Dal punto di vista dell’ombra

El Eco de la Sombra del Teatro de los Sentidos di Enrique Vargas

Pubblicato il 16/08/2005 / di / ateatro n. 087

C’erano una volta un cerchio di pietre erette e una manciata di eruditi studiosi al centro di questo che esponevano con fare gentile l’esito della loro ricerca circa il fine di questo cerchio, operavano per chiarire il mistero con ingenua precisione. Per tutti essere lì non costituiva una novità, avevano ben studiato l’allineamento con gli astri e il sorgere del sole, ma, credo, nessuno avesse sostato lì con un occhio forgiato dall’esperienza. Il dibattito si faceva sempre più ricco, le opinioni sempre più contrastanti, a un tratto la disputa divenne silenziosa, gli occhi di ciascuno dondolavano alla ricerca di una verità dallo sguardo degli interlocutori a quello delle grosse pietre. In tutti si impresse nel volto una sola domanda non enunciabile: “Ma come avranno fatto a spostarle? Sono enormi, davvero enormi!”
Credo che accada qualcosa di simile davanti a un allestimento di Enrique Vargas e dei suoi attori-drammaturghi-tecnici-scenografi-guide del Teatro de los Sentidos. Entrando nella dimensione poetica della loro opera, che è paradossalmente percepita come reale, metaspaziale, la mente analitica cerca invano di circoscriverla ad un solo punto di vista, cerca una funzione per carpirne un solo senso, un messaggio. Alla pari dei cerchi delle pietre erette, che certo non venivano edificati con tanta fatica per una sola funzione, così le architetture viventi del Teatro de los Sentidos sono veri e propri vissuti percettivi a tutto tondo, inganni emotivi.
E’ un percorso di esperienza consapevole che determina un cambiamento. Entrare nel percorso sensoriale costituisce un atto di volontà, l’uscita conferma la trasformazione avvenuta: qualcosa nel corpo è davvero cambiato, persino l’odore, il respiro. Non risulta possibile la comprensione del suo postulato attraverso la ricerca di un unico fine, equivale a perdere la traccia del labirinto, o peggio, il labirinto stesso.

Enrique Vargas è nato a Manizales, in Colombia, nel 1940, studia a Bogotà regia, recitazione e drammaturgia alla Scuola Nazionale D’Arte Drammatica e in seguito, trasferitosi in Michigan (U.S.A.), si dedica allo studio dell’antropologia teatrale. Drammaturgo stabile del famoso Teatro La Mama di New York, diviene successivamente direttore e drammaturgo del Gut Theatre ad East Harlem. Alcuni tra i componenti del gruppo del Teatro de los Sentidos lo accompagnano dalle prime opere realizzate in Colombia.
Le opere di Enrique Vargas sono difficilmente collocabili nell’ambito teatrale stretto poiché molti tra i parametri del teatro per antonomasia vengono ribaltati, per primo la funzione dell’attore che perde l’identità recitante per divenire parte di un tutto, parte vivente di un costrutto percettivo. La “maraviglia”, lo stupore, è la tacita asserzione che tesse il filo d’intesa tra l’opera e un fruitore attivo, facendo leva su un linguaggio simbolico e archetipico, per il quale la metafora non è una figura retorica ma un’alchimia.
Gli spazi che ospitano il visitatore o viaggiatore o viandante sono spazi onirici eppure materici, dove la propulsione evocativa è data dal profumo, dai suoni, dal buio e dalla luce, dal tatto, dal gusto. In questi spazi,l’incontro con gli abitanti-attori, avviene in un tempo sospeso, vero o falso, realtà o apparizione non hanno più motivo di distinguersi.

L’ultima opera, El Eco de la Sombra, tratta da un racconto di Hans Christian Andersen intitolato L’ombra, ripete la struttura labirintica delle opere precedenti (come Oraculos, El hilo de Ariadna), in cui un solo spettatore per volta entra all’interno del percorso, facilitando così la perdita dell’identificazione nella collettività in favore di una disposizione all’introspezione e a una relazione intima con le proposte incontrate nel percorso.
La funzione narrativa, come nelle precedenti opere, viene sviluppata nella conseguenzialità degli spazi che suscitano nello spettatore differenti stati d’animo. Esiste una vera e propria drammaturgia sensoriale in cui il ritmo conduce e determina la riuscita dell’esperienza.
Le fasi attraversate possono essere a grandi linee raggruppate in una gradualità di percorso che rimandano allo schema ricavato da Joseph Campbell analizzando “il viaggio dell’eroe” (nel testo L’eroe dai mille volti): la chiamata, il distacco dal mondo conosciuto, l’incontro con il proprio sé, il disorientamento, la perdita del sé, le prove poste dai guardiani del nuovo mondo, il nuovo sé, la conquista dell’altra sponda, il mistero svelato, il ritorno.

