La neo-televisione può nascere dal teatro?

Dal catalogo di Riccione TTV 2004 expanded theatre

Pubblicato il 15/05/2004 / di / ateatro n. 069

Tra televisione e teatro, sta succedendo qualcosa di assai strano, sotto queste nere lune d’Italia.
Tanto per cominciare, in un paese dove le testate giornalistiche via etere o su carta subiscono un controllo politico sempre più asfissiante, magari in nome della par condicio, le censure e le autocensure (o se si preferisce le cautele…) tendono a moltiplicarsi. L’informazione si ritrova sempre più appiattita, edulcorata, omogeneizzata. La denuncia e il dibattito anestetizzati in recinti sempre più stretti.
Restano i comici, ma anche per loro la vita si è fatta un po’ più dura. Le loro apparizioni televisive, appena superano la soglia della comicità da oratorio (dove è consentito scherzare bonariamente sui difetti del parroco), finiscono per avere effetti devastanti e suscitare reazioni assolutamente spropositate – soprattutto quando affrontano uno dei temi più sensibili, la resistibile ascesa del signor B.
Può essere un giornalista che chiama un comico. Vedi Enzo Biagi quando ha convocato Roberto Benigni al Fatto, il 10 maggio 2001: pochi minuti, qualche frase («Il contratto di Berlusconi con gli italiani? Ormai è un cult. Quella cassetta lì l’ho registrata proprio. L’ho messa tra Totò e Peppino, e Walter Chiari e Sarchiapone. (…) Non voglio parlare di politica, sono qui per parlare di Berlusconi. Accadono cose spettacolari, inaudite: il Papa che è entrato per la prima volta in una moschea, bambini geneticamente modificati, Berlusconi probabile presidente del Consiglio. Stravolgimenti che fanno un po’ pensare…») e il candidato presidente del consiglio ha perso 1.750.000 voti (secondo le stime dell’interessato).
Oppure può essere un comico che chiama un giornalista. E’ successo a Daniele Luttazzi quando nel marzo del 2001, nell’ambito della medesima campagna elettorale, ha chiamato a Satyricon Marco Travaglio (oltre un milione di voti perduti, secondo la medesima autorevole fonte).
Il risultato non cambia: la lista dei criminali da video – nel caso specifico diramata a Sofia dal miliardario ridens – continua ad allungarsi.
Dopo una serie di incidenti di questo tenore, è stato necessario passare alla prevenzione. Se il 23 novembre 2003 Paolo Bonolis ha provato a convocare nel santuario di Domenica in quel sovversivo di Paolo Rossi, che nel suo straordinario spettacolo si permette di difendere la Costituzione, e se il medesimo Paolo Rossi ha minacciato di citare quel sovversivo di Pericle, è subito scattato un efficace blocco preventivo, appena prima della diretta: una misura censoria che non ha meritato neppure un serial killer confesso come Renato Bilancia, considerato con ogni evidenza assai meno pericoloso dell’accoppiata tra uno statista ateniese di 2500 anni fa e un piccolo comico cresciuto (mica poi tanto) sulle sponde dei Navigli. Perché qualche mese dopo, anche il buon Bilancia finirà al centro di una dura polemica, ma solo dopo essere andato in onda nel più classico dei programmi per famiglie.
Ma quali bestemmie voleva gridare Paolo Rossi, autore e protagonista di Il signor Rossi e la Costituzione che da due anni riempie i teatri di tutta Italia? Voleva solo citare le parole che Tucidide mette in bocca Pericle, quando nel secondo libro della Guerra del Peloponneso spiega il concetto di democrazia agli ateniesi:

«Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: per questo è detto democrazia. Le leggi assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora egli sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, non come un atto di privilegio, ma come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento. La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se preferisce vivere a modo suo. Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e le leggi, e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono un’offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte la cui sanzione risiede solo nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di buon senso. La nostra città è aperta al mondo; noi non cacciamo mai uno straniero. Noi siamo liberi di vivere proprio come ci piace, e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private. Un uomo che non si interessa dello Stato non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché soltanto pochi siano in grado di dar vita a una politica, noi siamo tutti in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione un ostacolo sulla strada dell’azione politica. Crediamo che la felicità sia il frutto della libertà e la libertà sia solo il frutto del valore».

