Lavorare nel fango

Introduzione all’e-book Per labbra recitanti nella febbre

Pubblicato il 22/03/2005 / di / ateatro n. 082

“Im Schlamm arbeiten”
Lutero

L’’attore è il punto di partenza necessario per la ridefinizione del ruolo del teatro nella società. È campo di lotta tra l’’atrofia creativa cui lo costringe il mercato e la sua peculiarità qualitativa che lo rende prima essenza di ogni opera. L’’attore è il teatro -– diceva Leo De Berardinis. E altri –- da Artaud a Brecht, da Grotowskij a Carmelo Bene –- lo hanno confermato prima e più volte. Con l’’oblio di queste esperienze la scissione si approfondisce nel corpo medesimo dell’attore: questo “atleta del cuore”, campo di libera invenzione, vede dissociarsi la propria funzione da se stesso, perde l’’identità di attore per trasformarsi in macchina al servizio di un apparato ambiguo, all’interno del quale si sono rifugiati uomini d’affari, impiegati, poliziotti del pensiero. Il vascello è allora nelle mani di passeggeri clandestini. Più in generale, il paradosso del teatro contemporaneo è che al suo interno dominano soggetti che sono delle macchiette di dominatori ben più pericolosi. La grande rivincita dei paria si compie sul corpo putrefatto di quella che era la “ricerca” teatrale. Torna la psicosi della regia come interpretazione e dittatura dell’idea sul corpo; riemerge una drammaturgia lineare, senza punti di catastrofe, e che richiede all’attore l’adesione al testo; dal grembo materno del falso riappare lo spettro dell’attualità, che non è messa in crisi del presente, ma semplice adesione al suo peggiore senso comune; e tornano a circolare sul ponte del vascello i “gazzettieri” come garanzia di vendita: senza la recensione e il sostegno di critico importante (non uno qualsiasi, ma proprio quello) sfiori l’angoscia e le scene ti sono interdette. La deriva del valore (di scambio) produce ostracismo. Che rapporto intercorre tra la distribuzione e la critica? Quanti critici influenzano o regolano direttamente la circuitazione di spettacoli? Non è ravvisabile, anche qui, un conflitto di interessi?
Domande imbarazzanti. È come mettere del veleno nella coppa degli amici; e poi, a porle pubblicamente, si rischia un ulteriore isolamento: chi può permettersi, oggi, di parlare male della funzione di indirizzo mercantile svolta da Tizio o da Caio? Altro imbarazzo sopraggiunge quando si affronta la questione “economica”, ovvero quell’insieme di elementi che permettono ad alcuni di vivere al centro delle attenzioni (di pubblico, di critica, di organizzazione, di sostegno finanziario) e costringono altri a una vita ai margini. Ad abbozzare una mappa del sistema ci si rende conto non solo di come elementi tra loro disparati convivono tranquillamente, spesso nella stessa programmazione (Lavia accanto alla Societas Raffaello Sanzio, poniamo), come se ogni critica aperta ai linguaggi irrigiditi del teatro contemporaneo non fosse più possibile e le diverse proposte altro non siano che prodotti mercantili differenti; ma all’analisi si vede anche un territorio diviso tra piccole tribù saldamente strutturate, con degli affari finanziari e produttivi da risolvere e – come dire? – aperte ma con discrezione, sostanzialmente poco curiose, poco disponibili a mandare i propri emissari in remote province dell’impero per scovare ciò che cova sotto la cenere. A ben guardare, la loro esistenza e il loro comportamento non è che una parodia, anche elegante, del “paese reale”, di quel paese che ha ormai definitivamente sancito il trionfo del modello impresa su ogni condivisione o partecipazione diretta delle maestranze alla gestione della “cosa pubblica”. È la dittatura della funzione imprenditoriale. Un ruolo molto importante nella regolazione del “mercato” teatrale lo giocano figure professionali nate in seguito a questa trasformazione: gli agenti, gli organizzatori, i manager. Spirito di iniziativa, creatività, abilità, assunzione del rischio, capacità di attivare scambi politici, sono i criteri d’azione che queste figure di nuovo imprenditore teatrale mettono in gioco, spesso fortemente legati ad un territorio e ad ambiti specifici, come se la coltivazione della “nicchia” sia considerata la strada più remunerativa. Ora, dietro l’apparente novità di questa impostazione, se si torna all’analisi dei prodotti spettacolari fatti circuitare da questi “impresari” si nota una staticità di impostazione, come se la compatibilità ai processi distributivi risieda, esattamente come ieri, in una definizione della scena pacificata e ancora una volta interpretata secondo canoni pre-ricerca o, addirittura, contra la ricerca stessa. L’impresa ha razionalizzato il teatro: in un contesto di conformismo dilagante il teatro riesce a piazzarsi solo se lo assume al proprio interno, solo se accoglie come parte integrante e base del proprio essere i “modelli ripetuti” e la “cigolante tecnica scenica” che esalta e diffonde. Nel proprio riprodurre l’omologazione, il teatro ostenta se stesso come mero oggetto di divertimento, dove il gioco dei segni è strumentale alla propria riuscita in quanto merce. Esso deve essere riconosciuto, gradevole, moralmente e civilmente interessante. Così esso diviene prevedibile.
