Orizzonti di uno sguardo antro-po-etico
Su 'U Gioia di Mauro Aprile
Il film di Mauro Aprile ‘U gioia è stato presentato su ateatro 83.
U Gioia è un reportage di unora realizzato da Mauro Aprile Zanetti nel 2002 sulle celebrazioni della settimana Santa, dalla deposizione del Cristo dalla croce fino alla sua Resurrezione, e in particolare della processione dellAddolorata, che si svolge a Scicli in Sicilia. Testo e pretesto di un racconto assai più ampio. Comè noto, la Sicilia vive ancora con grande intensità e partecipazione collettiva gli appuntamenti liturgici, che si riproducono con varianti specifiche in quasi ogni paese dellisola. Sono occasioni di feste e processioni che coinvolgono sia nei preparativi sia nella loro realizzazione la maggioranza della popolazione ed esaltano una vocazione antica alla rappresentazione, sacra, perché religiosa, ma sacra anche perché indispensabile allo spirito della sicilianità (con tutte le sue radici greche).
Non a caso il giovane autore del filmato sinterroga innanzi tutto su questa sicilianità, cercando citazioni poetiche o letterarie che ne evochino il mistero, affidando a un pittore un commento pantomimico o facendo parlare gli abitanti di Scicli (filmati in primo piano con una luce molto contrastata che ne fa delle maschere), soprattutto i macellai che per tradizione e fortissima metafora hanno larduo compito di condurre la pesantissima statua in processione. Il filmato inizia con immagini dacqua e la voce di un narratore che racconta di unisola mitica, di cannibali, lisola dellinsonnia, affascinante e terribile, dove tutto è riconducibile a tre cose: nascita, copula e morte. E poi appare la maschera, quella degli dèi e degli immortali, quella della finzione, del sogno, appunto della rappresentazione che sconfigge lo scandalo della morte, che viene mostrata e indossata nei Misteri per iniziare ladepto alla vera vita, oltre la morte, perché situata nelleterno ritorno del rito. Ecco il siciliano, attore tragico, pupo e paladino che indossa la maschera per diventare sognatore a occhi aperti, cioè insonne nel teatro della Morte, e dalla dialettica tra sacro e profano egli distilla la sintesi del teatro, che è rito profano e metafora mistica, perché il teatro nasce dallamore e dal tradimento degli dèi.
La Resurrezione di Cristo diventa allora il momento della Metamorfosi dellintera comunità, la ricomposizione dei brandelli che da Osiride a Dioniso testimoniavano nel mito luccisione del Fanciullo Divino e ne preludevano la rinascita come immortale. Si riaccende la luce nel tempio, la carne risorge e si muove, esce allaperto tra la sua gente a testimoniare che la morte è il grande inganno nel teatro della realtà.
Allora come raccontare in immagini e suoni tutto questo? E possibile documentare levento e insieme larchetipo che lo sottende, lanima che lo muove, le ombre e le contraddizioni che lo attraversano?
Werner Herzog, uno dei più straordinari (letteralmente: oltre lordinario) autori cinematografici che si siano dedicati anche alla ripresa di eventi, personaggi, luoghi reali, si proclamava becchino del cosiddetto cinema-verità, cioè di quel cinema documentaristico (divenuto poi modello di quello televisivo) che si teorizzava e pretendeva fedele alla realtà, specchio del mondo. La realtà è improbabile, ricordava Borges, e perciò imprendibile, irriproducibile perché suggerisce Herzog molto più complessa della sua evidenza, la realtà è appunto maschera. Allora come far vedere qualcosa oltre la maschera? Mediante unaltra maschera: una visione poetica o drammatica che forza la realtà e ne induce epifanie, trovando delle immagini chiave che pur essendo prese dalla realtà vanno oltre essa (come limmagine di uno scimpanzé che fuma una sigaretta in gabbia e che diventa limmagine ultima del ritratto di un sanguinario dittatore africano rinchiuso in carcere e impazzito (Echi da un paese oscuro)), o modi antinaturalistici di riprendere e rimontare sequenze di realtà (come lesasperazione al ralenti di un salto con gli sci che diventa così esperienza estatica di un volo oltre le possibilità umane (Lestasi dellintagliatore di legno Steiner), oppure la ripresa aerea del deserto iracheno con i pozzi di petrolio ancora in fiamme e le tracce della prima guerra del Golfo, dove non ci sono più tracce umane, e tutto pare paesaggio dellapocalisse al suono di un requiem
(Apocalisse nel deserto)).
