La voce dellattore
Una riflessione
Il cammino a ritroso della vita nel capitalismo, o nel coesistervi su un pianeta con fossa comune (perdita in su-perficie, crescita della morte nelle fosse), strappa il legame dellattore con la (sua) proprietà privata: non recita più alcun ruolo. Lespropriazione=liberazione dellattore come condizione della sopravvivenza del teatro.
H. Müller
Ma che accade allattore, alla voce dellattore quando recita un testo? Secondo il senso comune, allattore spetta il compito di svolgere il suo ruolo e seguire le indicazioni del regista. Il ruolo è fissato, in termini di indicazioni (didascalie più o meno generiche, a seconda dei casi), nel testo drammaturgico. Il regista ne propone una lettura e allattore spetta realizzarla sul palcoscenico attraverso luso della voce, del gesto, dei movimenti nello spazio. È il rito dellinterpretazione. Ciò che ha pregnanza è la coerenza di ogni elemento con il testo. Lattore è di fatto un essere pensato dal testo; la sua costruzione della parte soggiace ad un particolare rapporto di dipendenza con esso. E pertanto la sua voce deve equilibrare il movimento dei suoni a quello del significato. Qual che accade alla voce, alla voce dellattore nello spettacolo della parola, è ciò che potremmo chiamare lesperienza del medium: essa è il mediatore tra lautore e lo spettatore. Ma la mediazione presuppone lesistenza di uno spazio condiviso, di una esperienza comune ad attore e spettatore: ed ecco che la voce dellattore si concede alla luce dellesperienza verbale quotidiana, così che risulti agevole individuare i significati della lingua. Nellambito del teatro con-temporaneo, dunque, il problema della esecuzione fonetica della parola è risol-to così: privilegiando la prosodia, in particolare le caratteristiche ritmiche ed intonative connesse ad informazioni di carattere paralinguistico tipiche della lingua comune. È il rito della voce come rappresentazione del testo.
Nellambito di questa concezione, la voce non viene vista come segno dotato di un proprio «potere di senso», ma come semplice veicolo di significati che hanno sede fuori dalla voce stessa, dentro il linguaggio: la voce è intesa come «gesto articolatorio» conforme al sentire del personaggio, ad essa spetta nientaltro che tradurre le situazioni previste dal testo facendo coincidere, nella dizione, ogni articolazione sonora con una «intenzione di senso». Questa tendenza si afferma a partire dagli insegnamenti di Stanislavskij e dal suo concetto di riviviscenza. La recitazione è intesa come «creazione organica di un essere umano vivente», mentre la qualità dellattore si misura sulla sua capacità di identificarsi con il personaggio: è direttamente propor-zionale alla capacità di rendere la recitazione congrua ai parametri psicologici, esistenziali e intellettuali del personaggio, sviluppando il dire in perfetta aderenza al detto. Essere attore significa essere un altro. A onor del vero, la strada indicata da Stanislavskij era ben più complessa di quanto si sarebbe poi affermato nel teatro del Novecento, e la sua linea di ricerca è stata sicuramente tra le più importanti di tutta la storia del teatro. Resta però evidente che il suo sacralizzare il testo drammaturgico, cui lattore deve sottomettersi, abbia di fatto contribuito ad affermare lidea della messa in scena come fondamento del teatro, che in realtà è qualcosa di diverso: non solo trasposizione di un testo pre-esistente sulle assi di un palcoscenico, ma linguaggio vero e proprio, con una propria sintassi e una propria capacità ar-ticolatoria che esula il testo scritto. Se invece il testo è lelemento prioritario, allattore spetta il compito di farlo «rivivere»; per conseguire lo scopo deve fare della recitazione una semplice «azione verbalizzata» del testo stesso, rendendo la voce alienata in altro da sé. Con ciò dice giustamente Maurizio Grande lattore «è schiacciato contro la fisionomia (verbale e mimica) della dramatis personae» e la sua voce si fa «megafono di una identità imposta dallesterno», altra da quella dellattore stesso. Esercitarsi ad essere un altro parlare con la voce di un altro di-pendere da questo altro riprenderne il linguaggio, simularlo: essere attore significa la-sciarsi fare da un altro da un altro che è così palesemente inumano, così assolutamente freddo, di carta. Essere attore è amare al posto di un altro fingersi daccordo con un altro dimenticando se stessi. È lopera che immagina lattore.
