Le tre onde dell’avanguardia teatrale made in Italy

Gabriella Giannachi e Nick Kaye, Staging the Post-Avant-Garde. Italian Experimental Performance after 1970, Peter Lang, Bern, 2002

Pubblicato il 10/08/2003 / di / ateatro n. 056

La bibliografia sul nuovo teatro italiano non è – purtroppo – particolarmente folta. Questo fenomeno così ricco e sfaccettato imporrebbe una attenta ricostruzione storica e una serie di riflessione teoriche. Ma è come se alla copiosa e interessante produzione di spettacoli di ottimo livello non corrispondesse una adeguata reazione nella cultura teatrale (ma è una notazione che non riguarda solo il nuovo teatro: per esempio, dopo Il rito perduto di Luca Ronconi, il saggio di Franco Quadri che risale agli ormai lontanissimi anni Settanta, non vi è un libro che ripercorra adeguatamente la carriera di uno degli uomini di teatro più importanti del Novecento).
Ben vengano dunque pubblicazioni come Staging the Post-Avant-Garde. Italian Experimental Performance after 1970 di Gabriella Giannachi (University of Lancaster) e Nick Kaye (University of Manchester), il volume che inaugura la collana Stage and Screen Studies dalla casa editrice bernese Peter Lang. Già il fatto che una collana di questo genere si apra con un titolo dedicato a un fenomeno che in Italia resta marginale sarebbe un sintomo da prendere in considerazione. Inoltre l’agile saggio (197 pagine, più bibliografia e indice dei nomi) affronta diversi nodi teorici, importanti per comprendere la recente storia del teatro italiano.
Staging the Post-Avant-Garde riprende implicitamente la suddivisione in tre «ondate» del nuovo teatro italiano emersa negli ultimi anni. Per cominciare, la stagione soprattutto romana degli anni Sessanta (le «cantine», secondo un’abusata etichetta), qui rappresentata da una serie di schede dedicate a Carmelo Bene, Carlo Quartucci, Leo De Berardinis, Carlo Cecchi e Memè Perlini, che mettono a fuoco diversi aspetti della pratica di quell’avanguardia: la destrutturazione del linguaggio e della parola, dello spazio con il coinvolgimento del pubblico, l’incontro tra popolare e contemporaneo, tra tradizione popolare e avanguardie storiche, la frammentazione e ricomposizione geometrica dello spazio-tempo dell’evento teatrale, lo stretto rapporto con il cinema. A seguire, appunto dal 1970, la stagione della post-avanguardia, seguendo la definizione da Beppe Bartolucci: è quella che costituisce il nucleo del libro, con ampi squarci dedicati al Carrozzone-Magazzini, a Mario Martone e Falso Movimento, a Giorgio Barberio Corsetti e alla Socìetas Raffaello Sanzio, con una puntuale attenzione ai rapporti tra queste realtà e i recenti sviluppi delle arti visive e della performance. Infine, accorpati nell’ultima sezione, alcuni dei «Teatri 90», ovvero Motus, Masque, Teatrino Clandestino, Fanny & Alexander e Egumteatro.
Concentrandosi su alcuni gruppi, sulle punte alte e internazionalmente riconosciute di un movimento molto più ampio, il saggio rischia di lasciare in secondo piano la ricchezza di un fenomeno che ha anche interessanti risvolti sociologici. Ma questo è coerente con un’impostazione che privilegia l’analisi delle opere – o meglio, di alcune opere e in generale dei primi lavori, quelli in cui si gettano sperimentalmente le basi di una poetica, si costruiscono una grammatica e una sintassi teatrali che verranno poi sviluppate – o tradite – in seguito.
Un primo controverso nodo storiografico riguarda appunto la divisione in tre fasi di un percorso ormai quarantennale. E’ solo una divisione di comodo, basata sul criterio cronologico-generazionale, oppure riflette anche delle profonde discontinuità nella pratica teatrale? Giannachi e Kaye parlano di un passaggio “From avant-garde to post-avant-garde” dove “sono evidenti molte influenze e connessioni specifiche tra le pratiche dell’avanguardia e quella della post-avanguardia” (p. 31), anche se non approfondiscono le differenze con il teatro di regia, costruito sulla messinscena di un testo preesistente. Tuttavia evidenziano anche una serie di divergenze altrettanto profonde tra queste due fasi della “tradizione dell’avangiardia”. In primo luogo “una radicale accentuazione, e addirittura accelerazione, di pratiche implicite nell’avanguardia” (p. 32).