Si tratta di cogliere gli strati della realtà e sintetizzare in unimmagine o una sequenza dimmagini la verità di quellevento, un evento può infatti essere ripreso e fotografato mille volte da mille angolazioni ma soltanto una (o poche inquadrature con un montaggio efficace) sarà capace di rivelarne pienamente il contenuto simbolico (rivelando quindi la verità che quella realtà sottende), ma per fissarlo in immagine bisogna prima vederlo (talvolta basta una frazione di secondo), intuirne il valore e il climax drammatico e forzare la realtà ad esprimerlo, come accade nelle fotografie di Cartier-Bresson. Questa è la differenza fondamentale tra uno sguardo che riproduce e uno sguardo che rivela.
Orson Welles, uno degli artisti sperimentatori delle strutture narrative della comunicazione (fu il primo a trasformare un racconto fantastico La guerra dei mondi di Wells in una falsa notizia radiofonica che sconvolse lAmerica), nel suo testamento cinematografico F come Falso (un falso documentario su una falsa biografia di un noto falsario di quadri) spiega come gli artisti siano dei falsari che attraverso la menzogna si avvicinano un po alla verità. Questo accade quando la finzione artistica si coniuga alla capacità di osservare la realtà (il termine latino observare ha il doppio significato etimologico di guardare e di aderire, uno sguardo che quindi non si limita a percepire o esplorare ma che si posa e si sofferma sul suo oggetto, che vi aderisce e che lo interroga) e diventa prefigurazione e sintesi di essa, uno strumento poetico per interpretare la complessità del reale e svelarne, attraverso la sua messa in scena, gli aspetti di verità. Verità che, comè noto (un po meno noto risulta, ma per opportunità di mestiere, agli operatori mediatici), non può essere colta che indirettamente attraverso le sue maschere e per via indiziaria.
Anche Jean Rouch, uno dei padri del documentario antropologico, simmergeva esistenzialmente nel contesto che voleva esplorare, ne individuava temi, situazioni e personaggi chiave e sceneggiava il documentario con gli elementi che aveva selezionato di quella realtà, anche elementi interiori, come i sogni dei protagonisti. La realtà riprodotta è, per dirla con Barthes, uno sguardo ovvio, mentre la realtà rappresentata è uno sguardo ottuso (nel senso di aperto, come langolo ottuso), per cogliere la maschera rappresentativa della realtà bisogna che ci sia una regia dello sguardo (una definizione molto efficace che Liborio Termine aveva proposto nel suo libro La scrittura fotografica).
Dovendo perciò pensare a una nuova definizione del documentario antropologico che, come nel filmato U Gioia, tenti la perigliosa sintesi di osservazione e finzione poetica, di riproduzione e di rivelazione, di regia dello sguardo e forzatura drammatica del reale, di intuito metaforico e di furtiva velocità (quella di Hermes, non a caso protettore di viaggiatori, artisti, maghi e ladri), ma anche di trasparenza e responsabilità etiche, proporrei il termine antropoetico sintesi possibile di uno sguardo antropologico, di una visione poetica e di una responsabilità etica.
Il documentario antropoetico non è solo la realtà rubata dagli agguati del cinema come teorizzava Zavattini, non è la riproduzione fiction di una situazione o vicenda reale interpretata dagli stessi protagonisti reali (il primo fu Flaherty, fino allattuale volgarizzazione della TV-realtà con i poliziotti, i carcerati, i pensionati, etc che interpretano se stessi), non è la creazione di un contesto artificiale con personaggi reali (come i finti reality-show alla Grande Fratello), non è il montaggio proibito che impedisce la manipolazione della realtà attraverso il montaggio, non è loccultamento delle strutture narrative allinterno di una ripresa apparentemente descrittiva (tipico caso dei documentari sulla vita degli animali), non è una raccolta oggettiva di testimonianze.
E, piuttosto, immersione in un frammento di realtà con una chiave interpretativa forte, esplicita, poetica o mitologica (questultima è stata scelta da Pasolini per i suoi documentari e appunti per film da farsi), o, in altri termini, una messa in scena (e una messa in inquadratura) che costringe la realtà allepifania, alla rivelazione della sua complessità e quindi degli aspetti di verità che in essa baluginano. Una realtà che indossa la maschera per iniziare gli spettatori-adepti (non x vocazioni esoteriche ma per capacità di attenzione e ascolto) al viaggio nei suoi misteri.
Andrea_Balzola
2005-08-20T00:00:00
Tag: AprileMauro (3)
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