Le avanguardie teatrali e le tecnologie del loro tempo

Testo inedito dell'intervento per il convegno "Il teatro nell'era del digitale", Parigi, 24 ottobrre 2004

Pubblicato il 17/02/2004 / di and / ateatro n. 064

In arte non esistono tecniche proibite; esistono solo tecniche male utilizzate.
Vsevolod Mejerchol’d

Una parte della storia del teatro del Novecento è costituita dal contrapporsi di due diversi atteggiamenti rispetto alla tecnologia: da un lato si trovano gli avanzamenti tecnici sulle scene di un certo numero creatori d’avanguardia interessati a elevare la loro arte al livello della realtà senza cadere nell’imitazione; dall’altro l’atteggiamento negativo e conservatore di quelli che al contrario considerano tale tecnica nemica della tradizione, devastatrice del teatro considerato come luogo di memoria in particolare e in generale delle “arti viventi” (1) – segno della “disperazione storica” di cui parla Bernard Stiegler (2), sintomo di un tragico rifiuto del proprio tempo.
D’altra parte, a proposito dell’espressione “arti viventi”, che mi pare inadeguata e che è finalizzata a proteggersi da tutto ciò che può sembrare troppo tecnico o troppo “macchinoso”, vorrei aprire una breve parentesi e citare un’osservazione molto recente di Robert Lepage emersa in occasione del Festival New Cinema and New Media di Montréal. Intervistato dopo la proiezione del suo film La face cachée de la lune, in cui sono state utilizzate innovazioni tecnologiche d’avanguardia, Lepage ha affermato: “il film diventa in questo modo un’arte vivente che si può scolpire e riscolpire fino all’ultimo minuto.”

Anni Venti, anni Sessanta, anni Ottanta: le immagini – proiettate, diffuse su grande poi/e su piccolo schermo, fisse o animate, in bianco e nero o a colori, documentarie o di finzione, “sporche” o ad alta definizione, analogiche, poi digitali – si sono insinuate e poi installate sulla scena. In parallelo, il materiale sonoro ha acquisito una sempre crescente complessità. Il processo diventa più veloce e più intenso in relazione al perfezionamento e alla miniaturizzazione degli apparecchi di presa delle immagini e del suono, di diffusione e di proiezione, integrati dalle trovate specifiche messe a punto da artisti ingegneri o fai-da-te.
In questo intervento si tratterà quindi di ricordare per rapidi flash alcuni momenti chiave della storia del teatro, arte alla quale oggi i discorsi sull’immagine fanno spesso riferimento, sia come insieme di pratiche arcaiche e obsolete, sia dal solo punto di vista del testo, con cui di fatto il teatro intrattiene delle relazioni estremamente complesse, sia infine nella prospettiva della bibbia aristotelica (vedi ad esempio Brenda Laurel), come se nulla fosse accaduto dai tempi della Grecia Antica e come se le grandi rivoluzioni sceniche non avessero mai avuto luogo… Ebbene, il teatro oggi mi sembra che possa sempre essere considerato, come affermavano Mejerchol’d, Vitez o Kantor, un laboratorio dei comportamenti umani.
I tre periodi precedentemente menzionati corrispondono a momenti di profonde crisi, politiche, sociali, ideologiche, economiche, tecnologiche, in cui le frontiere fra le arti dello spettacolo da un lato e fra la scena e le altre arti dall’altro, tendono a diventare sempre più porose. Ci concentreremo sui primi due periodi. Ma bisognerebbe andare ancora più indietro, a Adolphe Appia, al ruolo “realmente attivo” che a partire dal 1898 egli attribuisce alla proiezione, che successivamente, come egli scrive, sarà considerata “potente”, a Edward Gordon Craig e alla sua “arte del movimento”, alle sue “mille scene in una”, e soprattutto bisognerebbe non dimenticare Antonin Artaud, che preconizza gli ambienti immersivi, quando, nel Secondo manifesto del teatro della crudeltà, parla di un teatro che “grazie alla soppressione della scena, si estenderà alla sala intera e, partito dal suolo si arrampicherà sui muri […], avvolgerà fisicamente lo spettatore, lo terrà in un’atmosfera ininterrotta di luce, di immagini, di movimenti e di rumori”. Quindi, questo “teatro totale”, che sembra essere scoperto oggi come se si trattasse di un fenomeno recente – cosa che rientra perfettamente nell’amnesia generale che caratterizza un mondo in corso di “globalizzazione” – in realtà ha delle radici, delle fonti e delle modalità di realizzazione sorprendenti, che ogni artista dovrebbe conoscere per essere veramente contemporaneo al suo tempo.
Parleremo quindi degli anni Venti in Unione Sovietica ed in Germania, degli anni Sessanta in Cecoslovacchia, in Francia e negli Stati Uniti.

