La voce artaudiana di Diamanda Gàlas

Defixiones, Will And Testament (Mute 2003)

Pubblicato il 16/08/2005 / di / ateatro n. 087

“L’’autocoscienza critica vera e propria della voce rock va ricercata soprattutto nella parodia, o nella vociaccia di Captain Beefheart, che dà al linguaggio della vita vera e del desiderio, senza complimenti, il timbro del lupo mannaro
Umberto Fiori

Al di là del mero consumo, o dell’’arte come sistema edificante o terapeutico, esiste, per così dire, una comunità “sperimentale” che ha sempre inteso la poesia come possesso di strumenti di parola: al di là, dunque, di una serie di malintesi socialmente indotti, del tipo, per intenderci, quello che vuole il poeta “ispirato” e tutto dedito ad una attività spontanea e incontrollata, esiste una comunità per cui la poesia è costruzione (e costrizione) formale, una organizzazione di ritmi che si scontra con l’abbrutimento che la parola subisce in una comunicazione standardizzata: il poeta inventa tecniche e strumenti di intervento sulla materia (la parola) per resistere al suo scadimento, per esplorare la possibilità di nuovi accostamenti, di aprire sentieri nuovi: al di là della mediocrità, dell’irrilevanza, della frustrazione. La poesia reagisce alla glorificazione del banale.
Ora, uno degli impulsi primari del poeta -– e dell’’artista in generale -– è quello di «essere diverso». Qualora non ricada nell’arte pura o in forme di ascetismo o di distacco dal mondo, questo desiderio di «essere altrove» indica una forma di malessere nei confronti di un sistema sociale e culturale che fa della omologazione una delle istanze principali. L’artista oppone resistenza proprio a quel “controllo” che vuole interdire il pieno sviluppo della libertà umana. Se nello spettacolo diffuso è veicolata una coscienza deformata (della realtà e di sé stessa), l’artista tenta, con la sua opera, di emanciparsi. Lo fa, per così dire, oggettivamente, ossia costruendo strutture che minano dall’interno i codici della banalizzazione e dell’immediatezza su cui si regge il consumo distratto dell’arte odierna; l’economia è spiazzata esaltando, nel processo compositivo, l’elemento libidico e il desiderio (la «mancanza») esplode in «dissonanze, stridori, silenzi, davvero esagerati, brutti». Liberando la musica dalla linearità e dalla «dittatura della tonalità», ad esempio, l’atonalità e il dodecafonismo mostrano come «nessuno dei suoni può essere privilegiato»; e quando questo percorso di libertà si fa ordine e sistema “serio”, irrompe, a spiazzare di nuovo il tutto, e liberare di nuovo i suoni, la musica aleatoria di Cage. È l’opera che trascende sé stessa, che oltrepassa i confini del costituito mettendo in gioco un grande amore per la materia, esaltandola sino al punto in cui il troppo amore la fa esplodere.
Qui non c’è bisogno di lavorare sul “significato”; è il “significante” che, avvolto da un abbraccio stritolante, si trasforma non solo in prodotto artistico pregevole, ma anche in «effetto liberatore», proprio perché riesce a sottrarsi alle trame limitanti delle convenzioni. Tanto per restare in ambito musicale, l’importanza di Schönberg non risiede nei contenuti, invero alquanto risibili, del testo poetico usato per Pierrot Lunaire, quanto piuttosto nella sua capacità di inventare un modo (della “forma”) che, come giustamente sottolinea Adorno, riesce «a portare alla superficie tutto ciò che si vorrebbe dimenticare»; così come l’importanza degli Henry Cow non è nella ingenuità dei testi che compaiono nelle loro composizioni, ma nella capacità di fare interagire il rock con il free-jazz e con l’atonalismo, creando delle partiture che hanno spiazzato completamente le abitudini d’ascolto contribuendo, con altri (essenzialmente Frank Zappa, la cosidetta “scuola di Canterbury” e i primi Velvet Underground), a indirizzare il gusto dell’ascoltatore di rock verso una complessità emancipante.
Il vasto intreccio tra le condizioni di un’epoca e la costruzione di strutture artistiche ha invero fatto sorgere un’altra prospettiva, una tendenza per certi versi distante da quella appena delineata; ovvero c’è anche chi tenta di emancipare se stesso e la propria opera ponendosi totalmente al di là dell’orizzonte di senso imposto, tenendo vivo e aperto l’esercizio della critica dei significati, e spesso facendo di questa volontà l’impulso primario al lavoro artistico. Esistono opere, insomma, che considerano l’intreccio tra forma e contenuto a partire dalla volontà di configurare prima di tutto una “polemica” nei confronti del mondo. Brecht e Artaud, ad esempio; o, per restare alla musica, Canto sospeso di Luigi Nono o Passaggio di Berio o l’eccelsa macchina maccheronica degli Stormy Six. Opere, insomma, dove la rottura del significante è agita su impulso della critica del significato, entrambi presi nella loro dialettica e inscindibilità. Allora, quel desiderio di alterità rispetto al «canto della merce e delle sue virtù» (questa è diventata l’arte di consumo e la cultura) è la linfa vitale di un lavoro il cui risultato sarà la produzione di inquietudine e di dubbio, di riapertura del sogni di liberazione, di messa in crisi della coscienza manipolata e assoggettata alle rappresentazioni dominanti.