Per i «censo-Rai», questo brano non fa ridere e dunque non può andare in onda. Come ha commentato Curzio Maltese sulla «Repubblica» del 28 novembre 2003:

«In Italia i comici devono essere prudenti perché gli intellettuali sono assai severi con la satira, attenti alla virgola e alla minima caduta di gusto. D’altra parte il comico è un mestiere di grande responsabilità. A differenza del politico e del giornalista, si pretende che sia impeccabile. C’è uno solo che può dire montagne di sciocchezze, rifiutare il contraddittorio anche in periodo elettorale, fare i complimenti ai corruttori e le corna ai ministri, raccontare barzellette sui malati di Aids e sull’olocausto, esaltare Mussolini e i massacri russi in Cecenia: nel totale silenzio dei nostri bravi bacchettoni. Questa però è concorrenza sleale».

Se poi un direttore di rete, mettiamo della testata teoricamente più libera del lotto (ovvero Rai Tre), in un momento di debolezza o in una vertigine di coraggio, concede uno spazio di terza serata, la domenica oltre mezzanotte, a Sabina Guzzanti per un programma intitolato Raiot. Armi di distrazione di massa (che ha come autori Curzio Maltese ed Emanuela Imparato con la collaborazione del terrificante Marco Travaglio e di Paolo Santolini), la sarabanda è assicurata: cancellazione dello show dopo la prima puntata (che va in onda lunedì 17 novembre 2003, con un giorno di ritardo per il montare delle polemiche), grazie a un miscuglio di motivazioni giuridico-burocratiche difficilmente districabile – ma in ogni caso vigliacco, perché sarebbe più semplice e onesto chiamare le cose con il loro nome: «censura». La giustificazione più ridicola riguarda senz’altro i limiti del «genere» cui dovrebbe attenersi un guitto: costui è tenuto a fare satira e non informazione, così si argomenta – a prescindere dal fatto che le sue informazioni siano vere o false, significative o ininfluenti. Ecco dunque i paladini del controllo politico della risata, i politici e gli intellettuali, i critici e i colleghi non ancora infettati dal virus comunista, gli avvocati e i consulenti, presentarsi in tribunale o ai talk show con il loro bel dizionario in mano, per trasformare una definizione in un decreto di censura. E’ anche utilizzando un sillogismo di questo tenore che nell’occasione Mediaset (attraverso gli avvocati Stefano Previti e Pieremilio Sammanco) ha querelato Sabina Guzzanti, Marco Travaglio (chissà perché solo lui, tra gli autori: gli altri sono ancora invidiosi), Studio Uno s.r.l. (la società produttrice) e la Rai, chiedendo 20 milioni di euro di danni:

«E’ noto, in verità, che la satira sorge per l’innato bisogno di irridere personaggi noti e potenti e non risponde, a differenza della cronaca e della critica, a finalità informative. La giurisprudenza più volte sul punto ha infatti espresso che “il diritto di satira a differenza del diritto di cronaca non assume l’informazione come proprio obiettivo (primario o anche solo concorrente)” (Dir. Inform., 1989, 520). Non può dunque fondamentalmente affermarsi che la satira contribuisca alla formazione della pubblica opinione e questo perché il mezzo espressivo prescelto è intrinsecamente connotato dall’intento dissacratorio. Ragion per cui, se una funzione si deve assegnare alla satira, essa va individuata nell’esercizio di un controllo sociale verso il potere; la satira, in definitiva, attraverso l’arma incruenta del sorriso assolve la funzione di “moderare i potenti”, di smitizzare ed umanizzare i personaggi famosi, di umiliare i protervi, favorendo la diffusione di un clima di tolleranza che attenuerebbe le tensioni sociali.
E’ allora evidente quindi la diversità di funzione rispetto alle altre manifestazioni del pensiero, atteso che la satira non può, per sua natura, perseguire il fine di contribuire alla formazione della pubblica opinione».