E’ un teatro arcaico, iniziatico, che poggia la sua motivazione su necessità attuali, una fra queste mi sembra essere l’ordito di un insieme aperto: offrire esperienza reale di un mito.
Credo non si possa dire di più, chi ha visto un’opera del Teatro de los Sentidos si lega intimamente all’opera stessa, non svelandone il mistero, a maggior ragione se il percorso viene fatto in compagnia dello sguardo della propria ombra.
Può invece essere utile un accenno, a posteriori, alla curiosa rilettura del testo L’ombra di H. C. Andersen che il Teatro de los Sentidos propone, infatti alcune varianti o accenti rivelano in modo emblematico,a mio vedere, possibili chiavi di lettura dell’intera poetica di Vargas e compagni. L’ombra che per Andersen diviene punitiva per Vargas è invece catalizzatrice di trasformazione.
Il “filosofo del nord”, andato ad abitare al sud, desidera poter vedere chi abita l’appartamento della sua dirimpettaia, che presume essere una donna,poichè mai potè vederla,solo ammirò la bellezza dei fiori sul balcone. Il desiderio si spinge oltre, stimolando nel protagonista un’immaginario poetico, di certo non filosofico, che lo induce a chiedere in intimità alla propria ombra di staccarsi per lasciarsi scivolare sulla parete della casa di fronte ed entrare a vedere quella meraviglia, questo accadrà determinando la lenta fine del protagonista, fine che per altro ricorda le atmosfere schnitzeleriane del delirio psichico. Enrique Vargas, che non è un uomo del nord, interpreta in chiave nettamente differente da Andersen questo delicato passaggio: nell’anteprima per soli operatori presentata a Barcellona, l’ombra spariva risucchiata e un ambiguo personaggio, che pareva muoversi tra una bisca clandestina e un interrogatorio delle forze pubbliche, rilanciava la possibilità di riavere la propria ombra giocandosela a tris o simili… chiaramente non vi è possibilità di riscatto, ma questo espediente permette di attraversare un travaglio di coscienza fino a rinnovare, ripartorire, la nuova ombra e vivere ciò che segue. E questo non sarebbe possibile senza il lavoro dei bravissimi artisti che collaborano con Enrique Vargas: senza le loro mani e la loro fervida intuizione niente di così prezioso potrebbe accadere. Non è un linguaggio facile quello dell’evocazione metaforica, è un linguaggio che si va perdendo e lascia bricioline nel sentiero che gli uccelli del bosco presto dovranno mangiare; è una formazione in cui non bisogna acquisire ma sottrarre, togliere tutto cio’ che offusca la capacità creativa, lo stupore del pensiero magico.

In sintonia con la risonanza evocativa che lega pensiero a pensiero nell’atmosfera che gravita intorno al genio di Enrique Vargas e agli artisti che con lui lavorano, concludo con tre citazioni che possono gettare altra luce ancora sull'”ombra” di Vargas:

“Anch’io ho pensato un modello di città da cui deduco tutte le altre […] E’ una città fatta solo di eccezioni, preclusioni, contraddizioni, incongruenze, controsensi. Se una città così è quanto c’è di più improbabile, diminuendo il numero degli elementi abnormi si accrescono le probabilità che la città ci sia veramente. Dunque basta che io sottragga eccezioni al mio modello, e in qualsiasi ordine proceda arriverò a trovarmi una delle città che, pur sempre in via d’eccezione, esistono. Ma non posso spingere la mia operazione oltre un certo limite: otterrei delle città troppo verosimili per essere vere.”
(Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, 1972)

“[…]con una costruzione di carte, una sopra l’altra […] si potrà imprigionare,come in una stanza, la prima ombra. E allora questa ombra imprigionata non si chiamerà più ombra, poichè l’ombra in senso volgare è una proiezione. Fino ad oggi l’ombra non è stata che una proiezione, quindi negativa col fatto costruttivo, un ampliamento. Mentre la prigionia di un’ombra diventa un’immagine costruttiva; meglio, rientra nell’immagine come fatto costruttivo.”
(Arturo Martini, Colloqui sulla scultura, 1944-1945, Canova, 1997)

“Abbiamo ancora questo corpo fisico e se apparteniamo solo a Ermes non sentiamo più gli altri dèi. Non più Afrodite né Era, non più Apollo né Muse. Non ci accorgiamo più di nient’altro, assorbiti dalla nostra comunicazione elettronica.[…] Ma non ne sono troppo preoccupato. I sensi, i sensi umani, la sensualità, possono salvarci da moltissimi problemi.”
(James Hillman, L’anima del mondo, conversazione con Silvia Ronchey, Rizzoli, 1999)

Enia_Daniela_Idda

2005-08-16T00:00:00




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