Impressioni da Teorema

Motus e L'ospite

Pubblicato il 13/07/2004 / di / ateatro n. 071

Motus aveva iniziato il cammino verso Pasolini quest’inverno con lo spettacolo Come un cane senza padrone, rilettura “filmica” di Petrolio. La descrizione pasoliniana della periferia romana si traduceva spazialmente in una videoinstallazione «a tre ante» posizionata sulla parte destra del palcoscenico: umanità povera ma spensierata (lunghi piani-sequenza puntati sui «ragazzi del popolo») e paesaggio desolante ripreso contemporaneamente su tre lati dalla macchina in corsa. Nella parte sinistra un film: l’incontro tra l’ingegnere e il cameriere e il loro rapporto sessuale esplicito nel «pratone». Un «film di letteratura», come amano definirlo, con il testo narrato in diretta, con notevole bravura (e attenzione ai sincronismi) dall’attrice (Emanuela Villagrossi) e i sussurri, gli ansimi degli orgasmi in un doppiaggio sempre live dagli attori (Dany Greggio e Franck Provvedi). Campeggiava sulla scena, la macchina perfettamente ricostruita in vetroresina, di Pasolini.


Foto di Laura Arlotti.

Motus continua il percorso – con una continuità che ricorda Orpheus glance e Twin Rooms – con L’ospite, tratto da Teorema. Rimane la letteralità e rimane il film (parti della sceneggiatura di Teorema o brani da Petrolio o dagli Appunti per un film su San Paolo diventano scritture luminose che si imprimono nel film che scorre), ma il video in scena non è più installazione ma grandiosa e imponente scenografia, quasi architettura che trattiene immagini, cose e persone. Tre giganteschi schermi portano dentro la psicologia della storia – la desertificazione della borghesia, il suo immobilismo. Il «trittico video» con tutta la sua imponenza, rilascia «l’illusione» di uno spazio tridimensionale, di una camera ottica, di un’enorme casa senza la «quarta parete» a cui è affidata la cronaca in immagine (ripetitiva, automatica, letteralmente a loop) di una famiglia della ricca borghesia industriale. Davanti alla casa con giardino all’inglese, anche i personaggi dànno l’impressione (e non molto di più) di essere padre, madre, figlio, figlia «in uno stato che non critica se stesso» (come scriveva Pasolini)


Foto di Laura Arlotti.

Siamo dentro la cattedrale gotica dove si venera un’icona preziosa: l’immagine rassicurante e venerabile della sacra famiglia borghese. Pasolini parlava di Teorema come «nato su fondo oro, dipinto con la mano destra, mentre con la mano sinistra lavoravo ad affrescare una grande parete (il film omonimo). In tale natura anfibologica, non so sinceramente dire quale sia prevalente, se quella letteraria o quella filmica». L’ospite viola questo interno, questa stanza neutra, piatta, costruita secondo un asse prospettico perfettamente centrale e ne sconvolge le regole: le inquadrature, i campi, le proporzioni, ne mette in luce le quintature, la maschera posticcia, mostra il graticcio, i cavi, fa saltare le valvole di sicurezza, scardina l’apparente tranquillità, che ha la forma di un fondale teatrale dipinto introducendo nella finzione (ovvero nel film) l’evento inatteso e liberatorio. Vanificata l’illusione, rimane la realtà nella sua veste più tragica, una volta constatata l’insofferenza dei personaggi verso la propria nuova condizione e diventati tutti «casi di coscienza» (Pasolini).
La scena si fa leggere per scansioni verticali e orizzontali (come fa il pennello elettronico del video) perché ha varie profondità e altezze di azione: una specie di passerella-giardino in posizione ribassata con erba riportata, accudito dalla serva (che ascenderà in alto con i tiranti del teatro), lo spazio anteriore entro l’ambito dello schermo leggermente rialzato, in cui le immagini dei corpi a dimensione naturale si mescolano con chi lo percorrre ed infine la parte dietro gli schermi, che unisce in un effetto chromakey e dissolvenza, corpi, ombre, luci e immagini retroproiettate. Ricordava l’artista video Bill Viola che la stanza a sei facce cinta da quattro mura non è altro che «la distillazione archetipica del mondo mentale che proprio la prospettiva di Brunelleschi, un’invenzione urbana, articolerebbe ulteriormente. La mente non soltanto è confinata nello spazio tridimensionale, ma lo crea».
Lo spettacolo finisce con un conflagrazione finale (le bombe fasciste? le stragi degli anni Settanta?) e nella corsa folle e nell’urlo, «destinato a durare oltre ogni possibile fine», del ricco padrone Paolo nel deserto, quel deserto simbolo di una condizione estrema di solitudine ma anche luogo di illuminazione e di mistica visione, quel deserto che ha punteggiato tutto il racconto e che non può che ricordare l’ambientazione di molti film di Pasolini e le atmosfere dei video di Bill Viola (Chott el Djerid, Déserts).
Ci aspettiamo che l’Italia accolga questo spettacolo con tutti gli onori come ha già fatto la Francia, decisamente all’avanguardia quanto a sale (e a mentalità) in grado di ospitare progetti scenici dal respiro grandioso come questo (dai giapponesi Dumb Type a Robert Lepage, perché è a loro, per l’affine spettacolarità teatral tecnologica che dobbiamo guardare per fare un paragone adeguato).

Anna_Maria_Monteverdi

2004-07-13T00:00:00




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