Insomma, gli avvocati di Mediaset hanno dato la loro esilarante definizione di satira (che loro intendono come vaselina del potere) e in base a essa hanno chiesto la condanna dei satiri che non si conformano a questi precetti. Al contempo danno un’idea del ruolo che alla satira assegnano le reti berlusconiane…
Così, censura dopo censura, querela dopo querela (anche se poi in genere i magistrati chiedono l’archiviazione, con motivazioni istruttive; ma l’effetto è già stato ottenuto), uno dopo l’altro molti dei migliori attori-autori italiani, in genere quelli che cercano di pensare con la propria testa, o anche quelli che vengono ritenuti semplicemente «inquietanti» rispetto al sedativo catodico, vengono estromessi dal grande circuito televisivo: è toccato persino all’innocuo Dario Vergassola, reo di goliardia recidiva e di simpatie sinistrorse, incompatibili con Caterpillar.

Purtroppo per i loro avversari, però, gli eroi della satira in genere non restano disoccupati, dopo essere stati banditi dal piccolo schermo.
C’è stato il glorioso precedente di Dario Fo e Franca Rame, gli incorreggibili recidivi. Dopo aver abbandonato la storica Canzonissima del 1962 a causa di «divergenze artistiche e ideologiche» con i dirigenti Rai, che avevano censurato uno sketch sui diritti dei lavoratori (in specifico cantonieri e casellanti), i due erano stati banditi da Mamma Rai e dai teatri «ufficiali». Con il loro Collettivo Teatrale La Comune hanno girato l’Italia per decenni di fronte a platee affollatissime (uno straordinario esempio di management creativo, che dovrebbe diventare oggetto di studio nei master di economia della cultura).
Quello fu uno scontro direttamente politico, ai tempi di una grigia Rai sotto stretto controllo democristiano. Quando i tempi sono cambiati e la tv ha iniziato a vendere consumatori alle agenzie di pubblicità, è toccato a Beppe Grillo, bandito dal video dopo un lungo braccio di ferro. Questa volta la censura, prima che dalla politica, è arrivata dagli inserzionisti, terrorizzati dalle arringhe del nuovo tribuno dei consumatori. Per neutralizzare l’autore-attore genovese i pubblicitari hanno usato una tenaglia formidabile: da un lato la classica intimidazione attraverso una raffica di denunce con risarcimenti miliardari, dall’altro la minaccia di ritirare gli spot ai canali che osassero diffondere le sue omelie a difesa dei consumatori. Da anni Grillo in tv non lo si vede più – se non sulla sovversiva Televisione della Svizzera Italiana e su qualche pay tv. Però dopo, a volte, con calma, la storia fa giustizia. Dopo il clamoroso crac Parmalat, nel dicembre del 2003 il comico genovese è stato sentito in qualità di testimone: nei suoi recital il comico genovese aveva illustrato con qualche anno d’anticipo e con dovizia di particolari la difficile situazione della multinazionale del latte e le follie del suo padre-padrone. Insomma, quello che le grandi banche italiane e straniere, la Consob e la Banca d’Italia non dicevano ai risparmiatori, un buffone lo raccontava ai suoi spettatori, facendoli sganasciare dalle risate. Ma in televisione, a causa del «rischio querele», quelle cose non ha potuto dirle. Con grave danno per migliaia di piccoli risparmiatori, privati di informazioni utili.
Peraltro la censura, se intimidisce e zittisce molti con il suo valore esemplare, trasforma spesso le sue vittime in eroi, regalando loro un’aura di martirio, di coerenza, di indipendenza. Così ecco Fo-Rame e Grillo inventarsi, a qualche decennio di distanza, due circuiti alternativi. Fatti soprattutto di spazi non teatrali: il primo di Case del Popolo, Circoli Arci, fabbriche e scuole occupate; il secondo di Palazzetti dello Sport e piazze, auditorium e grandi sale teatrali, per tournée che raccolgono decine di migliaia di spettatori: certo meno di un varietà televisivo da prima serata, ma anche molte più di un normale spettacolo teatrale di giro.
In questi ultimi anni la tendenza si è, se possibile, accentuata. Esclusi dal piccolo schermo, i nuovi censurati (da Grillo a Luttazzi, da Fo-Rame a Rossi, da Sabina Guzzanti allo stesso Marco Travaglio, che ormai a furia di raccontare e ricordare l’«incredibile ma vero» della politica nostrana è diventato un irresistibile intrattenitore, in grado di scatenare uragani di risate) stanno creando un nuovo pubblico «live»: spettatori desiderosi di ascoltare un’altra campana, di riconoscersi in un messaggio divergente dal pensiero unico, di testimoniare la propria militanza, si contano sempre più numerosi e combattivamente reattivi: non a caso il loro recente successo coincide con quel sussulto di società civile che sono stati i Girotondi, mobilitati sui due nodi chiave dell’informazione e della giustizia.
