interventi stabiliscono fra guerra-violenza e manipolazione-informazione (e forse questo avrebbe dovuto essere il vero tema).
Del resto come parlare di guerra e violenza in teatro non è problema da poco. In primo luogo si tratta dei terreno su cui si è avvertita più esplicitamente la concorrenza con il cinema: il Macbeth del gruppo di Poznan ci fa sorridere – senza averne le intenzioni – anche perché abbiamo visto Peckinpah o Quentin Tarantino. Mentre la violenza psicologica, familiare, sociale, resta un terreno proprio del teatro: quasi a confermarlo, arriva la notizia del premio Nobel a Pinter. Su questa violenza pubblica-privata forse – si dovevano orientare le scelte (penso anche ad alcune presenze italiane che ci sarebbero state molto bene).
Arancia Meccanica, regia del giovane Jan Klata, dal famoso romanzo di Anthony Burgess (Chi non ricorda il film di Kubrick? La storia è quella), non è solo una vicenda di violenza gratuita e dinamiche “di branco”, ma di sfaldamento della famiglia, tradimento e soprattutto di manipolazione dell’individuo. Ben recitata dai giovani protagonisti, la produzione è molto impegnativa (una coproduzione anzi dei padroni di casa, il Wroclawski Teatr Wspótczesny con Wroclawski Teatr Pantomimy) ma resta nel limite di un buon prodotto medio.
Delude ancora di più Chi è quest’uomo così insanguinato?, una rilettura del Macbeth. Produzione nata per l’aperto (e che qui vediamo in prima nazionale nello splendido edificio di Hala Ludova) del Teatr Biuro Podrózy di Poznan, regia e adattamento di Pawel Szkotak. Shakespeare, si sa, regge tutto o quasi, in questo caso tutto l’armamentario del teatro per grandi spazi: trampoli, carri, moto e mezzi di trasporti vari, fuochi in un ambientazione che mescola primitivismo e icone naziste.
Quarto giorno: l’arte come sublimazione
Si è cercato credo – un titolo (e non era facile), per il progetto kolossal di Kristan Lupa che accosta Il Gabbiano di Cechov e Spanish Play di Jazmina Reza “sotto” il titolo Pièce incompiuta per attore. Un progetto grandioso, che accosta in un unico spettacolo in due parti due spettacoli diversi e completi.
Il filo conduttore che collega le due parti nettamente separate, fatta eccezione per alcuni rimandi interni a ciascuna, è (cito dal programma del festival)
il teatro e l’effetto intossicante che ha sugli artisti, gli attori sopratutto. Il teatro è per loro una sublimazione della vita, un mondo virtuale più necessario alla loro vita della realtà quotidiana che li circonda. E danno così tanto a questo mondo di illusioni che perdono se stessi in esso. Essi pagano un prezzo molto alto per lo iato fra il sogno e la realtà.
Si è poi voluto accostare uno spettacolo agli antipodi (anche solo per la lunghezza, 50 minuti contro 7 ore): Dal libro rosso dell’estinzione, una proposta di tema ecologista. Possibile punto in comune tra i due lavori – seppure sviluppato in modo diversissimo – la fuga dalla realtà, o la sua trasfigurazione, attraverso il teatro.
Dal libro rosso dell’estinzione è un progetto del compositore russo Alexander Bakshi e del suo “laboratorio internazionale del teatro del suono”. Sviluppa su più piani paralleli – musicale, teatrale (inclusi burattini) e visivo – una riflessione sui mondi, le specie animali e vegetali, i mestieri, le culture in estinzione. Di questo spettacolo raffinato mi resteranno nella memoria vari momenti: una ballerina che si sovrappone alle proiezioni di un uccello in volo, disegni animati e proiettati in tempo reale e una parentesi dedicata al Giardino dei ciliegi di Cechov: le ultime battute del Giardino appaiono proiettate mentre il dialogo fra Liubov e Gaev (sorella e fratello), si svolge fra pianoforte e violoncello, mentre il vecchio maggiordomo Fist entra nei panni del burattino Petruska: tutti soggetti in via di estinzione! Qualche buona idea, insomma per uno spettacolo che sa dare qualche emozione.