Unione Sovietica, 1923: il cinema viene introdotto sulla scena per Il saggio, rimontaggio integrale del testo dell’autore “classico” Alexander Ostrovskij realizzato da Sergej Eisenstein. Non è la prima volta che un film viene utilizzato su una scena teatrale, ma in questo caso, il film è girato appositamente per lo spettacolo: uno dei personaggi “esce” dallo schermo per fare irruzione nella sala, brandendo la bobina del film. Si tratta della pellicola che è stata appena proiettata e che, mostrata sullo schermo, riferisce in maniera originale il diario privato sottratto a uno dei personaggi della vicenda di Ostrovskij. Il diario si è trasformato in bobina di film. Confusione ludica degli spazi, “attrazioni”, sparizioni, apparizioni, trasformazioni, metamorfosi: questo film, il primo di Eisenstein, perturba il tempo e lo spazio del teatro.

Terra capovolta (1923).

1923, ancora in Unione Sovietica, Terra capovolta, dramma in otto episodi di Tret’jakov: sulla scena del teatro di Mejerchol’d (di cui Eisenstein è allora “assistente di laboratorio”(3)), su tre schermi viene proiettato tutto un materiale documentario di testi e di immagini; in realtà Varvara Stepanova la “costruttrice” – è il nuovo appellativo del responsabile della scenografia, dal momento che non vi è più la scenografia nel senso di sfondo (décor), ma un dispositivo, una costruzione – è inizialmente intenzionata a proiettare dei film, ma cosa non può essere realizzata per motivi di ordine finanziario. Un grande schermo viene utilizzato come supporto per 33 cartelli da cinema muto nel 1924 per La foresta; nel 1927 per Una finestra sulla campagna Tsetnerovic, l’assistente di Mejerchol’d, autore del “dispositivo cinematografico” (è il termine russo utilizzato), sceglie per ognuna delle parti di questo spettacolo di agitazione delle sequenze tratte da film documentari, poste durante, all’inizio o alla fine delle scene teatrali, e accompagnate da intertitoli e da disegni. Per La lotta finale (1931) sono dei cineasti a essere incaricati di comporre l’accompagnamento visivo dello spettacolo. Il primo, Ledachev, è un assistente di Pudovkin, il secondo, Nemoliaev lo è di Barnet. Lo spettacolo risulta così essere composto da testi, da una banda suono estremamente complessa, che comprende fucilate, grida, comunicati radio, una sinfonia di Scrjabin, una canzone di Maurice Chevalier, e da frammenti di cinema, estratti sia da documentari, sia da film (Arsenal di Dovzenko, Chaplin).
Ne La rivoluzione teatrake (1929-1930) il Mejerchol’d afferma: “Noi che costruiamo il teatro che deve concorrere con il cinema, diciamo: Lasciateci realizzare fino in fondo il nostro obiettivo di “cineficazione” del teatro, lasciateci realizzare sulla scena le tecniche dello schermo (non solo nel senso di appendere uno schermo sopra la scena), dateci la possibilità di occupare una scena attrezzata con tecnologie nuove, secondo le esigenze che imponiamo allo spettacolo di teatro oggi, e noi creeremo degli spettacoli che attireranno tanti spettatori quanti il cinema”.

L’uso delle proiezioni sulla scena da parte di Erwin Piscator.