Così, al posto della seconda puntata (censurata) di Raiot, alcune decine di migliaia di persone si sono raccolte il 23 novembre all’Auditorium di Roma (quelli che non sono riusciti a entrare si sono assiepati davanti al maxischermo allestito nella Cavea esterna, sempre nel Parco della Musica) per assistere – o meglio partecipare – a una edizione teatrale della trasmissione. Alla megashow hanno partecipato, tra gli altri, oltre a Sabina Guzzanti, il fratello Corrado, Daniele Luttazzi e Dario Fo con un contributo video, Paolo Rossi, Serena Dandini, Fiorella Mannoia, Nicola Piovani, Francesco Paolantoni, Neri Marcoré, Marco Marzocca, Sabrina Impacciatore, David Riondino, Rosalia Porcaro, Stefano Vigilante, Max Paiella, Corinna Lo Castro, Roberto Herlitzka, Francesca Reggiani. La serata ha ricordato per alcuni aspetti i leggendari pomeriggi domenicali intorno alla Palazzina Liberty di Milano occupata da Fo negli anni Settanta. L’esperienza è stata poi ripetuta in altre città italiane, per esempio al Palazzetto dello Sport di Milano qualche settimana dopo, con esiti analoghi.
E fin qui, verrebbe da commentare, tutto nella norma: un rigido controllo sospinge la comunicazione più controversa verso una forma d’arte antiquata, marginale, elitaria, escludendo le voci più «inquietanti» dai media egemoni e di maggiore impatto. A questo punto però è successa una cosa strana, nel reame del duopolio perfetto Rai-Fininvest. E cioè in un regime ancora dominato dalla vecchia televisione generalista, dove le forme più avanzate della televisione (cavo, satellite, pay tv, reti tematiche, eccetera) faticano ad affermarsi. Il teatro, o meglio alcuni dei teatranti banditi dalla tv di regime, sono diventati il volano per immaginare un’altra televisione.
Così la seconda puntata di Raiot, che la Rai non ha voluto né produrre né trasmettere, in qualche modo ha invaso l’etere. La kermesse del 23 novembre è andata in onda in diretta, grazie alle strutture satellitari messe a disposizione da emili.tv (la nuova televisione per EMIttenti LIbere, è visibile tramite satellite sintonizzandosi sul canale 855 del bouquet Sky oppure, per i possessori di ricevitori Gold Box, attraverso la ricerca personalizzata, tra il canale 200 e il canale 220) e grazie ad Arcoiris.tv. Così è stato possibile vederla, oltre che via internet e satellite, in decine di luoghi di ritrovo (teatri, circoli, sedi di varie associazioni…) in tutta Italia. E’ stato quasi un ritorno alla televisione delle origini, un passo indietro di cinquant’anni, quando gli italiani si raccoglievano nei pochi bar che disponevano di un televisore per assistere a Lascia o raddoppia?
Sempre per Sabina Guzzanti, è stato tentato un altro esperimento inedito, la diffusione di un’altra serata «pro-Raiot» – quella al Palapartenope di Napoli del 25 gennaio 2004 – via videotelefonino. Trasmesso in diretta dalla televisione del Mugello Tele Iride, lo show è stato diffuso sui videotelefoni con accesso Internet: «Riteniamo si tratti del primo caso multimediale in Italia nel quale uno stesso evento viene mandato contemporaneamente in onda sulla tv satellitare, su tv terrestri, su internet e anche sui telefoni cellulari», ha spiegato il direttore generale di Tele Iride, Giuliano Noferini. «Siamo felici di essere partecipi di questo evento con una tecnologia avanzata, attori di una vicenda che, siamo certi, segnerà la storia della comunicazione». Anche Dario Fo e soci nelle stesse settimane hanno tentato un esperimento inedito. Ancora nel 1998 lo spettacolo sul caso Calabresi-Marino era stato trasmesso da Raidue, con buoni esiti d’ascolto e il solito codazzo di polemiche politiche. Il 27 marzo 2003 il suo precedente spettacolo, Ubù Bas va alla guerra – a quel punto ormai decisamente improponibile sulle reti Rai e Fininvest, e anche su La 7 – era stato trasmesso da un network sperimentale di una ventina di televisioni locali e via satellite. Questo il comunicato di Dario Fo, Franca Rame e Jacopo Fo per lanciare l’iniziativa:

