Il teatro tra rivoluzione e restaurazione

La scrittura scenica nell'analisi di Lorenzo Mango

Pubblicato il 05/01/2005 / di / ateatro n. 062

Con La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento Lorenzo Mango ha compiuto un’ampia (oltre 400 pagine) e ambiziosa ricognizione, sia sul versante della pratica spettacolare sia su quella della teoria, avendo fin dall’inizio ben chiara la difficoltà di imbarcarsi in una simile impresa.

Einstein on the Beach di Robert Wilson fotografato da Theodore Schank (per accedere all’archivio online delle foto di Schank alla UCSD sull’experimental theatre, clicca sull’immagine).

Perché la nozione di scrittura scenica (la cui paternità è da attribuire a un brechtiano come Roger Planchon) ha due accezioni, o meglio può essere inserita in due contesti diversi. Il primo è più ampio, e comprende in pratica tutta la storia del teatro del Novecento, quando la scena inizia a rivendicare ed esplorare la propria autonomia artistica, emancipandosi sia rispetto alla matrice letteraria (superando l’approccio che Mango sintetizza nell’equazione «teatro=parola») sia rispetto alla tutela del «grande attore». In questa prospettiva, tanto i grandi teorici d’inizio secolo (Gordon Craig, Appia) quanto le varie avanguardie (dai futuristi al Bauhaus), tanto i maestri della regia moderna (da Stanislavskij in poi, passando ovviamente per Brecht) quanto drammaturghi come Beckett, praticano tutti la scrittura scenica (contrapposta a una «scrittura drammaturgica», sbilanciata sul versante testuale), declinandola a seconda delle diverse poetiche e situazioni storiche. In quest’ottica, praticare la scrittura scenica significa essere consapevoli della specificità dell’arte teatrale, senza limitarsi alla «illustrazione» di un testo, ma utilizzando i diversi elementi che concorrono all’evento spettacolare (la scena e più in generale lo spazio, il suono ovvero parola, rumori e musica, il gesto, gli oggetti eccetera) valorizzandone l’autonoma forza poetica e significante, e le diverse materialità e linguaggi.

1789 del Théatre du Soleil fotografato da Theodore Schank (per accedere all’archivio online delle foto di Schank alla UCSD sull’experimental theatre, clicca sull’immagine).

La seconda accezione è invece più specifica, e rimanda a un momento molto particolare della storia del teatro: gli anni Sessanta e Settanta, quando il concetto di scrittura scenica venne rilanciato in Italia in primo luogo da Giuseppe Bartolucci (e ripreso da Maurizio Grande), in contrapposizione proprio al teatro di regia. In quegli anni una variegata serie di esperienze ha obbligato a ridefinire lo statuto stesso del teatro: è difficile sottovalutare l’impatto – sugli spettatori ma anche sugli studiosi – dei lavori di Grotowski e dell’Odin, del Living Theatre e del Bread and Puppet, di Peter Brook e di Andrei Serban, ma anche dell’avanguardia americana di Wilson, Monk e Foreman, di Schechner e dei Mabou Mines, e in Italia l’irruzione di Carmelo Bene e di Leo De Berardinis, e la stagione delle cantine romane e il teatro immagine di Memè Perlini e Giuliano Vasilicò, fino alle provocazioni della nascente post-avanguardia di Carrozzone, Gaia Scienza e Falso Movimento…
Questa pratica teatrale si è contrapposta alla tradizione della regia, con modalità articolate e differenziate ma con molti elementi comuni. Si ricollegava consapevolmente all’esperienza delle avanguardie (gli happening e le performance degli anni Sessanta, e risalendo all’indietro dada, surrealismo e futurismo), dopo essersi emancipata dalla dipendenza da un testo pre-esistente fino a rifiutarlo provocatoriamente (salvo in alcuni casi smembrarlo e decostruirlo). Ha impostato una riflessione analitica sulle ragioni, sugli elementi e sulle modalità del «fare teatro» – sullo «specifico» del teatro. Ha superato le distinzioni tra i generi e le arti e al tempo stesso ha cercato ogni occasione per contaminare arte e realtà.