Eppure, eppure non è sempre stato così. La storia del teatro non è avara di spunti di con-trotendenza. Ci sono esperienze, importanti pur se minoritarie, che hanno dato dignità inventiva allattore come essere dotato di vita propria: un attore che produce il suo spa-zio, lo istituisce, lo ricerca e lo rende visibile. La recitazione non è più una cerimonia di ripetizione di un carattere altrui, ma un «evento essenziale», che scatena lattore in quanto creatore di forme. Ed è qui che la voce acquista una valenza decisiva: acquista una sua capacità di produrre senso, anche presa separatamente dal codice linguistico cui fa riferimento; è pronta ad esaltare, pur nella relazione coi significati (ma non più sotto-messa ad essi), il corpo fonico della parola. Lattore naufrago, in balia del testo, comincia a costruirsi una zattera tutta sua; diventa il maestro di cerimonia, e il teatro torna ad essere il regno dellattore. Lo stesso teatro greco delle origini, per non dire poi della poesia epica, agiva la parola facendo vacillare il limite tra parlata e canto, riconoscendo alla voce un valore autonomo, indipendentemente dalle norme del discorso. Anche la Commedia dellArte, in evidente rottura con i postulati del tempo, frantuma la catena del linguaggio naturale, in particolare con lintroduzione di interruzioni del discorso lineare (i cosiddetti lazzi), allontanando la voce da quel «portare allorecchio del popolo il concetto che la parola esprime» (Tasso), per fare invece risaltare la ricchezza delle sue tonalità in senso completamente gratuito. La stessa cosa potrebbe essere fatta rilevare con il sorgere del recitar cantando, in cui la struttura del parlato assume connotazioni fortemente musicali, facendo esplodere la parola non già in imitazione del livello semantico, quanto piuttosto articolando il significante come «una sorta di accompagnamento al significato» (Pagnini). Fino ad arrivare ad un contemporaneo di Stanislavskij, ossia a quel Mejerchold che per primo ha, per lo meno nel Novecento, contestato il fatto che lattore dovesse immedesimarsi nel personaggio: incamminarsi tra le pieghe del personaggio facendo apparire la propria distanza da esso, e fare ciò mediante il ricorso ad una struttura gestuale e vocale modulata al di là delle convenzioni linguistiche. Secondo il grande regista sovietico, lattore deve abbandonare tutto ciò che odora di psicologia per rivolgersi invece alla musica; soltanto con questo atteggiamento potrà far risaltare i personaggi non come «tipi unici», ma come maschere sociali. Importante, in questo senso, la sua indicazione di trasformare la dizione dellattore in «melodia che provoca negli spettatori delle associazioni» con il ricorso a staccati non naturali, a interruzioni del ritmo declamatorio, a variazioni tonali giustificate non psicologicamente. Comincia da qui una proficua sperimentazione sulla musicalità del linguaggio; comincia da qui: slegando la declamazione dal discorso quotidiano, in favore della «creazione di una trama verbale organizzata musicalmente». Non più, dunque, latto di porgere la voce privilegiando i «referenti concettuali» della lingua, ma la parola intesa come corpo sonoro; è lo stesso Mejerchold a dirlo: «il mio sogno è uno spettacolo provato con un sottofondo musicale, ma poi recitato senza musica. Senza musica, ma con la musica, giacché i ritmi dello spettacolo saranno organizzati secondo le leggi musicali e ogni interprete porterà la musica dentro di sé». Da questo punto in avanti si srotola unaltra storia.