In Germania, Erwin Piscator conduce questa impresa ancora molto più lontano… In Bandiere di Alfred Paquest (1924) il quadro dell’azione è dato da un film proiettato sul fondo del teatro. In Oplà, noi viviamo! di Toller (1927) alla proiezione di un piano lungo degli edifici di una prigione segue uno “zoom scenico” sulla cella dove si svolge l’azione teatrale. Piscator in un altro momento di questo spettacolo accosta in sincrono l’immagine radiografica di un cuore che batte, un annuncio fatto per altoparlante ed un testo pronunciato da un attore. In Rasputin, nel 1928, moltiplica le superfici di proiezione – semisfera, tulle, schermi – e le loro funzioni, servendosi di esse per proiettare il dramma nel futuro. Bisogna rileggere Il teatro politico di Piscator, ma anche capire che egli non è il solo a muoversi in questo campo e che altre personalità (Wilhem Reinking, Nina Tokumbet, etc.) dovrebbero essere ricordate e studiate.
Piscator afferma verso la fine degli anni Cinquanta: “La tecnica a teatro ha la reputazione di essere un male necessario che ostacola l’esercizio di un’arte piuttosto che favorirla”, ma subito aggiunge: “La tecnica è una necessità artistica del teatro moderno”. Essa fa esplodere l’antica forma della scatola ottica per “elevare la scena al piano della storia”. Permette inoltre al teatro di sviluppare dei nuovi contenuti, di far entrare sul palcoscenico i conflitti contemporanei, e di rispondere ai mutamenti dei ritmi percettivi del pubblico, delle sue abitudini temporali e spaziali. Una nuova drammaturgia deve scaturire da questi possibili dispositivi tecnologici.
Tuttavia, nel 1928, Mejerchol’d aveva avanzato una notazione critica di capitale importanza: “Piscator non ha compreso il problema che gli si poneva. In sei mesi ha creduto di poter creare a Berlino un teatro rivoluzionario, ha costruito una scena moderna e ha concentrato tutta la sua attenzione sul perfezionamento materiale della tecnica teatrale. Questo significa essere unilaterali. Il problema che si pone al regista è che bisogna proporzionare a tale nuovo contesto i gesti e la voce dell’attore. È quello che Piscator non ha cercato. Ha costruito una sala nuova, ma ha fatto recitare degli attori vecchi.” È per questo nuovo attore, che cerca di formare, che Meyerhold concepirà fin dagli anni Venti, il progetto di un nuovo teatro, che non sarà mai terminato per delle ragioni politiche. Prevedeva delle aree di azione trasformabili e delle superfici multiple di proiezione, sui muri e sul soffitto, evocando allo stesso tempo l’impianto del “Teatro totale” di Gropius e Piscator, anch’esso mai realizzato, e alcuni dispositivi posteriori di Jacques Poliéri.

Negli anni Sessanta, l’avanguardia americana propone delle installazioni, delle performance intermediali, in cui l’attore e il danzatore si misurano con l’immagine. Le forme che esse assumono sono molto diversificate: proiezioni su un grande pallone sonda, sulla schiena degli artisti, esperienze di “cinema allargato”, poi di “teatro allargato”, happening filmici. Nel 1967 il cineasta Jonas Mekas scrive su una rivista di danza: “La danza la musica, la poesia, il teatro, l’architettura, il canto, il cinema, si trovano in un periodo di transizione, interferiscono in maniera tale che riscoprono nuovamente la loro vera e propria identità; tutte le arti sono divenute multimediali. Parliamo di cinema allargato (expanded cinema), di scultura cinetica, di pittura tridimensionale. Il cinema ha del tutto a che fare con la danza. La danza ha del tutto a che fare con il cinema.”
È a Praga, nel 1958, che Josef Svoboda inventa le tecniche della Lanterna Magika, presentata all’esposizione di Bruxelles, e in seguito quelle del Polyécran. Egli le applicherà al teatro. La Lanterna Magika combina in una composizione sincronica, plastica e sonora, l’azione dell’attore o del danzatore, la scena cinetica (tapis roulant, girelle..), il suono stereofonico, gli schermi mobili e il cinema, con le sue possibilità di montaggio e di effetti speciali. Il circo incantatore (1977) sarà rappresentato più di 2500 volte alla Lanterna Magika, scena multimediale dapprima inserita nella struttura Teatro Nazionale di Praga poi divenuta autonoma.


Napoléon di Abel Gance (1925).