«Signore e signori, buona sera. Siamo qui per annunciarvi che giovedì 27 marzo 2003, alle ore 20,30 saremo in onda con una trasmissione comica su almeno 20 televisioni locali e via satellite. Cioè dovremmo riuscire a raggiungere tutta Italia con due ore di spettacolo. Si parlerà della guerra in Iraq, della situazione in Italia e di alcuni avvenimenti che le televisioni ufficiali tacciono. Diciamo subito che non siamo in grado di produrre una televisione stabile. Si tratta solo di un esperimento per dimostrare che è possibile farlo. E in ogni caso ci sembrava doveroso cercare di raggiungere, almeno una volta, un grande pubblico con un discorso non omologato. Siamo sull’orlo di una tragedia di portata immensa e non ci sentiamo di lasciare nulla di intentato. La situazione anomala della tv in Italia ha reso possibile qualche cosa di incredibile: ci sono 6 televisioni in mano a un uomo solo e centinaia di tv locali strangolate da un monopolio pubblicitario quasi assoluto. E un altro uomo (Murdoch) che controlla Stream e Tele+. Ma le nuove tecnologie hanno reso molto più economico fare e trasmettere tv. Oggi pensare a una televisione indipendente non è una follia. Questa nostra televisione è per ora in grado di esistere per una notte sola come Cenerentola. E’ un atto dovuto, per la situazione drammatica che il pianeta stà attraversando. Vogliamo far conoscere al pubblico televisivo le grandi menzogne che le televisioni nazionali stanno spacciando. Ma lo scopo di questa trasmissione sarà anche un altro, vogliamo vedere quante persone, in Italia e in tutta Europa via satellite, riusciremo a raggiungere. Crediamo che oggi ci siano parecchi milioni di persone che sono stanche di questo regime del Pensiero Unico. E crediamo che ci siano tutte le premesse per creare una vera televisione libera e stabile. Abbiamo fatto due conti, sarebbero sufficienti 500 mila euro (un miliardo di lire) per garantire una tv tutti i giorni via satellite e via internet, con un telegiornale quotidiano e l’accesso a tutti quelli che in Italia e all’estero avranno materiali autoprodotti da proporre. Parliamo di televisione povera, molto povera, una telecamera, una persona che racconta e basta: una televisione il cui valore sta in quello che dice e per il linguaggio che sa usare. Una televisione dove il pubblico vota e può determinare veramente i palinsesti esprimendo il proprio giudizio.
Potenzialmente si potrebbero raggiungere almeno 5 milioni di case e episodicamente si potrebbero organizzare grandi eventi e ottenere un passaggio sulla rete delle tv locali. Una televisione che si muove fuori dai circuiti normali a costo di fare l’ autostop. E pensiamo che una televisione che possa offrire un accesso al grande pubblico e creare uno straordinario movimento di filmaker, con gruppi che ovunque iniziano a autoprodurre materiali visivi.
Perché la tv monopolista non è negativa solo per i suoi contenuti ma anche perché non è in grado di stimolare nuovi talenti, è chiusa in un sistema di caste che non lasciano spazio a proposte originali e nuove. Una televisione che sia veramente aperta potrebbe scatenare il desiderio di inventare programmi oltre che guardarli. E forse ne potrebbero uscire molte opere più interessanti e divertenti del Grande Fratello. C’è quindi da chiedersi se ci siano i mezzi per finanziare una tale televisione.
Potenzialmente sì. Pensiamo che un movimento che è capace di portare in piazza milioni di persone dovrebbe essere in grado di raccogliere 500 mila euro. E pensiamo anche che ci siano imprenditori in Italia che avrebbero tutto l’interesse a comprare 500 mila euro di pubblicità su una televisione che parli al movimento. Da anni lavoriamo al discorso della consociazione degli acquisti (risparmiare denaro e, contemporaneamente, ottenere servizi migliori e finanziare attività etiche). Basterebbe che 50 mila persone facessero il contratto di telefonia etica (www.commercioetico.it) per mettere insieme questi 500 mila euro (risparmi il 20% sulle tariffe di Tele2 e contemporaneamente il tuo contratto frutta mediamente 20 euro all’anno che il fornitore di telefonia versa come provvigione). Oppure basterebbero 25 mila persone che stipulassero sia il contratto di telefonia etica che quello con l’assicurazione etica. Oppure… Le possibilità sarebbero decine, centinaia…Crediamo che quando il movimento sceglie la via della creatività possa inventare soluzioni straordinarie… Ma intanto quello che bisogna riuscire a fare è: informare che ci sarà questa trasmissione. Non è la prima volta che il movimento riesce ad avere accesso alla tv. Lo hanno fatto Emergency, Micro Mega, Mega Chip, le dirette sulle manifestazioni e sul Social Forum di Firenze. La trasmissione via satellite e tramite le televisioni locali è un percorso già sperimentato. Ma è la prima volta che si prova a trasmettere una serata incentrata su un tema tragico svolto con serenità e sarcasmo. Il problema centrale a questo punto è: riusciremo a far sapere che siamo in onda? Vuoi dare una possibilità alla nascita di una tv indipendente? Aiutaci a far sapere che giovedì 27, alle ore 20,30 saremo in onda. Per una sera soltanto e forse mai più.»