Non è solo una differenza di grado, ma anche di qualità. A parte “il rapporto controverso ed esplicitamente critico con l’egemonia della cultura e dei valori culturali nord-americani, anche nel momento in cui questo nuovo inizio teatrale assorbiva e si confrontava con l’arte concettuale e post-minimalista emersa alla fine degli anni Sessanta” (p. 32), a caratterizzare la post-avanguardia sarebbe soprattutto un diverso atteggiamento nei confronti dell’evento teatrale. La prima avanguardia usava nuovi linguaggi e contaminazioni con le altre arti per affrontare e trasgredire il canone drammaturgico, un linguaggio teatrale in qualche modo codificato. Il punto di partenza della post-avanguardia sarebbe invece la messa in discussione dei fondamenti stessi della rappresentazione teatrale, la necessità di ripartire da un “grado zero” del teatro, dalla riduzione dell’evento spettacolare ai minimi termini, ai suoi elementi costitutivi; di qui la costante attenzione ai “limiti” della rappresentazioni e una tendenza all’eccesso, fino a disattendere programmaticamente le aspettative dello spettatore (pp. 32-33). Ma qui, da un punto di vista storico, siamo ancora nell’orizzonte delle avanguardie d’inizio secolo e del modernismo: i suoi pilastri erano appunto la rifondazione dell’opera d’arte su base razionale e progettuale, e il desiderio e la necessità di sorprendere il pubblico riorganizzando e “modernizzando” il suo quadro percettivo, e sconvolgendo dunque le sue attese.
C’è però un aspetto in cui si avverte con maggior determinazione una diversa prospettiva: il “gioco tipicamente post-moderno con la sovversione e l’appropriazione ironica per coinvolgere storicamente e culturalmente la propria pratica artistica in un ‘disvelamento’ di significati e riferimenti” (p. 34). E’ una pratica intertestuale ed eclettica destinata ad aumentare la consapevolezza del meccanismi linguistici, retorici, politici e storici della rappresentazione e della comunicazione (e anche, in una seconda fase, dei classici). A caratterizzare dunque la post-avanguardia è questa “combinazione di una radicale sperimentazione formale e il serrato confronto con le eredità storiche e culturali” (p. 35).
Un ulteriore aspetto che differenzia le due prime «onde» (e in qualche modo una conseguenza di questo assunto) è l’irruzione dell’aspetto esistenziale, personale – a partire dal dato più immediato dell’esistenza, il corpo: e qui giustamente viene ricordata la lezione di performer come Ulay e Abramovich e soprattutto Gina Pane.
Il passaggio dalla seconda alla terza «onda» (la “New Generation” di Motus, Masque, Teatrino Clandestino, Fanny & Alexander ed Egumteatro) pare porre agli autori minori problemi, in una linea di sostanziale continuità, al di là – sulla scia di Chinzari e Ruffini, Nuova scena italiana, Castelvecchi, Roma, 2002 – di una attenzione al corpo “deforme” e “malato” (ma già il Carrozzone parlava di “patologico”) e di un rapporto problematico tra il corpo, la tecnologia e l’identità.
Forse a illuminare la questione potrebbe essere un altro snodo teorico che sottende questa ricostruzione, ovvero lo statuto della rappresentazione nella post-avanguardia. Concentrandosi sul “grado zero” della rappresentazione, così come viene discusso e definito nelle prime performance dei gruppi esaminati, Giannachi e Kaye hanno sempre ben presente che nell’orizzonte post-moderno non è in gioco solo il rapporto tra il reale e la finzione.