Diciamo che nel corso dellultimo secolo sono stati sostanzialmente due gli atteggiamenti che lattore ha assunto di fronte al testo: 1) fondare unaltra idea di recitazione, tale almeno da permettergli di affermare se stesso e la propria vocalità, usando il testo come un tramite per allargare i propri confini; 2) assumere la recitazione dellepoca e quindi penetrare il testo, legarsi amorevolmente alla parola data e tradurla vocalmente. Nel primo caso, ad avere rilevanza è lautorialità; lattore è elevato al rango di compositore della partitura vocale, ne è il diretto responsabile, e ciò al di là (e spesso contro) il testo; nel secondo, prevale lapproccio ermeneutico, per cui allattore spetta chiarire il testo, trovare una sintesi interpretativa e svolgerlo in voce cercando il più possibile laderenza tra la propria recitazione e il dettato dellautore. Il primo è lattore poeta; non sparisce tra le righe del testo: è il testo, ovvero, come dice Carmelo Bene, nella scrittura vocale poesia è la voce (e il testo è la sua eco, dice). Il secondo è lattore interprete; riferisce altro: «la voce assume il ritmo della scrittura e lo traduce nelluniverso corporeo e tattile della sonorità, presta cioè ad esso la propria individualità» (F. Frasnedi).
Con lavvento dellattore-poeta comincia ad affermarsi un attore non più costretto a su-bire il personaggio, ma capace di farlo diventare strumento del proprio sguardo sul mondo; un attore che, slegandosi definitivamente dal linguaggio parlato tutti i giorni e dal testo scritto, tende al canto: «nello spettacolo scrive magistralmente Antonio Attisani lattore non dice, ma significa e canta». In questa prospettiva, le dinamiche della voce vengono organizzate metricamente, secondo un «procedimento di frammentazione e ricomposizione ritmica». Scansione del respiro, cesure, accenti, dissociazione di ritmo e sintassi, ripetersi di blocchi sonori (rime?), accordi ripetuti, contrasti, sillabe spezzate, parole tronche: la recitazione assomiglia sempre di più ad una composizione poetica. Lattore diviene «un essere integrale di poesia»: gioca con la voce nel momento in cui la libera dalla dipendenza dal significato. Non placa il grido nascosto che alberga nella voce; lo esalta, a briglie sciolte. Senza uccidere il significato; tuttaltro. Lo rende fluido, lo rende aperto, ne amplifica lefficacia. La voce libera il significato da se stesso, per lo meno quando riesce a trasformarsi in «appello al godimento e allinquietudine». Non gioco gratuito, quindi. Nellinquietudine è annunciata la critica, si esprime una lacerazione. E allora, quel «piacere agoni-stico della voce» che mira a piegare il linguaggio alle esigenze dellattore ha un unico scopo, uno scopo che è eminemente politico: «realizzare il desiderio represso di fare del corpo un oggetto di gioco», e non oggetto di una routine che lo vede sistematicamente messo al lavoro sino allusura. Questo è un punto centrale. Senza uccidere il significato, appunto: perché riscattare la voce sottraendola alla dipendenza dal semantico non significa eludere quel «andare verso qualcuno» che Wittgenstein indicava come dimensione specifica del significato. Nella voce, il significato «non va in vacanza»: esplode, per rinascere nello stupore dellascolto (pur degenerando, traccia il suo messaggio perché la voce pura non esiste).
Ora, qui è fondamentale liberarsi di un malinteso. Lavanguardia teatrale italiana ha puntato a tenere «distinti e distinguibili» significato e significante e non, come erroneamente è stato detto in piena bagarre decostruzionista, attivare un dire che sia assenza di senso. Questultimo è stato lapproccio di quanti, contrapponendosi «al sistema logocentrico della parola», sono giunti a soffermarsi sulla voce in quanto «assenza di significato». Tale atteggiamento, per così dire, comincia «proprio là dove il pensiero finisce», e rinvia a quella diffidenza rispetto al logos (alla razionalità che si esplica in linguaggio) che porta ad esaltare la valenza del dire (lunicità del parlante) rispetto al detto (i concetti e tutto lambito del semantico); in sintesi, abolendo ogni legame della voce con la verità (il senso è la verità, scrisse Henri Lefebvre). Sospendendo, il parlante, ogni «rapporto con il fuori», la voce è emancipata «dallurgenza di significare», liberandola da ogni complicità col mondo. Si resta fermi ad uno stadio pre-comunicativo; alla preistoria dellespressione. Pratica insidiosa: è in agguato la torre davorio; il rifiuto della significazione è sempre in bilico di trasformarsi in rapporto di non curanza e quindi di accettazione dello stato delle cose. Il caso di John Cage è esplicativo. Indubbiamente, il suo esaltare una vocalità scaricata di ogni legame con la parola-pensiero, ha portato a risultati artisticamente rilevanti (esemplari le esecuzioni di Joan La Barbara in Singing Through del 1990); è però anche vero che le sue composizioni sfociano in una aleatorietà che è «rinuncia a intervenire sulle cose, sulla e nella storia»; una «esaltazione del si-gnificante» che per di più non è «intimidatoria nei confronti del fruitore comune» (A. Gentilucci). La valorizzazione della «funzione destabilizzatrice del godimento vocalico nei confronti delleffetto disciplinante del linguaggio» (Cavarero), in questo caso, sfocia in un «esotismo gratuito» che non riesce affatto ad incrinare, come vorrebbe ad esempio la Kristeva, «la Legge e il Discorso del Potere».
