L’ipertesto mandalico
Una mail a Oliviero Ponte di Pino
Ciao Oliviero,
ho letto adesso le tue riflessioni su Storie mandaliche che mi ha inoltrato Anna, stavo per scriverti anch’io e di pochissimo mi hai preceduto.
Per quanto riguarda la struttura del nostro Mandala, abbiamo preso a modello il senso tradizionale del mandala buddhista (io ho studiato soprattutto quello tibetano, non solo sui libri ma con maestri tibetani) e l’interpretazione junghiana, dove il Mandala ha radici archetipiche universali (si manifesta spontaneamente nei sogni individuali e nelle rappresentazioni artistiche-rituali di molte civiltà) ed è veicolo simbolico e strumento della trasformazione (purificazione delle negatività e loro trasformazione, funzione simbolica che avevano anche i labirinti delle cattedrali gotiche cristiane), orienta la frammentazione della psiche e dell’identità verso un centro. Questo centro per Jung è il Sé, quindi la porta d’accesso del singolo alla dimensione universale e trascendente, per i Buddhisti è la consapevolezza realizzata e risvegliata, la consapevolezza del Vuoto (ovviamente da non confondere, come spesso si fa in occidente, con il Nulla nichilista): «Il vuoto è forma e la forma è vuoto».
Sulla base di questa struttura ho creato l’ipertesto narrativo, si entra nel Mandala da 6 punti cardinali o porte (est, nord, ovest, sud, nadir, zenith) e si giunge a un centro unico. I punti cardinali corrispondono anche agli elementi e ai quattro regni: minerale, vegetale, animale, umano maschile e femminile, il centro è il regno divino. In questo centro dove tutte le storie confluiscono, si sciolgono e si trasformano si apre la porta dell’irrapresentabile, ecco perché l’ermafrodito, sintesi dei contrari e di tutti i regni. Il linguaggio qui deve cambiare registro, non più narrativo ma poetico, non più descrittivo ma dichiaratamente simbolico ed ermetico.
Questa struttura, in cui tutti i percorsi si intrecciano in più punti (i link delle storie), presenta molte (non infinite) varianti che possono rendere la narrazione sempre diversa nella combinazione – decisa dal pubblico – dei sentieri da seguire e montare tra loro. Il finale non può essere circolare (sarebbe una soluzione simbolicamente altrettanto significativa e legittima, ma richiede un’altra struttura di partenza) e deve essere unico, cioè portare sempre al centro, come nel Mandala classico. Tutte le storie hanno diversi link durante il percorso, non appena compaiono nuovi personaggi protagonisti oppure in loro successive apparizioni. L’unica storia che ha link solo alla fine è la pietra perché è cronologicamente (e simbolicamente) antecedente alle altre, è sul piano simbolico la pietra angolare della narrazione così come nel racconto è la pietra angolare del tempio di Gerusalemme. I fatto che la pietra sia un passato che si può raccontare dopo il presente mi sembrava una distorsione temporale interessante, se risulta troppo lunga come porzione narrativa si può pensare di abbreviare la narrazione teatrale.
Il rapporto tra narrazione e icona che tu hai giustamente rilevato come centrale (ma aggiungerei anche il sofisticato lavoro sul sonoro di Lupone, che deve ancora essere valorizzato appieno) si snoda proprio attraverso lo schema dei link, che era già progettato e presente nella scrittura delle storie e che è stato perfezionato e arricchito nel lavoro di messa in «icono-scena». In effetti noi, per sincronizzare i linguaggi e mettere alla prova la loro forza singola abbiamo fatto durante il laboratorio quello che tu ora ci consigli, cioè provare separatamente la narrazione e la sequenza animata. Il risultato ci era parso soddisfacente, con aggiustamenti che faremo nel prossimo e ultimo laboratorio (probabilmente ancora a Castiglioncello) prima della Prima.
