Le recensioni di “ateatro”: La Repubblica di Platone

Regia di Italo Spinelli

Pubblicato il 08/03/2004 / di / ateatro n. 065

Se la città ideale che Platone pianifica nella Repubblica è una sorta di rappresentazione a rovescio dell’Atene del suo tempo, la riscrittura del testo platonico che il regista Italo Spinelli mette in scena al Piccolo di Milano, dopo il debutto senese dell’anno scorso, rivela i tratti inquietanti dell’Italia berlusconiana. Prodotto dal Centro Warburg Italia, lo spettacolo porta un Socrate in dolcevita nero e i suoi giovani interlocutori incravattati a discutere, in un elegante salotto borghese, tra bottiglie, sigarette e stacchi jazz, del marciume statale e dei rimedi possibili. Per risanare la città serve qualcuno che abbia autorità, ed ecco allora apparire l’uomo del destino a ripristinare la scala sociale, “e lasciatelo governare a colpi di decreti legge, lasciatelo modificare la costituzione”.
Omettendo forse i passaggi più famosi e più scolastici, e invece includendo alcuni altri brani socratici particolarmente scabrosi, la drammaturgia firmata da Luca Malavasi, Patrizia Pinotti, Andrea Rodighiero, Massimo Stella e Martina Treu mette così a fuoco il concitato prevalere di una nuova classe dirigente nella polis del V secolo a.C. e la sua rapida degenerazione. Il miraggio della città giusta è coltivato mentre infuria la guerra civile conseguente al governo dei Trenta Tiranni e nel lungo dialogo centrale sono anzitutto le diverse concezioni della giustizia a scontrarsi. Per Glaucone (Francesco Pennacchia) “la giustizia è il porco comodo di chi comanda”. “Forse – risponde Socrate (Paolo Graziosi) – in una città di porci”. E al vecchio fabbricante d’armi, il meteco Cefalo (Elia Mario Schilton), che sostiene una giustizia legata all’indipendenza di chi è ricco, il filosofo contrappone una giustizia collaborativa per raggiungere il bene di tutti. Ma a quale prezzo? Sempre più istrionico e ispirato, Socrate conduce ormai senza quasi resistenze il dialogo con gli ex discepoli sbracati sui divani bianchi e si lascia prendere la mano: espone piani di rieducazione, progetti eugenetici, i metodi di costruzione del consenso, “perché se non li convinci a obbedirti spontaneamente poi ti tocca fare il macellaio”.
Il mito della caverna, che è il cuore della Repubblica platonica, è solo evocato nello spettacolo quando le geometrie del salotto si proiettano su uno schermo roteando in un teatro d’ombre. E tuttavia il mito rimane, in molti sensi, al centro anche della messa in scena. Da una parte il presente rappresentato – che è il nostro – vive più che mai in una dimensione di irrealtà, di imbonimento, di dominio dell’immaginario. Nell’imminente città perfetta non vi sarà più distanza tra pubblico e spettacolo, tra finzione e realtà, e non perché il popolo potrà finalmente vivere anziché guardare e consumare “finché infarto non lo colga”, ma al contrario perché la realtà stessa diventerà definitivamente una nobile finzione. Dall’altra, la stessa Atene della Tirannide viene evocata come luogo notturno, equivoco, torbido, rispetto alla quale l’oleografica polis consacrata nella propaganda periclea sembra un doppio fallace che si proietterà a lungo anche sulla storiografia posteriore. E soprattutto è il movimento finale del mito, il ‘ritorno del filosofo’ alla caverna dopo la liberazione dalle catene dell’apparenza e la visione della verità a porsi come il vero motore dello spettacolo. Socrate potrebbe fare a meno di tornare e di mettersi in discussione, e per tutto il tempo il personaggio di Graziosi è infatti scocciato, sbrigativo, evasivo. Beve whisky, fuma, accarezza Polemarco (Andrea Carnevale), lancia battute velenose contro la politica culturale e volta le spalle alle provocazioni di Crizia, il reazionazio pragmatico, il politico di professione.» come trascinato controvoglia a prender parte alla disputa. «Ma tu questo programma l’hai scritto?» gli chiede l’avvocato Lisia (Giorgio Crisafi). «Uffa, questa mania di scrivere!» Ma il suo tornare nella caverna assume qui anche i toni di una mozione degli affetti: prima di morire bacerà Alcibiade, la sua testa mozzata ancora calda. A noi che quasi abbiamo finito per credere che le ombre virtuali al fondo della caverna mediatica siano l’unica vera realtà, a noi pacificati prigionieri di elettronici ceppi torna dunque un Socrate ben poco filologico ma rigenerato dall’attualizzazione. Certo ci è lontana la concezione della politica come arte che “cura l’anima” e dello stato come gigantografia della psiche. Vale tuttavia ancora – e ci sembra questo il messaggio aldilà della cinica condanna del potere come inevitabile ingiustizia – la conclusione implicita nella Repubblica platonica: ognuno ha lo stato che si merita.

Fernando_Marchiori

2004-03-08T00:00:00




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