Pandering to the Masses di Richard Foreman fotografato da Theodore Schank (per accedere all’archivio online delle foto di Schank alla UCSD sull’experimental theatre, clicca sull’immagine).

Per rispondere a livello teorico alla radicalità di questa pratica (che sfociava spesso in una dimensione anche politica, e che poteva portare anche a una uscita, temporanea o definitiva, dal teatro) e alla sua forza di contestazione della scena «ufficiale», il concetto di scrittura scenica sembrava offrire le necessarie armi teoriche e polemiche. Beppe Bartolucci lo teorizzò in un volume, intitolato appunto La scrittura scenica (Lerici, Roma, 1968), e lo utilizzò come testata per la rivista che diresse tra il 1971 e il 1983.
Anche se poi, a quella stagione di programmatica sovversione, è seguito – sia negli Usa sia in Italia – quello che a molti è apparso un «ritorno all’ordine», ovvero a forme spettacolari in apparenza più ancorate alla tradizione e a codici più consolidati, ristabilendo le abituali divisioni dei ruoli, a cominciare da quello del regista, e si recuperano il testo, il personaggio e i ruoli (sul «ritorno all’ordine», almeno sul versante americano, vedi i fondamentali saggi di Richard Schechner e Arnold Aronson; in Italia invece le successive ondate di nuovo teatro, con le loro punte radicali, hanno tenuto vivo questo filone e la relativa riflessione teorica).
Nel mettere a fuoco il concetto di scrittura scenica, Lorenzo Mango – che come spettatore e studioso si è formato proprio in quel momento irripetibile e ora insegna Storia del teatro moderno e contemporaneo all’Orientale di Napoli – si muove dunque su un crinale assai sottile e ambiguo. Da un lato deve differenziare la pratica della scrittura scenica da quella della «normale» regia novecentesca, mantenendo fermo l’ancoraggio ai grandi teorici, compreso naturalmente Artaud (in pratica, deve privilegiare decisamente Meierchol’d rispetto a Stanislavskij, che pure è il primo riferimento di Grotowski). Ma dall’altro deve ricondurre nell’alveo della scrittura scenica una serie di esperienze recenti, sempre più vicine (almeno in apparenza) proprio al teatro di regia; anche se poi nella sua esplorazione decide curiosamente di ignorare due esperienze che avrebbero potuto fornirgli spunti interessanti: l’emergere di gruppi più giovani (il suo repertorio non va oltre la Socìetas Raffaello Sanzio, ignorando tra gli altri Marcido, Motus, Fanny & Alexander, Clandestino, Masque, eccetera) e l’impatto delle nuove tecnologie e del multimediale, cui si accenna di sfuggita.

Pig, Child, Fire! dello Squat Theatre fotografato da Theodore Schank (per accedere all’archivio online delle foto di Schank alla UCSD sull’experimental theatre, clicca sull’immagine).

La scrittura scenica si concentra dunque – in un repertorio di esempi assai ricco e articolato – soprattutto su alcuni spettacoli che tra gli anni Sessanta e Settanta hanno fatto la storia dello spettacolo, per ricavarne una gamma di elementi e di pratiche che caratterizzano una certa idea di teatro – tra tutti, i lavori del Living e di Grotowski, del Carrozzone-Magazzini e della Gaia Scienza, di Kantor e di Robert Wilson, di Carmelo Bene e Leo De Berardinis – ricollegandoli sistematicamente a precedenti teorizzazioni. Ecco così emergere, in un primo momento, la necessità di «decostruire» le forme canoniche dello spettacolo e i singoli elementi che concorrono alla rappresentazione – e qui il fulcro è ovviamente Carmelo Bene. Successivamente vengono esaminati e valorizzati i diversi elementi che concorrono all’evento teatrale: in primo luogo il testo (la parola), poi lo spazio (sulla scia del postulato di Marco De Marinis: «L’uso dello spazio quale elemento drammaturgico costituisce la vera, rivoluzionaria innovazione del teatro novecentesco»), e ancora l’oggetto, la luce, il corpo (ovvero l’attore) e il suono… Nell’ambito della scrittura scenica tutti questi diversi elementi possono muoversi in reciproca autonomia, dal momento che se ne riconosce e valorizza l’autonoma forza significante e poetica. In questo sta forse la principale contrapposizione con la tradizione della regia «classica»: la capacità della scrittura scenica di creare diversi livelli di significato senza subordinare la creazione di un senso univoco a un testo pre-scritto e alla sua supremazia (e a un principio d’autorità di cui il regista si fa interprete e garante, e che non a caso viene messo in discussione in maniera esplicita proprio nel fatidico ’68).