Diamanda Gàlas, cantante e compositrice greco-americana, è uno degli artisti contemporanei che più lucidamente si pone secondo questa ottica. Tutta la sua opera, infatti, passa i limiti della mera dimensione musicale e certifica la possibilità, per la voce, di misurarsi con soluzioni formali «salutarmene eversive». Mi riferisco al suo ultimo lavoro, il doppio CD Defixiones, Will And Testament (Mute 2003), che è dedicato al tema dello sterminio degli armeni e della minoranza anatolica ad opera dei turchi nei primi anni del Novecento.

Mischiando sapientemente canto dissonante a recitazione fortemente ritmica, la Galàs costruisce, con la sua splendida voce, una grande allegoria «straziata dal dolore», stordente, tesa sino allo spasimo, mettendo l’ascoltatore di fronte ad un’opera fatta di litanie lancinanti, di sofismi vocali irriverenti, di granulazioni vibranti, dove lo scarto dalle norme del “bel canto” si delinea, al contempo, come trasgressione dell’ascolto stucchevole e come critica del mondo. Defixiones è un vortice tempestoso di vocalità, travolgente. È un’opera sgradevole, scomoda, fin anche esagerata. La Galàs non smette di interrogare lo spazio creativo della voce e di spingerla sino ai limiti del possibile, proponendola nella sua essenza esorbitante, eccedente, così potentemente sovvertitrice della forma-canzone. Controllando rigorosamente l’emissione, e carica di ferocia fonetica, sostenuta ora da percussioni ipnotiche ora da suoni elettronici ora da un pianoforte che sembra aver smarrito la partitura, narra storie di sterminio, di morte, di disagio per oppressioni secolari. Una poesia vocale che disintegra ogni ascolto neutralizzante.
Al di là di ogni tentativo di sospendersi dal tempo, la mediazione che la Galàs costituisce nella relazione tra il segno verbale (la parola come portatrice di significato) e la voce non ambisce a occultare il referente, come avviene nelle pur splendide sperimentazioni astratte di Joan La Barbara. Esaltando le potenzialità di significazione della voce, l’operazione della Galàs mantiene una certa concettualizzazione e la struttura vocale mira ad affermare anche la sua funzione “comunicativa”. Di fatto, la sua voce si inserisce nel circuito cantante-ascoltatore con la potenza di una “idea” che è immediatamente disturbo, intoppo, spiazzamento. Operando all’interno del meccanismo percettivo su cui si fonda l’atto dell’ascoltare, la Galàs, con le sue istanze radicali, riesce a fratturarlo, a “uscire dal seminato”, senza cadere nell’esaltazione di una vocalità “pura”, innamorata di sé stessa, sentimentalmente legata a una idea di “fuga dalla storia”. Delicata, intensa, severa, aberrante, sincopata, anche delirante, fenomenale con la sua capacità di estendersi per ben tre ottave e mezzo, sempre debordante, la voce di Diamanda Galàs è tra le migliori che la storia della musica abbia mai conosciuto.
Fin dagli esordi come cantante, insieme al Living Theatre con cui si esibiva nei manicomi, la Galàs ha messo in evidenza una modalità vocale fragorosa, in cui la parola è trattata come nel più esagitato teatrino espressionista, con passaggi bruschi di tonalità, e resa timbricamente terrificante e opprimente, come a voler significare nient’altro che la sofferenza del corpo piegato ad un presente di tragedia. Tra sovraincisioni e inserti cacofonici di elettronica, tra pronunce strascicate e ritmi vertiginosi, la voce della Galàs smerda una volta per tutte la figura (e la funzione) della cantante lirica: il “bel canto” è travolto da scoppi di grida, da angoscianti vocalizzi, da strappi, da ferite, passando in rassegna tutto il repertorio delle possibilità vocali. Ogni gesto vocale, anche il più ardito, scorre, nella Galàs, con una semplicità sconvolgente, e non c’è vagito o grido o nota tenuta su un fiato inesauribile che non sia capace di farsi immediatamente senso. Ogni fonema emesso rimanda a un numero imprecisato di “vittime del progresso”. C’è infatti, nel suo eccesso vocale, tutto il grido del mondo, dai malati di AIDS al sangue versato sotto la dittatura dei Colonnelli in Grecia, dai corpi oppressi dalla religione ai sacrificati in nome della merce.