Per quanto riguarda il Polyécran, si tratta di “un audace prosecutore” del Napoléon, trittico realizzato nel 1925 da Abel Gance, per citare le parole stesse del cineasta, che confessò di non avere neanche mai sognato una tale discendenza. Nel Polyécran, le immagini sono più numerose che nel progetto di Gance e le superfici di proiezione sono separate, in maniera tale da creare delle architetture modificabili. Lanterna Magika e Polyécran miravano entrambi ad un largo pubblico, ma possedevano anche una valenza politica. Nel 1965 per Intolleranza (opera atonale di Luigi Nono, presentata al Group Opera a Boston), quando Svoboda decide di utilizzare dei muri di luci, delle proiezioni multiple ed una proiezione televisiva a circuito chiuso – sorta di contrappunto ottico – compie anche un gesto politico. Ricordiamo infatti che questa scelta gli creò dei problemi al ritorno nel suo paese…
È preoccupante osservare che in Francia si ha tendenza a riferirsi poco sia all’opera di Svoboda sia a quella del francese Jacques Poliéri, entrambi grandi precursori-visionari. Dal suo universo chiuso appartenente al blocco sovietico, Svoboda, finirà per essere riconosciuto a livello internazionale, ma la Francia, nonostante gli studi di Denis Bablet, l’accoglierà assai raramente. Poliéri d’altra parte riceverà più richieste dall’estero che dal suo paese.
Se l’uno, autore di quasi 700 scenografie e inventore dei dispositivi tecnici appena citati, resta essenzialmente un artigiano del teatro, che ha lavorato con i più grandi registi del suo tempo, l’altro, da subito scenografo e regista lui stesso, diventa rapidamente un architetto di sale e un creatore di eventi interattivi. Rivolge la sua attenzione alla concezione dei luoghi, aspirando a quello che dal 1957 chiama “Teatro del movimento totale”, e che in seguito chiamerà cyberteatro o cybercinema, proiettando la sua creatività verso una scena planetaria.
Entrambi si nutrono delle avanguardie che li hanno preceduti: hanno della memoria. Ad esempio Poliéri, nel 1958, pubblica un numero speciale della rivista d’arte “Aujourd’hui”, in cui divulga delle informazioni importanti sulle avanguardie russe e tedesche, allora dimenticate o assai poco conosciute. Si interessa a Velemir Chlebnikov, il principe dei poeti futuristi che allora è uno dei pochi a citare. Lavora inoltre con il pittore russo Iuri Annenkov, emigrato a Parigi, uno di coloro che hanno teorizzato e praticato agli inizi degli anni Venti, della “circhizzazione” del teatro in Unione Sovietica. Per quanto concerne Svoboda, trova le sue fonti nel suo passato ceco, nell’avanguardia fra le due guerre, e poi amplia questi riferimenti volgendosi al costruttivismo russo, e a Mejerchol’d, Tairov, Vachtangov, Okhlopov: i suoi legami con i grandi nomi delle rivoluzioni sceniche dell’inizio del Novecento sono radicati nell’eredità del “teatro della luce” ceco, quello di Honzl, Burian e Frejka, conosciuti attraverso il suo maestro, lo scenografo Frantisek Tröster, che utilizzò in maniera molto innovativa le proiezioni sulla scena negli anni Trenta. Proprio perché il terreno era stato ben preparato dal passato brillante e inventivo della scenografia dei paesi dell’Est degli anni Venti e Trenta, Svoboda nel 1957 può trovare un orecchio propizio al suo desiderio di intraprendere delle ricerche sulle tecnologie al Teatro Nazionale di Praga. “Otterremo i più grandi successi non appena avremo realizzato il mio progetto: ingaggiare degli specialisti altamente qualificati per tutti i campi del teatro: tecnica tradizionale, superfici riflettenti e assorbenti, chimici, ingegneri ottici, proiezionisti, tecnici del suono elettronico.” Entrato nel 1946 al Teatro Nazionale di Praga, Svoboda, allora direttore tecnico, dieci anni più tardi si vede offrire la possibilità di trasformare l’atelier di scenografia in un vero e proprio laboratorio di ricerca. Non smetterà mai di considerare il teatro come un laboratorio, allo stesso modo di Mejerchol’d che, rispondendo agli aguzzini di Stalin che gli ordinarono di fare autocritica, non poté evitare di definirsi “inventore”…
Interessati alle tecnologie, Svoboda e Poliéri intuiscono ed interpretano ciascuno a suo modo le vie del teatro del XXI secolo, ma prendono due direzioni opposte, determinate dalla diversità delle loro personalità e dei contesti socio-politici e culturali in cui operano – direzione centripeta dell’uno, che rimane rivolto verso i segreti dello spazio teatrale, vuole risvegliare la tradizione e mostrare in maniera differente i suoi enigmi; direzione centrifuga dell’altro, che da subito è più attirato dall’astrazione, dal non-figurativo, e che vuole far uscire il teatro dal teatro.
Esploratore delle potenzialità della luce, adepto di una scena cinetica in cui l’attore polivalente conserva integralmente il suo ruolo all’interno di una scenografia complessa, Svoboda crea un teatro totale e multimediale in cui permane la magia del vuoto misterioso, che per lui si sprigiona dalla scena all’italiana, alla quale continua ad essere legato. Utilizza la fotografia proiettata e il video (Intolleranza di L. Nono, Venezia 1961; Boston 1965), il film (I soldati di B.A. Zimmerman, Monaco, 1969), si appropria del laser (Il flauto magico di W.A. Mozart, Monaco, 1970) e delle tecnologie digitali (La trappola, Lanterna Magika, 1999). Svoboda fa variare all’infinito gli schermi utilizzati (piatti, sferici, inclinati, opachi, trasparenti, mobili) e i tipi di supporti: proietta le immagini su oggetti, tessuti, tende di corda o di tulle metallico, fabbricando lui stesso le sue diapositive colorate e sovrapponendole nella proiezione.

