Le recensioni di ateatro: Shot – Foibe

Al Mittelfest le foibe secondo Renato Sarti con Bebo Storti e Tanja Pecar

Pubblicato il 22/07/2005 / di / ateatro n. 086

Un bambino è in fila all’alba per il latte. Arriva un fascista, lo sente parlare sloveno e lo caccia via. Il piccolo se ne ricorderà qualche anno dopo, al momento di scegliere, e diventerà partigiano. È uno dei pochi, esili spunti narrativi di Shot – Foibe lo spettacolo con Bebo Storti e Tanja Pecar, regia di Renato Sarti, presentato in prima assoluta al Mittelfest di Cividale, ma destinato a un secondo debutto milanese in novembre. Uno spunto che ci si aspetta di vedere ripreso alla fine di uno spettacolo drammaturgicamente assai debole ma che si trova – come dire? – al posto giusto nel momento giusto. E infatti ecco il titino ancora in cerca del fascista che lo umiliò, senza tuttavia trovarlo: “Altrimenti lo avrei buttato in foiba”. La battuta è rivelatrice dell’atteggiamento complessivo di Sarti nei confronti della materia storica affrontata. Se nel corso dei due atti ritornano i toni rauchi e rancorosi di Mai morti, soprattutto la parte conclusiva insiste su questo piano che inclina incautamente (e a volte precipita, con inutili volgarità e attacchi personali – allo storico Sabatucci, per esempio, alla studiosa istriana di letteratura italiana Nelida Milani) verso un giustificazionismo che lascia perplessi. Così, ricordando l’uomo costretto a guardare mentre la moglie viene violentata dai fascisti, l’attore dirà: “Cosa fai? Gli spari in faccia. Io non voglio giudicare, non dico che è giusto, ma forse anche sì”. E poi “le scuole italiane in Istria le hanno chiuse, sì, ma anche per ripristinare quelle chiuse prima dai fascisti”, e i presunti 5.000 infoibati diventano “forse 500” e le foibe una metafora dell’isterismo storiografico delle zone di confine, “un abisso per le fantasie della mente”.

Foto Luca d’Agostino/Phocus Agency © 2005

Eppure lo spettacolo era partito con una immagine scontata ma efficace che poteva diventare figura portante dell’intero lavoro e determinare un atteggiamento scevro da ideologismi. Storti e la Pecar, attrice slovena che garantisce l’impasto multilingue transfrontaliero – triestino, sloveno, italiano, croato – sono in scena con l’elmetto da speleologi e l’intenzione di calarsi nei crepacci della storia, “una sorta di percorso carsico in un argomento delicatissimo” ha appena spiegato il regista rivolgendosi al pubblico. Accesi i faretti sulla testa, i due attori si muovono carponi emulando le avventure di Sussi e Biribissi, i protagonisti di un libro per l’infanzia letto da quegli stessi bambini che nel secondo dopoguerra, all’alzabandiera, in coda all’inno nazionale cantavano: “Marciam marciam che Tito xé un rufian”.
Ma il cauto addentrarsi nel “Carso che xé tuto vodo”, in una “tera che xé tuto un buzo”, lascia ben presto il posto alla veemenza di una ricostruzione storica dell’occupazione italiana della Slovenia che elenca cifre, dati, mostra sullo schermo gigante terribili immagini di violenza a Lubiana, a Fiume, nel campo di concentramento di Arbe, dove nelle “tende Roma” i deportati morivano di fame e di malattia. Si leggono lettere di soldati italiani che descrivono le atrocità commesse sui civili inermi, si raccontano episodi raccapriccianti, si ricorda l’incendio dell’albergo Balkan a Trieste, la politica antislava, l’italianizzazione forzata dei nomi, le tante vittime degli squadristi, come il direttore d’orchestra Bratuz, costretto a bere olio di macchina per aver parlato dal podio nella sua lingua, lo sloveno.
Si comprende allora il primo intento del regista (che firma il testo e cita Claudia Cernigoi, autrice di Operazione foibe, Kappavu Edizioni): spiegare il contesto e le ragioni storiche che determinarono – dopo l’8 settembre e più tardi nell’immediato dopoguerra – le violenze contro gli italiani. Operazione doverosa, che la ricerca storiografica (da Giacomo Scotti a Raul Pupo) ha da tempo avviato. Quello che suona strano, tuttavia, è la riduzione di un eccidio a fatto quasi privato. Lo spettacolo contesta al Presidente Ciampi l’espressione “sterminio etnico” da lui usata di fronte alla foiba di Basovizza, ma all’idea di un olocausto di italiani sostituisce quella di una serie di regolamenti di conti, vendette personali, faide paesane. “Se si fosse trattato di sterminio etnico – si arriva a dire – come mai 2.000 operai potevano andare nel 1948 da Monfalcone” a lavorare in Jugoslavia? È un ragionamento troppo ingenuo per non essere in cattiva fede. Chiunque conosca la storia dei “monfalconesi” sa che la loro scelta (dalle conseguenze spesso drammatiche) e la loro accettazione da parte della Federativa jugoslava erano entrambe il portato di una cultura politica che (a scorciare il discorso con l’accetta) sostituiva “il sol dell’avvenire” internazionalista alle retoriche della patria e opponeva al nazionalismo la lotta di classe.