Di quale tipo di attore ha bisogno questa condizione del teatro? Un attore anch’esso omologato al patto sociale che lo ha intrappolato nei confini d’una piacevolezza espunta da ogni impurità e, soprattutto, da ogni produzione di senso altro da quello imposto dall’ideologia dell’impresa. Un attore che, vincolato ad un livello “medio” e “banale” (la vendibilità prevede la banalizzazione dei costrutti), limita fortemente i propri mezzi espressivi. Lo standard attoriale oggi in voga prevede che le situazioni fittizie del palcoscenico devono avvicinarsi il più possibile a situazioni reali; tant’è che la tipologia della recitazione teatrale, ormai, differisce in quasi nulla da quella cinematografica o televisiva, dove il “realismo” è il tratto caratteristico; l’estensione vocale, ad esempio, si fa tendenzialmente minima, nel privilegio dato alla cosiddetta “voce di maschera”, restringendo la tessitura vocale alle regole della pronuncia (alla “pertinenza” tra esecuzione vocale e testo). E l’attore è compreso soltanto se parla questo linguaggio.
L’omologazione del teatrale al colloquio quotidiano (alla “chiacchiera”) dipende, in prima istanza, dalla ormai avvenuta mercificazione del teatro stesso, sempre più condizionato dal successo del “botteghino” o dall’apporto in termini di consenso dato alle istituzioni; e quindi, di riflesso, vincolato ad una ideologia del facile ascolto. Del facile ascolto, proprio così. O ti fai capire o sei fuori. Se nelle pieghe della recitazione indugia un “significato secondo”, dovuto alla strutturazione “esagerata” del significante; se dunque la recitazione è una soglia da passare con impegno, profonda e fluida, in una parola: enigmatica; allora – o almeno così credono i manager dello spettacolo diffuso – c’è il rischio che il prodotto teatrale sia di complessa decifrazione, dunque difficilmente smerciabile. In seconda istanza, lo stato generale di crisi in atto (economica e di senso), chiede agli attori di ridurre al minimo i tempi di prova e di studio. È chiaro che un percorso di ricerca sul suono della parola, su una gestualità non naturale o sulla strutturazione metrico-ritmica della recitazione, non è funzionale, cioè rischia di porre l’attore in difficoltà rispetto ad altri attori che stanno, come lui, nel grande bailamme della concorrenza. In altre parole: l’attore scompare proprio in quanto attore teatrale. Se vuole ancora avere diritto di esistenza, l’attore di teatro contemporaneo deve fare propri gli stilemi di una recitazione “emotiva e naturalistica”, o costringersi ad essere prigioniero di un apparato iper-tecnologizzato che ne limita la centralità e la creatività, di fatto accettando come modello imprescindibile ciò che l’epoca gli mette davanti. Deve insomma farsi protesi di un “sistema della moda” che gli impone di essere divertente o narrativo, il più possibile lineare, senza troppo turbare l’ascolto, e sempre incanalando la sua creatività verso modalità che ne limitano fortemente il potenziale espressivo. Quando ci si muove in questo modo si è compresi. Bisogna adeguarsi ai tempi; snaturando se stessi si afferma la propria presenza nel mercato dei divertimenti serali.
Attore oggi vuole sostanzialmente dire: presenza piacevole, messa in scena ben rifinita, imitando caratteri umani banalizzati, tramite di pensieri superficiali, nei limiti di un senso comune tendente al ribasso; vuol dire: illusione di sentirsi liberi di esprimere, esprimendo in realtà nient’altro che l’ordine della merce. L’ordine della merce segna la fine dell’attore come essere teatrale. Non più attore come portatore di verità, com’è in Brecht. Non più attore in quanto “essere integrale di poesia”, com’è presso Artaud. È la fine di una concezione dell’attore come presenza insieme terrifica e gratuita; fine che coincide con l’affermazione di una giostra dei divertimenti che non distingue più tra umano e macchina, che rende l’attore aderente ad una esposizione tranquillizzante, da narcotico serale. Quando si muove, fa partire l’applauso, non apre crisi percettive. Mai niente di negativo. Nessun impulso ad aprire varchi al dubbio. Viene simulata – sulla scena omologata – una realtà pacificata che non esiste e che, nel tacere il crudele della condizione umana, o nel renderlo neutro, esalta il simulacro della macchina. Dunque l’attore è liquidato, e con esso il teatro.