E’ stata questa la prima significativa uscita pubblica della neonata atlantide.tv, la rete sperimentale alla quale sta lavorando lo stesso Jacopo Fo. I risultati non sono stati disprezzabili, come si evince dalla homepage della tv:

«Migliaia di anni fa esisteva una civiltà meravigliosa e pacifica in cui gli uomini non combattevano tra di loro, ma univano i loro sforzi nell’immane impresa di rendere più ospitale la terra. Questa era Atlantide. Atlantide che fu distrutta dai maremoti della storia. Ma non furono distrutte le sue idee di pace, amore, parità tra i sessi, rispetto per i bambini e i diversi, celebrazione della vita attraverso la festa e il gioco.
Idee che oggi stanno rinascendo, e che diventano di giorno in giorno più forti perché sono le più antiche: il pacifismo, l’ecologia, il femminismo, il movimento gay, la musica scatenante, la nuova puericultura, la new age, la medicina olistica…
Per aiutare queste idee a rafforzarsi e a crescere, per raccontare tutti questi sogni, per ridere di noi e di voi cercando un nuovo gusto della vita. per questo è nata atlantide.tv.
E a questa idea di televisione hanno da subito aderito molte persone portatrici di culture innovative e innovatrici, che con le attuali televisioni predigerite non hanno nulla a che fare: grandi artisti, tra cui Dario Fo, Franca Rame, Jacopo Fo, Paolo Rossi, Lella Costa, Patch Adams, professionisti, persone che pensano positivo, fanno tutti parte di atlantide.tv.
Un primo positivo esperimento è già stato realizzato il 27 marzo 2003, quando lo staff di atlantide.tv ha ideato e portato in video
Ubù Bas va alla guerra con Dario Fo, Franca Rame, Jacopo Fo e la partecipazione straordinaria di Giorgio Bocca in video e di Daniele Luttazzi in audio. Questo evento unico è stato seguito da 6 milioni di persone (più di 2 milioni gli spettatori medi), venendo trasmesso contemporaneamente via satellite, internet e da una rete di 27 televisioni locali terrestri.
Atlantide.tv nasce come una televisione:
· autorevole e di grande personalità, per la notorietà e il valore dei promotori e dei partecipanti all’idea;
· capace di parlare all’ampia fascia di utenti insoddisfatti della programmazione televisiva attuale, e alla ricerca di stimoli nuovi e intelligenti;
· comica, positiva e disposta a dire quello che le tv predigerite non sospettano neppure;
· con una garanzia di qualità (etica, ambientale, culturale) della sua programmazione, dall’intrattenimento all’informazione, fino agli spazi commerciali.
La nostra idea di tv è molto essenziale e assolutamente democratica: chiunque abbia qualche cosa di interessante da dire e la capacità tecnica di raccontarlo potrà avere un nostro “passaggio” televisivo.
Atlantide.tv è stata in programmazione all’interno di Iride TV dal 28 agosto al 30 settembre 2003 ed è tornata in onda dal 3 novembre tutti i giorni sul satellite.»

Il successivo spettacolo di Dario Fo, L’anomalo bicefalo, ancora dedicato a Berlusconi e ai suoi cadaveri nell’armadio, ha offerto l’occasione per approfondire questa sperimentazione teatral-televisiva. Infatti è stato annunciato che al termine della tournée lo spettacolo sarebbe stato trasmesso da atlantide.tv, appoggiandosi per la diffusione a Planet.tv, un canale che utilizza le frequenze di Sky.