Pièce incompiuta per attore alleggerisce Il gabbiano di Cechov (interrompendolo fra l’altro prima del suicidio di Kostja), e valorizza un testo “leggero”: la sudamericana Yasmina Reza è infatti l’autrice di Art (rappresentantissimo con grande successo nel mondo intero), ma non ho trovato traccia di rappresentazione in Italia (recente o prossima), di questa sua Commedia spagnola, presente in molti repertori europei: come il primo testo ironizzava sulla follia da arte contemporanea, questo consiste in un divertentissimo quanto impietoso meccanismo demistificatorio della retorica del teatro.
La produzione è del Teatr Dramatyczny di Varsavia (il teatro nazionale polacco). Palcoscenico e platea in declivio e molto ravvicinati sono ricostruiti come un blocco unico al’interno del Teatro dell’Opera e la scena si sviluppa in profondità con una grande vasca -piscina/lago – e alterna momenti apparentemente spogli e realistici con altri vistosamente finti. Il passaggio fra finzione e verità è particolarmente “sotto”lineato anche nel lavoro d’attore e in alcuni magistrali colpi di regia. Rispetto alla tradizione interpretativa del Gabbiano, Lupa trascura qualche celebre passaggio (il monologo d’amore di Masha, per esempio, e in genere i meccanismi di amore e seduzione); “sotto”linea invece il tema del talento (la ricerca del proprio talento e il suo riconoscimento), e soprattutto del teatro. A partire dall’inizio: il poema simbolista di Konstantin è rappresentato con impegno (non soprattutto come occasione dei successivi contrasti), e un particolare valore acquista il confronto fra il giovane autore e il dottore Dorn (alter ego di Cechov, medico di anime più che di corpi), sul senso e la forma dell’arte, su cosa si debba rappresentare e come, su nuovo e vecchio (questo passaggio è spesso trascurato nel suo significato teorico per valorizzare piuttosto il contrasto generazionale ed edipico). Analogamente nel gran finale di Nina il dramma esistenziale della giovane attrice che parte in tournée (la città, la mia vita!) si trasforma nel sentimentalismo un po’ ridicolo di una condizione sopra le righe, quella del teatro: al monologo si sovrappone una canzone francese anni Cinquanta mentre sullo sfondo scorrono sagome di città, in stile ombre cinesi.
Se Il gabbiano risulta “alleggerito” (o impoverito, a parere dei cechoviani più “ortodossi”) da questa lettura Spanish Play di Jazmina Reza esce imvece problematicizzato. Un divertente meccanismo di teatro nel teatro nel teatro si carica di significati e si trasforma in un gioco di specchi fra finzione e realtà (che resta in ogni caso esilarante). La messinscena di una banalissima storia di famiglia è l’occasione per un divertissment a spese di tutte i vizi del teatro, dalle vanità degli autori alle “maniere” della drammaturgia (e non si salva nessuno: a partire proprio dal cechovismo, per passare attraverso Pirandello e arrivare fino a Bernhard), dalla presunzione dei registi al fanatismo delle attrici. Un mondo fuori della realtà che nel finale-finale di Lupa (dopo l’happy end della Reza), rimescola e confonde i personaggi delle due pièces (gli attori sono gli stessi: bravissimi) e tutto appare sdrammatizzato, leggero e assieme malinconico, inafferrabile e transitorio, come in fondo è il teatro.
Quinto giorno. Man Is Something to Be Overcome (Oltre l’uomo)
Ancora Krystian Lupa è protagonista assoluto (anzi unico) di questa giornata, col suo Zarathustra, da Nietzsche. Direi anzi che il tema “deriva” dalla scelta dello spettacolo.
Lupa lo conosciamo abbastanza bene in Italia, da alcuni passaggi a Mittelfest e dal particolare spazio che gli dedicò Barberio Corsetti nella Biennale del 2000. Ha 62 anni, non è solo regista ma anche scenografo e pittore (il festival gli dedica una bella mostra), scrittore, saggista, grande “maestro” di attori e registi. Non così anziano da non ricercare – come sta facendo – nuove strade molto impegnative, in termini formali e intellettuali, ma è abbastanza maturo e affermato da potersi permettere di perseguirle con mezzi umani e materiali imponenti (il confronto con Ronconi in questo senso è inevitabile).