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Questo libro segna la persistenza di un atteggiamento di rifiuto, nella consapevolezza che si tratta di agire, entro ogni specifico, un altro senso, un senso contrario a quello oggi dominante. Si tratta, ancora una volta, di “rovesciare la dama”. In ciò sta il proposito di questa “prova aperta”, bene espresso nel motto luterano di lavorare nel fango. Una raccolta di testi teorici, di frammenti drammaturgici e di scritti d’’occasione, pubblicati su riviste o su siti internet, che sono nati parallelamente ad un lavoro caparbio di palcoscenico, condotto a partire dalla prospettiva della riscoperta di un tipo di attore non pacificato, disponibile ad emanciparsi da ogni dogma col fine di riprendere a meditare sulla propria arte e sull’essere il centro di ogni opera. Siamo tutti “nel fango”; lo è il teatro e lo è ancor di più la società, diventata in maniera evidente un “sistema di morte”. Rimettere in questione tutto, per costruire la possibilità di “una nuova ascesa”. Non siamo costretti ad accettare come “naturale” o “normale” ciò che tutti fanno. Se le modalità recitative sono quelle, non è detto che non ce ne possano essere altre. E non si tratta di offrire ricette poetiche od estetiche. È invece opportuno ripartire dai punti di crisi, dalle incrinature, per verificare se la fase negativa in corso possa trasformarsi in opportunità creativa e se le prassi dominanti siano o meno adatte a riscrivere, dalla prospettiva dell’attore, il teatro. D’altra parte, alle nostre spalle gli esempi non mancano, ed è anzi storicamente verificabile come le migliori esperienze siano sorte proprio come reazione ad una situazione vissuta come costrittiva e bloccata. Da queste bisognerebbe ripartire, per lo meno dal loro atteggiamento di messa in crisi delle forme consolidate. Per affrontare la crisi del teatro bisogna prima di tutto mettere in crisi la lingua teatrale: bisogna – come scriveva Artaud – “spezzare il linguaggio per raggiungere la vita”; e fare ciò significa disfare il teatro. Anche Peter Brook, di fronte al teatro costituito, che definiva “mortale”, esaltava l’atteggiamento spietato di chi lo pratica come “arte distruttiva”, dunque vitale; anzi, non mancava di sottolineare come la causa prima della crisi risieda nell’’accettazione, da parte dei teatranti, del marciume: “la recitazione mortale diventa la ragione della crisi”. In questi due esempi si può cogliere un orizzonte di ricerca – se si vuole, un’idea di teatro – che ha la sua reale basis nell’infrazione dei modelli, ritenuti inadeguati e chiusi al “nuovo”. In tale orizzonte, diventa prioritario rivedere l’’attore e la sua funzione, sia in termini di azione culturale che di connotazione particolare del suo specifico: il superamento delle convenzioni come proposta di un nuovo contatto con il pubblico e con il mondo. Perché un attore ruvido, aspro, irregolare, che non ha paura di sbagliare, sincopato, informe, essenziale come un tumulto, imbarazzante, coerente, che è al tempo stesso forma e idea, canto grottesco e verità gridata, che è graffiante ed anche osceno, che è rhythmus in corpore vili e dunque poesia scolpita nello spazio; perché un attore così concepito apre la possibilità di un teatro “del dubbio, del disagio, del turbamento, un teatro che lancia segnali allarmanti”, che è l’’unico teatro oggi veramente urgente e necessario.

Questa è l’’introduzione all’’e-book Per labbra recitanti nella febbre, liberamente scaricabile dal sito www.neviogambula.it.

Nevio_Gambula

2005-03-22T00:00:00




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