Lanalisi dei fenomeni spettacolari dimostra invece come, anche nei casi più radicali, esiste una speciale significazione nella voce, una sua capacità particolare di farsi «fenomeno di senso»; ma soprattutto dimostra che, alla prova pratica dellascolto, il significato non scompare affatto, anzi, viene esaltato, come raddoppiato dalla phoné dellattore. Il modo di impostare la dizione nel suo Per farla finita con il giudizio di Dio, non porta assolutamente Artaud a liberarsi del significato o, come dice ancora la Kristeva, «ad attaccare il senso», tuttaltro; linstabilità ritmica, le tonalità alte, la fonazione strozzata, se è vero che portano a puntare lattenzione su quel suo dire esagerato e disorganico, è altrettanto vero che non nascondono il senso di ciò che voleva comunicare; altrimenti non si capisce perché Artaud abbia scritto proprio quelle cose, in particolare nel momento iniziale («Jai appris hier »), nel brano La question se pose de (recitato da Paule Thevenin) e nella conclusione, dove traspare un forte significato polemico nei confronti della cultura occidentale, e non un semplice accavallarsi di frasi o sillabe non significanti. Ha ragione piuttosto Carlo Pasi, in particolare quando fa notare come la rottura degli schemi e la sperimentazione delleccesso propri della dizione di Artaud fossero condotti con lintenzione non di annullare la comunicazione tout court, ma di aprire un nuovo spazio comunicativo, dove lincontro con lAltro, nel totale allentamento delle inibizioni, si potesse trasformare «in una comunicazione attiva, intensa». La dizione imperfetta di Artaud apre nuove possibilità di senso, e dunque di libertà («di amore e di rivolta», dice lo stesso Artaud). Anche lascolto delle opere di Carmelo Bene potrebbe fugare dubbi in proposito. Si prenda ad esempio il poemetto Lamento per la morte di Ignazio Sanches, scritto da Garcia Lorca. Certamente Bene, come in ogni altra sua opera, soppianta una volta per tutte la «voce impostata» dellattore teatrale e, per così dire, elude «il messaggio esplicito»; però è innegabile che la sua musicalità del dire produce senso. Nel caso citato, il senso di morte e di memoria trafitta dalla mancanza presente nel testo di Lorca è fatto vibrare, oltre che dal ricorso ad un timbro particolarmente scuro, da una scansione regolare delle strofe, quasi a rappresentare un funerale, ma è fatto poi esplodere (di dolore) in micro variazioni tonali e timbriche allinterno dei singoli versi, e in particolare nello slittamento verso lafasia in alcuni accenti e nel ripetere le sonorità delle sillabe finali, là dove Bene, per realizzare la sua idea di modo grumi di frasi che si ripetono fonicamente simili nella struttura, somiglianti alle strofe musicali ma eludenti ogni melodia ricorre al tipico ingoiare il fiato o allimprovviso salire dottava. Anche il ritmo fonatorio concitato usato da Bene per recitare i versi di Majakovkij (in Quattro diversi modi di morire in versi) permette allascoltatore di cogliere in tutta la sua portata la valenza eversiva del dettato poetico del poeta russo («io odio tutto questo / tutto ciò che ha inculcato in noi / lantica schiavitù»); permette insomma non già di eludere il significato, piuttosto di realizzare quella messa in scena totale della parola che era la sua principale ricerca. La costruzione della partitura si compie, in Bene, nel predisporre ogni elemento in «apparente disordine» (o stonatura) rispetto ad un andamento normale. Latto di spostare le toniche o di spezzare le parole, isolando nel silenzio alcune sillabe, è in fondo un rompere la prosodia quotidiana per andare in direzione di una «sonora costruzione dei periodi». La voce di Bene dice giustamente Giacché è della musica. Il processo della parola si esplicita in qualità sonore modulate non già psicologicamente, ma, appunto, secondo