Manifestival: la polemica su Santarcangelo 2003
Gli interventi di Gianfranco Capitta e Gianni Manzella sul "manifesto"
Si riaccende la polemica sul Festival di Santarcangelo, o meglio sull’articolo che Gianni Manzella sul “manifesto” ha dedicato alla rassegna. Un estratto del pezzo di Manzella lo trovate nel forum “Nuovo teatro vecchie istituzioni”.
Nel sito, in “ateato 56”, trovate anche la lettera che Claudio Meldolesi e Oliviero Ponte di Pino hanno scritto al giornale, in dissenso con quell’articolo.
Il manifesto di oggi, 27 agosto 2003, dedica una pagina alla “questione festival”: un pezzo di Gianfranco Capitta, la lettera di Mledolesi e Ponte di Pino, la replica di Gianni Manzella.
Qui di seguito i due articoli, con l’invito ad aprire il dibattito. Inutile aggiungere che “ateatro” seguirà gli sviluppi della discussione.
Si avvia ormai a conclusione l’estate dei festival, ma rimangono vive le discussioni sulla loro funzione e su quello che rappresentano, o su quella che secondo alcuni è la loro minore incisività. Dopo un articolo di Gianni Manzella che dava una valutazione conclusiva del Festival di Santarcangelo 2003 chiusosi a metà luglio, era arrivata in redazione l’adesione di un lettore emiliano che sollecitava a rivedere l’intero impianto e le modalità di quel glorioso festival (pubblicata nella rubrica delle lettere) e pochi giorni dopo un’altra di segno diverso da parte di Oliviero Ponte di Pino e di Claudio Meldolesi (che pubblichiamo oggi qui, assieme alla risposta di Manzella). Può sembrare curioso o tardivo discutere di un festival che si allontana già nella memoria, anzi viene «sepolto» dal fatto che probabilmente si è già iniziato a pensare al prossimo. È che quello della «forma festival» diviene un problema di primo piano nella organizzazione e nell’economia generale dello spettacolo italiano. Lo dimostrano l’eco e le turbolenze che già giungono dalla Mostra del cinema veneziana, e perfino il tormentone di Sanremo oggetto di scambio con la direzione dell’Istituto italiano di cultura di Los Angeles, fino a quando quando quando Tony Renis sarà amico e intrattenitore privilegiato del capo di governo… Se ci teniamo al teatro, la chiusura del Festival d’Avignone è già stato un botto impressionante, l’esplosione più forte di quest’anno nella cultura non solo transalpina ma europea. Anche perché la Francia ha un sistema teatrale (e culturale) forte, dove la politica non è mai entrata così sfacciatamente come da noi, e dove l’abitudine e la familiarità del pubblico con le proprie rappresentazioni è per noi semplicemente inimmaginabile: ad Avignone vanno in massa, durante il mese del festival, non solo gli operatori e gli addetti del settore, ma moltissimi spettatori in ordine sparso (nella bellissima campagna provenzale) e a proprie spese, arrivando a contendersi i biglietti fino all’ultimo sforzo possibile.
Da noi tutto questo non c’è, ma pure negli ultimi venti o trent’anni, i festival estivi sono stati la frontiera della creatività e della libertà artistica, i luoghi dove di fatto si sono potute sperimentare nuove formule produttive ed espressive, che hanno costituito poi la linfa minima indispensabile alla sopravvivenza dei carrozzoni invernali, privati e pubblici. Il luogo dove nuove generazioni di artisti hanno potuto emergere e farsi apprezzare, senza pagare lo scotto e lo sbarramento dei teatri che pigramente si lasciano oberare fino al totale immobilismo dal ricatto di abbonati ancor più pigri, o dalla scarsa fantasia del burocrate o del politicante che quel teatro, per i motivi più disparati, si trova a curare. Qualcosa evidentemente si è inceppato in questo meccanismo a circuiti paralleli. Non gli ha giovato certo l’arrembaggio alle sedi del potere da parte della Casa della libertà, fatta per altro di desideri ingordi e improvvide sgrammaticature, soprattutto per lo scarso materiale umano a disposizione della destra (e sanzionato comunque dalla drastica riduzione dei contributi ministeriali). Ma non si può dire che molto di più abbia fatto nel settore il passato governo di centrosinistra. Le manifestazioni si sono sempre più localizzate, ovvero finite in balìa di amministratori e autorità turistiche, hanno spesso abbassato il tiro quanto a fantasia e coraggio, e anche a quella che qualche anno fa si definiva «professionalità». Molti calendari sembrano promozioni amatoriali, o suddite del gusto televisivo che è ovviamente un’altra cosa (l’eterno dilemma su quanto possono far ridere i comici…). Perfino Mittelfest quest’anno ha voluto privilegiare la comicità, per altro mandando in scena poi coreografie sui Trionfi del Petrarca: sarà comico o mitteleuropeo? L’aspetto quantitativo finisce col rendere molti festival del tutto simili a un supermercato dove ci sia tutto e il suo contrario, rischiando talora di finire nel discount dell’usato. Parlare di un progetto sarebbe forse chiedere troppo per una programmazione che, chissà perché, spesso si intestardisce a richiamare pubblici davvero eterogenei, infilando l’intrattenimento nell’interlinea dei calendari. Poi certo ci sono i festival ricchi (a parte le spoglie famigliari di Spoleto), ma quelli sembrano concessionari patinati dove gli agenti forniscono tutto «chiavi in mano».