Foto Luca d’Agostino/Phocus Agency © 2005

Considerare le violenze contro gli italiani nel loro giusto contesto non può del resto lasciare l’impressione nello spettatore che si giochi ancora sull’equazione italiani infoibati = fascisti. Ma è un’ambiguità che sembra funzionale al primo come al secondo intento dello spettacolo: sgonfiare le cifre intorno alle foibe. Ecco allora Storti insistere su numeri e nomi, citare puntigliosamente gli errori nelle liste compilate in sessant’anni, da quella di Bartoli a quella di Papo fino a quelle più recenti: nomi e cognomi di persone inserite due volte o viventi dopo i fatti o giustiziati altrove. Ma che senso può avere calcolare perfino la percentuale di errori di queste liste?
Nelle note di sala, il regista dichiara che “il fine teatrale, e non storico, di Foibe è quello di colpire la coscienza dello spettatore facendo comprendere quanto importante sia aspirare ad una società multietnica”. Nobile scopo. Ma perché accanto ai precedenti storici che hanno causato le foibe, e alla vergognosa strumentalizzazione politica della destra italiana, Sarti e Storti non hanno ricordato anche la tragedia di chi ha subito, solo in quanto italiano, le stesse violenze e discriminazioni di chi le aveva subite in quanto sloveno o croato? Perché cioè non hanno fatto sentire – una volta ribadita la responsabilità del fascismo – la comune tragedia di un’area, quella della Venezia Giulia, dell’Istria, della Dalmazia, dove si è pianto in tutte le lingue? Il teatro, ben più intensamente della storia, può farci sentire che uno è il dolore. Può insegnarci a distinguere tra vittime e carnefici, ma deve saper riconoscere (meglio e prima della storiografia) quando le parti si invertono. Può farci comprendere anche una vendetta, non giustificarla.
E infine: dov’è il teatro? Lo spettacolo è lugubre, grigio, lungo, senza pathos. Non uno slancio lirico che commuova: eppure dalla lettura in ginocchio della tremenda lettera di un cappellano militare che assiste i fucilati s’intravede quella pietas che sola potrebbe opporsi a tanto male. Uno spiraglio d’ironia sembra aprirsi nel secondo atto, che inizia con le battute del processo a Cecchelin, noto attore triestino antifascista. Ma è anche questo un personaggio buttato via, reso subito livido da una recitazione monocorde. Quando il teatro si sostituisce alla storiografia senza mettere in gioco il proprio linguaggio, senza riflettere anche su se stesso, finisce per fare della cattiva storia e del cattivo teatro.

Fernando_Marchiori

2005-07-22T00:00:00




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