Esploratore di nuove dimensioni spazio-temporali ibride, Poliéri utilizza il digitale dall’inizio degli anni Ottanta, e immaginerà per l’arte dello spettacolo delle nuove e grandiose modalità di realizzazione, come il via satellite, la messa in rete, Internet. Egli mette in movimento lo spazio dello spettacolo e l’area d’azione attraverso proiezioni fisse o mobili. Le proiezioni, il cinema, l’immagine a 360° aprono la strada ad una nuova estetica della mutevolezza e della complessità, che distrugge la frontalità della scena, ne fa esplodere la compattezza, la fa uscire dal suo contenitore e la moltiplica nella sala. Spingendosi ancora più in là, Poliéri dà un impulso di movimento all’intero spazio teatrale, non in senso metaforico, ma in senso concreto. La scena (1968, Grenoble), come la sala (1970, Esposizione Universale di Osaka) diventeranno mobili. Declina diverse modalità di messa in movimento dell’edificio stesso in numerose affermazioni e in alcune realizzazioni: “scena anulare” che circonda gli spettatori a 360°, “sala giroscopica”, “scena tripla”, “sala automatica mobile”, “scena e sala telecomandate, ruotanti e modificabili”, scena elettronica (destinata alla “città nuova” de Les Ulis nella cintura parigina) le cui superfici nella loro totalità sono alla stesso tempo degli schermi e delle superfici neutre, e permettono sia la proiezione di immagini che la realizzazione di riprese in studio.
In un manifesto del 1955, Poliéri “prediceva” ciò che si verifica oggi quando gli attori, attrezzati di appositi sensori, iniziano ad essere capaci di generare da soli la propria regia luminosa o musicale. Egli proclamava già allora ciò che continua a dire oggi a proposito del teatro elaborato nel web: “Le stesse forme solide, sotto l’occhio dell’attore, un vero e proprio mago, potranno muoversi, cambiare, animarsi, vivere insomma su tutti i piani del teatro ed in tutti i sensi. Ma che mi sia ancora permesso di immaginare adesso lo spettatore futuro in una gabbia di plexiglass con due busti e due volti come i personaggi delle tele cubiste di Picasso. Circondato da suoni, da luci, da colori, da forme, da ombre, sarà sensibile, e con tutti i suoi sensi, a tutte le moltitudini di combinazioni, di armonie, di ritmi, di motivi melodici, sensibile a tutti i punti, rette, curve, angoli conici, linee visive, uditive, statiche, che si svolgono nel magnifico e straordinario caleidoscopio teatrale. I binari della ferrovia dello spettacolo si avvicineranno, si incroceranno e poi, dopo essere stati per un po’ paralleli, si allontaneranno l’uno dall’altro in un fuoco d’artificio eternamente rinnovato e in una festa perpetua. Per il momento, tranquillizziamoci, non abbiamo che uno stomaco ed un cervello. Ma tutto è possibile.”

Bisogna interrogare ancora altre opere, dimenticate troppo in fretta, ad esempio anche quelle del regista Virgilio Puecher, che ha lavorato con Svoboda e montato un notevole spettacolo nel 1969 alla Piccola Scala di Milano: L’istruttoria di Peter Weiss – che tratta del processo di Norimberga – con un complesso sistema integrato a una struttura metallica e composto da un eidoforo, da proiettori di diapositive e di film, da macchine da presa su carrelli. Questa messa in scena molto tecnologica realizza pienamente il teatro documentario di Peter Weiss, con un impegno politico senza compromessi.
Un ultimo punto: si ha la tendenza a dimenticare il lavoro svolto in questo campo in Francia da Jean-Marie Serreau, con il suo direttore tecnico P. Pavillard (costruzione di un canovaccio in cui si succedono gli attori, le loro fotografie ingrandite, dei disegni di Siné proiettati e delle ombre per Biedermann e gli incendiari di Max Frisch, Théâtre Lutèce, 1960) e proseguito da André-Louis Périnetti (proiezioni di foto di fatti violenti di attualità, di disegni di Folon e di video in circuito chiuso per Api 2067 di R. Gurik, Théâtre de la Cité Universitaire, Paris, 1969).