Quando tu dici che ti sono piaciuti gli errori che fanno vedere la «macchina» tecnoteatrale ti capisco bene e sono d’accordo, é nella strategia interattiva di Giacomo fingere almeno una volta di sbagliare per rilanciare attenzione e curiosità (vecchio trucco della commedia dell’arte), ma è anche interessante far vedere al pubblico e percorrere esplicitamente con il mouse le iconcine nascoste dei link, in questo modo si rivela, senza ostentarlo, la struttura ipertestuale delle sequenze animate.
Io credo, diversamente da te, che sia “la bellezza delle immagini” (forse alcune le avrei preferite più artistiche e meno videogame) sia la “tenuta del plot” siano necessarie per reggere e “slanciare” l’insieme. Per questo non sono d’accordo ( o per lo meno mi preoccupo) quando dici che le storie sarebbero deboli senza immagini, perché rischiano di “scivolare nel fiabesco oppure, nel finale, in astrazioni intellettualistiche”.
Per quanto riguarda l’intellettualismo dell’ermafrodito, io e Giacomo siamo convinti che sia una sensazione provocata dal fatto che quella parte (non essendo stata ancora studiata e interiorizzata da Giacomo) è stata letta, e quindi non modulata da un salto di registro che ci deve essere anche nella narrazione, inoltre c’erano dei problemi sul volume del sonoro e sulla sincronia stessa delle immagini che hanno fatto risultare troppo lunga e artificiale una parte che dev’essere soprattutto, aldilà del simbolismo, follemente poetica e sintetizzare l’esito dei vari personaggi.
Il rischio del fiabesco è invece un rischio calcolato, il racconto mitologico si rivolge tanto agli adulti quanto ai bambini, ovviamente con diversi livelli di lettura e di coinvolgimento. Il mio tentativo di scrittura è stato quello di sviluppare una narrazione apparentemente semplice, quasi elementare, come una specie di favola metropolitana (una favola con tematiche adulte e contemporanee), sostenuta però da una struttura simbolica profonda e da una sofisticata (generata non però a freddo, a tavolino, ma tramite un viaggio interiore) tessitura di associazioni e corrispondenze. Non è necessario che siano colte tutte e subito, ma comunque agiscono, come una sorta di mappa segreta della narrazione, nella quale ognuno (sia chi la fa che chi la sente) potrà perdersi e ritrovarsi a modo suo. E in effetti è quello che, da molte reazioni che abbiamo avuto alle prove di Castiglioncello (e alle precedenti versioni), sembra accadere, chi è disposto a entrare nel Mandala (come ci ha detto un attore spettatore, chiediamo allo spettatore una partecipazione non distratta) si perde nei rivoli o nel fiume della storia, a proprio modo, ciascuno sognando uno spettacolo diverso. Con la sapiente orchestrazione narrativa da cybercantastorie di Giacomo, che secondo me sta trovando il registro sempre più giusto per raccontare, tra l’antico cantastorie, l’illusionista digitale e lo sciamano (alla fine, la guida che amichevolmente ed anche misteriosamente conduce nel teatro di un ipersogno. Non appena sarà rodata l’intera macchina e interiorizzate le storie, Giacomo potrà gestire gesti, suoni, pause, parole e animazioni come un direttore d’orchestra.
Ti ringrazio ancora moltissimo per il tuo contributo, così articolato e generoso, un’altra caratteristica di questo nostro progetto è che non ci interessa tanto avere dei critici che ci concedono un’ora del loro prezioso tempo per vedere la Prima, ma trovare dei compagni di strada come te che interagiscano creativamente e intellettualmente con il lavoro di costruzione dello spettacolo, con stimoli, suggerimenti, letture personali, critiche sincere e costruttive, perché non crediamo più nel teatro catena di montaggio dello spettacolo che domina le nostre scene, ma nel laboratorio antropologico del teatro (non a caso lavoriamo a questo progetto da tanti anni).
Un caro saluto
Andrea Balzola
Andrea_Balzola
2003-09-14T00:00:00
Tag: Giacomo Verde (19)
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