parametri assimilabili alla musica, senza però diventare canto vero e proprio. La voce è finta; la sua estensione trascende la voce parlata nel quotidiano, i passaggi di registro o i cambiamenti di timbro avvengono proiettando la voce in sintonia a unidea estetica, anche privilegiando luso dei tipici difetti, dal gutturale alla voce ingolata, dal nasale al rauco, persino allafonia vera e propria. In ciò è evidente un distacco, addirittura una critica esplicita alla tipica voce impostata dellattore di prosa. Il respiro, in Bene, non segue più il messaggio del discorso, viene articolato secondo parametri essenzialmente ritmici, riuscendo «a penetrare nellintimo del linguaggio», con evidenti parentele con lo Sprechgesang («un canto generato dalla parola») ripreso e praticato da Schönberg. In effetti, proprio il funzionamento dello Sprechgesang agevola la comprensione del modo di procedere di Carmelo Bene nei riguardi della relazione tra voce e parola. Lattore imposta i ritmi e gli altri valori fonici (altezze, timbri, etc.) nella piena consapevolezza della differenza tra parlata quotidiana e reci-tazione, e imposta lemissione avvicinandosi e allontanandosi dalla prosodia, disattendendola con spostamenti di accento e modulando la voce in un modo che è, allo stesso tempo, «prossimo al canto e distante dalla dizione naturalistica» (Schönberg). Il senso delle parole è agito secondo parametri musicali. Ed ecco che è in questo modo che lattore si fa poeta.
Nella poesia della voce ciò che ha pregnanza è il controllo del processo creativo, a partire prima di tutto dalla regolazione del fiato. Le tecniche vocali variano a seconda dello stile o del senso critico (lemissione, scriveva Cathy Berberian, «è anche una scelta culturale»), per cui, ad esempio, luso dei risuonatori è radicalmente diverso tra un attore grotowskijano e un attore di tradizione. Insomma, è un insieme di criteri etici od estetici (o un incrocio tra questi) che domina il controllo del ciclo parola-ritmo-suono da parte dellattore-poeta, testimoniando che il pro-blema della costruzione del significante è già il problema del senso. Questo è un punto centrale. In questa consapevolezza lattore grida la sua emancipazione totale. Qui la voce lievita e, intravisto labisso, sincammina come lanterna: una «illuminazione nel fango». Perché qui si gioca la tensione ad unificare compositore e interprete, in modo che lattore, diventando padrone delle proprie intenzioni espressive, celebri la propria liberazione. Fusione, nella stessa persona, del compositore e dellinterprete: questa è stata la strada percorsa da molta vocalità non convenzionale, che è nata e si è sviluppata al di fuori delle accademie, dallavanguardismo spinto dellopera The big bubble dei Residents al minimalismo di Meredith Monk, dal radicalismo vocale di Diamanda Galàs al cabaret-rock di Dagmar Krause, dalle vocine distorte e irridenti di Frank Zappa al canto popolare di Giovanna Marini. Ed è stato il percorso intentato da certo teatro di ricerca, in particolare italiano, dove la conformità ai riti propri di una tradizione incapace di emozionare veniva fatta deragliare a favore del gratuito (e della critica), esaltando la qualità personale dellattore: «la sua stessa voce, il dispiegamento delle sue tonalità, la ricchezza fonica». La scissione tra il ruolo dellautore e quello dellesecutore, allora, è superata dalla pratica senza scopo e perciò scan-dalosa e rivoltante dellattore. In questa deriva, piuttosto che bardo stipendiato al servizio di un apparato istituzionale, lattore agisce in totale indipendenza e diviene, appunto, poeta. E tutta la ricerca di Carmelo Bene è lì a dimostrarlo.
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Nevio_Gàmbula
2005-01-18T00:00:00
Tag: attore (17), voce (8)
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