L’anomalo bicefalo è andato effettivamente in onda, anche se in circostanze decisamente surreali. Già la tournée teatrale (con circa 50.000 le presenze in tutta Italia) era stata tormentata: il tentativo di bloccare le repliche al Piccolo Teatro da parte di qualche «amico del giaguaro» del consiglio d’amministrazione dello stabile milanese era stato bloccato nell’ottobre del 2003, ma proprio in occasione delle repliche al Teatro Strehler, a gennaio 2004, era partita una seconda offensiva, con la querela del senatore (nonché pluripregiudicato) Marcello Dell’Utri, che oltre a una richiesta di un milione di euro di danni intimava all’emittente di rinunciare all’annunciata messa in onda della versione video dello spettacolo. Così il 23 gennaio, al termine del solito confuso braccio di ferro, si è arrivati a una soluzione inedita: mentre sullo schermo per due ore e mezza scorrevano le immagini dello spettacolo senza il sonoro, un sottotitolo annunciava che «A SEGUITO DI UN’AZIONE LEGALE DA PARTE DEL SENATORE MARCELLO DELL’UTRI, PLANET HA DECISO DI TRASMETTERE L’ANOMALO BICEFALO SENZA AUDIO. CE NE SCUSIAMO CON GLI ABBONATI».
Così rifletteva il giorno dopo su «Repubblica» Curzio Maltese: «Se c’era bisogno di consegnare al mondo e alla sua storia un’immagine perfetta del regime mediatico all’italiana, nel suo definitivo squallore, eccola». «Il vero autore della censura è Berlusconi e il vero obiettivo sono le cose che diciamo sulla P2, i capitali di Milano 2 e le società off shore», hanno commentato Dario Fo e Franca Rame. Dopo questa memorabile e ridicola performance del sistema mediatico nostrano, il 30 gennaio, dopo un lungo tira e molla L’anomalo bicefalo è andato finalmente in onda, audio e video: «È la prima volta che si capovolge la situazione e questo perché c’è una forza popolare che si è mossa oltre la stampa sia italiana sia straniera», ha esultato il Premio Nobel. «Ma sia chiara una cosa: questo gesto di censura era stato fatto non perché avevano timore del processo. Basti pensare che hanno buttato mezzo miliardo nell’operazione, quando l’altro richiedeva una cifra di gran lunga minore. Se avessero perso il processo, ammesso che si fosse mai svolto, avrebbero perso meno della metà del denaro che hanno sprecato con questa operazione. È stata invece un’operazione politica e certo non c’entra nulla il timore del processo». Planet ha replicato così: «Non esiste alcuna dietrologia o pressione dall’Italia o dalla Francia rispetto alla decisione di sospendere temporaneamente la trasmissione dell’Anomalo bicefalo, ma si tratta soltanto di una scelta di tipo strettamente manageriale. A seguito della presa d’atto della citazione di Marcello dell’Utri si è ritenuto necessario sospendere temporaneamente la trasmissione per una verifica legale. Fatta la verifica, l’emittente ha deciso di mandare in onda L’anomalo bicefalo, non volendo mettere a repentaglio la propria libertà di espressione editoriale». Pochi giorni dopo il Tribunale di Milano (così come quello di Roma aveva fatto per la querela contro Raiot) ha respinto la richiesta degli avvocati di Dell’Utri.