Quello tra reale e finzione, tra realtà e rappresentazione è un rapporto da sempre problematico, e che tuttavia proprio per questo ha trovato nel corso del tempo varie soluzioni: per fermarsi alla prima «onda» dell’avanguardia italiana, ecco Carmelo Bene esercitarsi sulla disarticolazione della rappresentazione fino ad arrivare alla teoria di una phonè svuotata di significato, oppure Leo De Berardinis rifondarla sulla base di una figura sapienziale di attore-saggio, o ancora Memè Perlini giocare sulla sua personale visionarietà d’artista, in funzione di una esasperata soggettività poetica, o infine Carlo Quartucci scommettere sull’impossibilità di ricondurre la rappresentazione a un quadro unitario e dunque procedere a disseminare frammenti, azioni, segni…
Per la seconda «onda», quella della post-avanguardia, non esiste più ancoraggio possibile, la rappresentazione è stata svuotata di senso – ma è stata svuotata di senso anche la realtà. Il problema è la virtualizzazione del reale a opera dei nuovi mass media e dei nuovi meccanismi della comunicazione – o, se si preferisce, dell’avvento della società dello spettacolo. L’obiettivo della creazione teatrale resta ovviamente la costruzione di uno spazio virtuale (che deve seguire delle regole di coerenza interna); ma questa realtà virtuale non ha più come referente un reale che è diventato un fantasma; viene dunque immediatamente ri-ancorata nella propria fisicità, nella dimensione esistenziale, nella materialità del corpo e nell’esperienza dello spettatore (Grotowski e Barba rispondono in chiave di teatro povero esattamente alla stessa domanda, ma la risposta – il recupero dello specifico teatrale – non passa attraverso la meditazione dei teorici della virtualizzazione; ad accomunare gli uni e gli altri è in ogni caso la lettura di Artaud…).
La performance può anche inglobare (e all’inizio lo fa spesso e sistematicamente) echi e frammenti di quel virtuale che sta svuotando di senso la realtà, ma poi li fa interagire con la propria immediatezza esistenziale. Non a caso si muove spesso in un gioco barocco sui limiti tra finzione e realtà, a metterne in discussione e ridefinirne i rispettivi confini.
Quello della post-avanguardia era dunque un obiettivo assai ambizioso, anche se forse non del tutto consapevole: rifondare la rappresentazione nell’era del virtuale. Questa esigenza ha prodotto una serie di spettacoli (o meglio di esperienze) memorabili ma forse irripetibili, perché quel tipo di tensione e di scoperta può darsi storicamente in un’unica occasione.
Per i gruppi della terza «onda», il problema non si pone più. Siamo irrimediabilmente oltre l’orizzonte del virtuale. Dunque non si tratta più di rifondare l’ordine della rappresentazione, quanto di utilizzare una serie di regole e tecniche teatrali (e spesso multimediali) per costruire nuovi ordini virtuali, nuove macchine del desiderio. E anche in questo caso producendo spettacoli di notevole efficacia.
Ma qui siamo già giunti all’ultimo nodo che vale la pena di approfondire. Giannachi e Kaye “liquidano” la recente produzione di diverse realtà significative in poche righe (con l’eccezione della Societas Raffaello Sanzio, che non a caso continua pervicacemente a mettere in discussione i fondamenti stessi della rappresentazione). Per certi versi il recente lavoro di molti eroi della post-avanguardia segna in apparenza ritorno all’ordine, di una ripresa dei moduli del teatro di regia (anche se con un taglio e una consapevolezza diversi). E’ il segno di una sconfitta e di un ritorno all’ordine, oppure rappresenta la maturazione di chi riesce a innervare la tradizione delle proprie scoperte? E che cosa ha portato tutto questo nel corpo del teatro? Sono domande che un saggio come questo, centrato sulla ricostruzione storica di una fase assai precisa della storia del nuovo teatro italiano, può soltanto suggerire.

Gabriella Giannachi e Nick Kaye, Staging the Post-Avant-Garde. Italian Experimental Performance after 1970, Peter Lang, Bern, 2002.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2003-08-10T00:00:00




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