Dall’archivio di “ateatro”: Il mercante di Venezia di William Shakespeare

regia di Stephan Braunschweig al Piccolo Teatro (1999)

Pubblicato il 26/10/2003 / di / ateatro n. 059

Da qualche tempo il Piccolo Teatro sta chiamando a collaborare giovani registi (quasi tutti stranieri, in verità), in una necessaria operazione di svecchiamento. Ecco dunque approdare sulla scena di via Rovello – ma riprendendo l’impianto dello spettacolo realizzato qualche mese fa alle Bouffes du Nord di Parigi – Stéphane Braunschweig, ex enfant prodige della scena francese ormai accompagnato da una solida fama internazionale.
Il suo Mercante di Venezia è di giansenistica semplicità. La scena è occupata solo da tre cubi d’acqua illuminati dall’altro, dove galleggiano altrettante barchette in miniatura; nel corso dello spettacolo, sullo sfondo, come attraccata a un molo, e poi sospesa a mezz’aria, come un’idea, s’intravederà la sagoma di una vera barca. Per il resto, nello spazio spoglio e foderato di nero, con l’unico accompagnamento delle severe melodie di un violoncello, c’è solo il gioco degli attori, anch’essi vestiti quasi tutti di nero: gli uomini in giacca e canotta Armani-style, le donne in abiti vagamente d’epoca. È un lavoro di raffinata semplificazione, che presuppone un’attenta lettura del testo per metterne a nudo i nodi strutturali e le simmetrie, ma soprattutto gli scontri tra diverse posizioni ideologiche. Quello che affascina il regista, con ogni evidenza, sono le idee espresse dai personaggi, in rapporto ai loro sentimenti e naturalmente agli altri personaggi. In questo caso, com’è ovvio, al centro della riflessione è il denaro –e la sua possibilità di valutare gli affetti, l’’amicizia e l’’amore ma anche l’’odio: il rapporto che lega il malinconico Antonio e il dissipato Bassanio, il patto matrimoniale di quest’ultimo con Porzia (con il quiz fiabesco dei tre scrigni d’oro, argento e piombo), la fuga d’’amore di Jessica e Lorenzo… Lo spettacolo assume così il tono vagamente brechtiano di un dramma didattico, una parabola dove si pesa l’ideologia. Esemplare nella sua semplicità e leggibilità il trattamento simmetrico nelle prime scene delle malinconie di Antonio e Porzia, che riprende nella postura la celebre incisione di Dürer.
Non sorprende dunque che nell’usare questo metodo con un testo problematico come Il mercante di Venezia, Braunschweig affronti di petto la questione più controversa: quella del dibattuto antisemitismo della pièce – e dunque in subordine l’eventuale antisemitismo di Shakespeare. La regia sposta l’accento su una sorta di principio di realtà: il razzismo antisemita viene dunque assunto come un dato di fatto, così come lo è anche il risentimento e la sete di vendetta della sua vittima, in questo caso Shylock. Rispetto all’intreccio amoroso, l’’enfasi si sposta sul verdetto finale, dove le ragioni e i sentimenti si misurano con la giustizia, le sue regole – e l’uso che se ne può oggettivamente fare. La conclusione non è un lieto fine, piuttosto l’inevitabile conclusione di un’equazione di cui sono state esaminate tutte le variabili: le posizioni dei singoli e la ragion di Stato, .
Nel testo è Shylock – l’uomo che vuol tagliare la celeberrima libbra di carne ad Antonio – a difendere il proprio diritto con una delle più accese (e convincenti) perorazioni umanistiche dell’’intero teatro di Shakespeare – cioè, più o meno l’’inventore dell’uomo moderno. Ma, sembra avvertire Brauschweig, la dignità e integrità dell’’essere umano è solo uno degli elementi, e neppure il più importante. Quello che conta, per noi gli spettatori, è piuttosto esaminare – attraverso lo specchio dei personaggi – le diverse alternative e possibilità, e le rispettive ragioni, per poi dare il nostro giudizio con una decisione libera e razionale.
Allievo di un grande maestro d’’attori come Antoine Vitez, Brauschweig si appoggia in notevole misura ai suoi interpreti: e i risultati del lavoro si vedono, in una compagnia equilibrata e attenta, dove spiccano il nevrotico Bassanio di Roberto Trifirò, la determinata Porzia di Laura Marinoni e il titubante Antonio di Paolo Calabresi. Oltre naturalmente al nevrotico e tormentato Shylock di Roberto Herltizka.

Originariamente pubblicato su “il manifesto”, marzo 1999.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2003-10-26T00:00:00




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