Un ultimo esperimento che forse val la pena di citare – anche se le censure sono state soltanto minacciate e tutte le puntate sono andate regolarmente in onda – riguarda la partecipazione di Marco Paolini a una delle rarissime trasmissioni d’inchiesta della nostra tv, Report di Milena Gabanelli, in onda sulla solita Rai Tre. Alcune puntate (dal 23 novembre al 21 ottobre) sono state introdotte da una mezz’ora di monologo su temi in qualche modo legati all’inchiesta della settimana, anche se non meramente illustrativi. Inutile ribadire la qualità e l’interesse del lavoro dell’attore veneto, e la sua volontà di sperimentare una formula nuova, a metà tra il teatro e l’inchiesta, l’informazione e la memoria. Può essere invece interessante esaminare l’andamento dell’ascolto di una puntata tipo: perché i monologhi di Paolini – che pure ad alcuni critici sono sembrati troppo lunghi, ancora acerbi a causa di uno scarso rodaggio con il pubblico «vero» dei teatri – nel corso di mezz’ora portavano lo share della trasmissione da un iniziale 5% fino all’11% circa, mentre lo share di Report oscilla solitamente tra il 9 e l’11%, in linea con quello della rete in quella fascia.

Al di là del successo tecnico e di pubblico di queste iniziative, è curioso che a fare da catalizzatore di una sperimentazione creativa del medium televisivo sia stato così spesso l’arcaico teatro. Respinto dalla tv generalista con le più varie motivazioni, anche quando potrebbe ottenere uno share non disprezzabile, il teatro – un certo tipo di teatro, di forte impegno politico e civile e con una forte presa su ampie fasce di spettatori – sta cercando di ritrovare il suo spazio sull’etere. Inventa (o recupera) forme inedite di rapporto con il pubblico attraverso una serie di esperimenti a metà tra il marketing delle reti tematiche e l’utopia autogestita delle telestreet. Il teatro, in quanto opera d’arte totale, gioca a intrufolarsi nelle nuove teologie, e cerca al tempo stesso di appropriarsene. Anche in forme curiose e imprevedibili. Le ragioni sono certamente molteplici. Non è un caso che dietro a questi esperimenti ci siano spesso lunghe esperienze di militanza politica e un radicato rapporto con ampi settori della società civile. Non è un caso che i teatranti sappiano spesso fare di necessità virtù, recuperando dalla memoria collettiva dell’arte tattiche di bricolage (e di elusione) assai efficaci. Non è un caso che alcuni artisti sappiano rendere il loro linguaggio flessibile per avvicinare più ampie fasce di pubblico.
Il risultato è che – come spesso accade con il teatro – si creano occasioni per immaginare e praticare qualcosa di diverso, una piccola utopia che investe addirittura la televisione.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2004-05-15T00:00:00




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