Alla rivoluzione dello sguardo dello spettatore determinata a partire dagli anni Venti dal cinema, e dalle immagini analogiche di ogni tipo di formato, e che conduce la scena a trasformarsi in profondità, segue la rivoluzione della presenza e della virtualità, indotta dal digitale, e la trasformazione dell’antica ed ancor valida interazione fra sala e scena in possibile interattività. Ma già Jean-Marie Serreau considerava che con le proiezione, l’azione scenica si fa più distanziata che nelle teoria brechtiana,e che soprattutto non si ha più bisogno dello sfondo scenografico. Egli diceva che il luogo scenico diviene “l’intelligenza e i sensi dello spettatore, il suo campo mentale”. È ciò che Mejerchol’d affermava prima ancora, ne La rivoluzione teatrale a proposito degli scopi della cineficazione del teatro, che evidenziano l’intenzione di “chiamare il pubblico a partecipare alla messa a punto dello spettacolo” e che mettono in valore, accanto a quello dell’attore, di cui, come abbiamo visto, un teatro che utilizza le tecnologie deve occuparsi in primo battuta, il ruolo dello spettatore la cui attività di “quarto creatore”, di “correttore” (“il compimento definitivo dello spettacolo e la sua fissazione in tutti i dettagli, è il pubblico a realizzarla insieme all’attore”) sarà tanto più sollecitata quanto si reclamerà un teatro meglio attrezzato a livello tecnico.
Abel Gance nel 1962 scriveva: “L’unione dell’immagine e della realtà conferisce all’immagine e alla realtà una dimensione nuova, una sorta di quarta dimensione che arricchisce incontestabilmente uno spettacolo. A mio avviso le arti non mirano che a questo. Si tratta di creare una dimensione nuova nello spirito degli spettatori.” Ciò che John Mekas diceva a suo modo, nella stessa epoca, quando insisteva sulla maniera in cui le tecnologie applicate alla scena ci “aprono”.
Questo ritorno al passato non è nostalgia, vuole semplicemente porre le ricerche teatrali che si fanno oggi con le NTI, con l’intelligenza artificiale (ad esempio il progetto di “scena vivente” di Jean-Marc Musial) nel grande e magnifico slancio della ricerca artistica del Ventesimo secolo, con il quale quella del Ventunesimo deve essere nello stesso tempo in continuità e in rottura.

NOTE SULL’AUTORE

Béatrice Picon-Vallin è direttore del Laboratorio di Arti dello Spettacolo del CNRS francese, che si è da sempre caratterizzato per un’attenzione particolare al teatro contemporaneo in quanto fatto spettacolare. Fulcri dell’attività del Laboratorio sono la regia e la nozione di opera d’arte totale. Fondamentali sono le ricerche di Picon-Vallin su Meyerchold, i cui frutti sono un ricchissimo volume della collezione “Les voies de la création théâtrale”, e la traduzione degli scritti editi e inediti del regista russo, pubblicati in diversi volumi. Da diversi anni dirige un gruppo di ricerca sulle implicazioni dell’utilizzazione nuove tecnologie sulla scena teatrale. Da questo lavoro sono nati i volumi da lei curati Les écrans sur la scène, Paris, L’Age d’Homme, 1998; La scène et les images, Paris, CNRS, 2002

NOTE

1“Arts vivants”: l’espressione è tipicamente francese, e viene utilizzata sia dalla critica per determinare un campo di studio o per definire un genere sia nel linguaggio istituzionale, per determinare una categoria a cui indirizzare determinate sovvenzioni. Con tale espressioni vengono indicate tutte le arti dello spettacolo fondate sulla “presenza dal vivo” di performer di vario tipo.
2 Direttore dell’IRCAM e vicedirettore dell’INA , filosofo e direttore di ricerca all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e al Collège International de Philosophie. Ha scritto due volumi intitolato La technique et le temps, del 1994 e del 1996; insieme a Jacques Derrida ha redatto il testo Ecografia della televisione, pubblicato anche in Italia nel 1997.
3 Il termine francese è “laborantin”: indica il carattere insieme artigianale e scientifico-sperimentale dell’attività teatrale di Mejerchol’d.

Béatrice_Picon-Vallin_(traduzione_dal_francese_di_Erica_Magris)

2004-02-17T00:00:00




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