Nell’incontro sul tema del giorno e sullo spettacolo, descrive l’attuale situazione del teatro come “la ricerca di forme nuove, che non troviamo – sapendo però che proviamo disgusto per le vecchie”. E cita Picasso: quando invita a cambiare mezzo scolpire, per esempio – se non riesci pù a esprimerti con la pittura. La discussione paradossalmente – è alleggerita dalla presenza di uno storico della filosofia, Marcin Krol, che ricorda in proposito un proverbio russo: “Se la vodka ti impedisce di fare il tuo lavoro, cambia lavoro!”
Krol si sofferma su aspetti etimologici e su equivoci interpretativi (in particolare sul termine superuomo-übermensch), per rivendicare a Nietzsche una classicità e assieme una modernità che i luoghi comuni e le interpretazioni divulgative costruite intorno alla morte di Dio, al mito del superuomo, all’eterno ritorno eccetera rischiano di sottrargli. Il Nietzsche-Zarathustra che ci viene proposto è colui che ha capito, che sa e cui nessuno crede, è la ricerca dell’oscurità dentro ciascuno, è il coraggio della “pro”vocazione, è la verità come percorso e come ricerca interna all’uomo.
Zarathustra da Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche e dalla Trilogia di Nietzsche di Einar Schleef – è una produzione di Narodowy Stary Teatr (ovvero del teatro Nazionale Stary di Cracovia).
Krystian Lupa non è nuovo alla ricerca su individualità eccezionali, come alcuni protagonisti dei suoi spettacoli da Thomas Bernhard, sempre un po’ in bilico fra genialità e follia; e il superamento dell’uomo comune sembra essere uno dei leitmotif di questo spettacolo. Un superamento che non va però verso l’affermazione amorale o autoritaria del superuomo nel senso corrente del termine, ma verso l’eccezionalità, l’eroismo quasi, o la santità di una ricerca individuale che sfocia quasi necessariamente nella follia.
Lo spettacolo è diviso in tre parti molto diverse.
Nella prima parte Zarathustra ha un’immagine profetica – che ricorda Giovanni Battista – e proclama inascoltato lo “scandalo” della morte di Dio: quindi il caos e il nulla (ma anche la necessità del superuomo, la condizione per la costruzione di un uomo nuovo).
Nella seconda parte, dopo un periodo di isolamento e digiuno, Zarathustra affronta il suo viaggio costellato da una sequenza di incontri simbolici: due Re (il dramma di avere la verità e non il potere o viceversa), l’ultimo Papa (che ricorda nella prostrazione il vecchio Woytila e trascina l’uomo in una teca di vetro), l’attore (ovvero la finzione ma anche la vicinanza al sublime: Non sono grande ma ho visto gandezze). Nella Valle della Morte incontra “colui che ha ucciso Dio”, l’unico testimone della morte di Dio, che non può ovviamente vivere. Particolarmente inquietante è l’incontro con la propria ombra, con il destino passivo dellombra. Malinconia, assenza di gioia, impossibilità di felicità segnano il finale, con un rientro collettivo di tutti i personaggi.
Nella terza parte il registro dello spettacolo cambia completamente e l’opera del filosofo si confonde con la sua biografia. Zarathustra è fisicamente del tutto mutato: i tre attori sono diversi, ma se i primi due hanno l’aspetto del santone, questo è un uomo qualsiasi di mezza età, molto sciupato e con i segni visibili della “diversità”. Un “marginale”, rientrato in una famiglia abnorme, composta da una madre folle e da una sorella incestuosa.
La diversità sta nella consapevolezza e nella conoscenza che appare all’esterno come pazzia: è imprevedibile e fa paura. Del resto nessuno riconosce Zarathustra per quello che era, tranne la sorella che “sa” e le prostitute per cui ha pietà. Il superuomo finisce inascoltato, nel baratro della follia.
Sesto giorno. Guardarsi dall’essere umano.
Se la partenza del festival con Hermanis e Schilling e la fase centrale con Lupa ci ha costretto a riflessioni impegnative e procurato emozioni, Dialog ha riservato per il finale ottime carte.
Il tema del giorno poteva essere forse banalizzato con un titolo sul pot
Mimma_Gallina
2005-11-05T00:00:00
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