E’ proprio nel punto in cui il dolore dell’Altro è colto in tutta la sua intensità che la voce della Galàs si fa gestualità critica, comportamento sovversivo. Il dolore diventa tangibile e la voce indica il modo di resistervi: uscire dalla secche del costituito, per porsi definitivamente nei pressi della vita e della morte, propiziando una musica che significa qualcosa. Prometeo e Medea convivono nella sua voce: il corpo smembrato del ladro di fuoco e il pianto di vendetta della madre assassina. Una voce, per dirla con Artaud, «eccitata, violenta, seduttrice, ma ripugnante». Quando recita i versi di Adonis, per esempio nel pezzo The desert, sempre da Defixiones, riesce a realizzare quanto Artaud aveva solo teorizzato: mettere in atto una partitura di ritmi e di modulazioni di frequenza che sia percepibile come «discorso polemico».
Un tale uso delle variazioni vocaliche serve alla Gàlas per far risaltare la criticità della sua opera, mostrando come effettivamente la voce possa presentarsi con “dentro” dei significati, in certi passaggi, in quelli dove risalta la voce slegata da ogni elemento verbale, non riferibili quindi al sistema-lingua, ma ugualmente portatrice di significanza. Se poi, come fa, la Galàs non disdegna il rapporto con la parola, allora è evidente l’intento di aggredire il significante per prendere di mira i significati sociali che sottendono un uso tranquillizzante della voce. Il significante è motivato dalla volontà di fare risaltare una doppia contraddizione: l’oppressione secolare subita dalle minoranze è simile e per certi versi coincide con l’oppressione che costringe la vocalità entro canoni rigidi, entro quella stessa “consuetudine” che – come giustamente diceva Demetrio Stratos – isola il cantante «nel recinto di determinate strutture» limitandone fortemente l’espressività.
Ecco allora che la grandezza della Galàs sta proprio nella sua capacità di perseguire una «appassionata radiografia dei suoni» senza per questo rinunciare all’esposizione di un pensiero (poetico) altamente critico; e difatti i rumori vocali che produce esprimono un pensiero disposto a irradiare conflitto: non c’è dialogo con il potere che non sia anche aggressione; non c’è sottolineatura del massacro che non sia, malgrado la crudezza, canto erotizzante; non c’è pratica vocale che non sia anche irrisione; e difatti la sua voce granitica è subito, al contempo, incontro & oltraggio. Rifiuta ogni “dolce melodia” per fare risaltare una fisicità bestiale, allucinata, disperata, ma razionalmente mondana, non celebrativa, ma cinicamente reattiva e senza esitazioni contro. Voce riluttante a farsi complice di una formazione sociale che fa della propria barbarie materia da rotocalco, Diamanda Galàs è una delle poche cantanti (insieme alla meno conosciuta Maja Ratkje, compositrice e performer islandese che compone opere per elettronica e voce di una radicalità stupefacente) che sia riuscita a disfarsi del bel canto. Pur attraversandolo, ossia non disdegnando di cantare frammenti di stili consacrati, dal gregoriano al melodramma, da Wagner al canto da muezzin, sino a litanie religiose, gospel spiritual e blues, addirittura rock (eccellenti le “canzoni” realizzate insieme all’ex bassista dei Led Zeppelin, John Paul Jones, nel disco The Sporting Life del 1994), il grottesco “blasfemo” della Galàs presenta il suo delirio invasato, per evolversi poi in una forma libera da ogni costrizione convenzionale e dare forma ad un canto polemico e dissacrante.

Nevio_Gàmbula

2005-08-16T00:00:00




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