Nyatt School del Wooster Group fotografato da Theodore Schank (per accedere all’archivio online delle foto di Schank alla UCSD sull’experimental theatre, clicca sull’immagine).

Tuttavia per diversi aspetti la realtà rischia di rivelarsi più complessa. La «decostruzione» dell’evento teatrale è stata operata anche dalla cosiddetta «regia critica», a cominciare da Luca Ronconi (di cui peraltro Mango cita soprattutto l’uso e la reinvenzione dello spazio nel memorabile Orlando Furioso del 1968). E’ proprio dalla crisi della fiducia verso il testo, da una lettura «sospettosa» (sulla base di Marx, Freud e dello strutturalismo), che si innesca una irreversibile crisi della rappresentazione e delle sue forme, che investe sia il teatro di regia sia il nuovo teatro. Luca Ronconi – nell’ambito della regia, insieme ad altri – metterà in discussione, in particolare con il Laboratorio di Prato, alla metà degli anni Settanta, i diversi elementi della tradizionale costruzione teatrale (lo spazio, il personaggio, il testo), alla ricerca di una possibile rifondazione. Ma la crisi a cui rispondono registi come Ronconi e molti degli esponenti del nuovo teatro tra gli anni Sessanta e Settanta ha le stesse radici.
La crisi della rappresentazione, oltre che la dissoluzione del pubblico borghese e nazional-popolare, riflette peraltro alcune delle problematiche delle neo-avanguardie letterarie attive in quegli anni, con il rifiuto della narrazione, il superamento della psicologia, la supremazia dello sguardo, l’attenzione agli aspetti formali, allo statuto dell’opera e al rapporto con il fruitore. L’enigmaticità e l’opacità del segno teatrale riverbera le preoccupazioni della filosofia analitica di quel periodo e della riflessione su alcuni aspetti del pensiero di Ludwig Wittgenstein: anche qui il nodo è il rapporto tra significante e significato, nell’epoca in cui si riscoprono i formalisti e la semiotica si affermava fino ad aspirare al ruolo di «scienza totale» in grado di interpretare l’intera realtà – e non è un caso che Roland Barthes approdi alle semiotica dopo essersi a lungo occupato di teatro e in particolare di Brecht.
Dunque, fermi restando l’ampiezza e l’efficacia delle esemplificazioni prodotte da Mango nel delineare una pratica spettacolare, il nodo della scrittura scenica continua a restare assai aggrovigliato. Forse per provare a sbrogliarlo bisognerebbe andare contemporaneamente in due direzioni in apparenza indipendenti. Da un lato ritornare alle radici teoriche dell’opera d’arte totale (e dell’intermedialità); dall’altro ripensare il concetto di «straniamento» brechtiano (risalendo magari fino a Eisenstein). Forse in questa chiave il codice della scrittura scenica, più che aspirare a essere un passe-partout interpretativo, può trovare una serie di articolazioni e dialettiche interne che possono intrecciarsi con le problematiche della regia contemporanea e del suo rapporto con il testo.

Lorenzo Mango
La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento
Bulzoni, Roma, 2003
416 pagine, 27 euro.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2004-01-05T00:00:00




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