Insomma il problema non è solo di Santarcangelo. Semmai è quello di una qualità non troppo esuberante (o di novità, se si preferisce), e delle difficoltà sempre maggiori a dare a quelli che lo meritano una maggiore visibilità. Senza limitarsi a volerci mettere «il cappello» sopra. Partitico e campanilistico che sia. Per questo varrebbe la pena ricominciare a discuterne.
Gianfranco Capitta
Cari amici, solo una lettura molto superficiale della mia cronaca da Santarcangelo (l’articolo dal titolo «Santarcargelo, un festival a rischio di `siccità’. Creativa» pubblicato sul manifesto del 20 luglio) può spingere a credere che io abbia voluto lanciare un sasso contro il festival. E perché mai? Mi lega a questo luogo una frequentazione più che ventennale e un tenace affetto. A meno che anche il semplice manifestare un senso di dubbioso scontento per questa estate festivaliera non sia considerato un gesto offensivo, ma sarebbe un gran brutto segnale.
Preferisco pensare che si voglia ancora discutere, e certo anche dissentire da quello che ho scritto. Che intanto partiva dal riconoscimento del fatto che Santarcangelo è da tempo il più importante festival teatrale dell’estate italiana, e questo però comporta anche una responsabilità. Mi sembrava del resto che anche le parole introduttive al programma di Silvio Castiglioni e la stessa immagine di un teatro distrutto dalle bombe, scelta come sigla iconografica, indicassero la consapevolezza di essere di fronte a una sfida progettuale. Se così non è, certo lo potete sapere meglio di me. Non sono, a differenza di voi, fra i consiglieri dei direttori del festival di Santarcangelo. Vi ho partecipato soltanto da spettatore, credo attento. Ho assistito a spettacoli e incontri, fatto tardi la notte, in piazza, discutendo con tanti. Tanto è vero che gran parte delle vostre considerazioni sono presenti nel mio pezzo. La riuscita della prova di Danio Manfredini, che diventerà certo un lavoro importante una volta che abbia completato il proprio percorso creativo, a cui il manifesto aveva per altro già dedicato in precedenza tutto lo spazio che meritava.
I pochi soldi a disposizione. La partecipazione di molti operatori (termine orrendo ma significativo). La presenza di spettacoli di apprezzabile qualità, anche se spesso già passati nella normale programmazione dei teatri o in altri festival delle vicinanze, e di cui si era dunque riferito in altre occasioni. E qui sta forse uno dei nodi della questione. Senza polemica: altre cronache hanno liquidato il festival in maniera ben più sommaria, trattando in poche righe le sue principale produzioni. Non vi sembra che dovrebbe essere rivolta altrove la vostra protesta? Non so sinceramente quali spettacoli notevoli posso aver perso. Può essere capitato, certo. Ma non è questo il punto, non è cioè una questione di spettacoli riusciti o meno, non è una questione di gusto. Su cui è normale avere opinioni diverse. C’è invece una questione di senso e di necessità di questo (e altri) festival. Per chi e come farlo, per quale pubblico, per lasciare quali tracce. Un festival è un singolare evento che concentra in uno spazio e in un tempo limitati una quantità di teatro normalmente impensabile, che consente di mettere a confronto artisti di provenienze e generazioni diverse, di aprire una finestra su geografie lontane da quelle usuali. Richiede fantasia progettuale, volontà di scoperta, capacità di scarto rispetto alla norma. Se deve essere una vetrina di spettacoli per i qualificati operatori stranieri, una sorta di mostra mercato della produzione locale, personalmente non mi interessa.
Mi sembra che Santarcangelo abbia progressivamente perduto negli ultimi anni la spinta che ne aveva fatto un laboratorio e un crocevia d’esperienze, laddove ad esempio ci si interrogava sul rapporto fra innovazione e tradizione e si ricercava una nuova forma di teatro popolare. Per rinchiudersi in quella logica difensiva che traspare anche dalla vostra lettera, da periodica riunione di famiglia. Una fase di autointerrogazione dei gruppi teatrali italiani, dite. Verrebbe da dire piuttosto di autoreferenzialità. E poi se i gruppi sono ogni anno sempre quegli stessi cinque o sei emilianoromagnoli, che bisogno c’è di fare un festival?
Da ultimo, accennate al festival di Spoleto. Ma se Spoleto è diventato quel che è diventato, cioè niente, di chi è la responsabilità? Chi ha lasciato che scomparisse dalla vita culturale di questo paese? Troppo facile prendersela ora con Pippo Baudo. Sarà la nuova destra, ma almeno so chi ho di fronte. Mi mette più in allarme chi cerca di approfittarsi dei miei buoni sentimenti di sinistra per spacciare una politica culturale di tutt’altro segno.
Gianni Manzella
Redazione_ateatro
2003-08-27T00:00:00
Tag: AvignoneFestivald (2), CapittaGianfranco (2), CastiglioniSIlvio (5), Claudio Meldolesi (15), festival (53)
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