La società della performance

Una conversazione con Laura Gemini

Pubblicato il 01/07/2003 / di / ateatro n. 054

A proposito dell’impostazione teorica del tuo libro, partendo da Schechner e Turner tu ricordi come tra il processo rituale e le performance postmoderne ci sia un continuum legato all’attività mitopoietica dell’uomo e alla relazione comunicativa e sociale che innescano nella comunità di partecipanti (a partire dalla definizione delle performance come fondamento della vita sociale ovvero, come ricordava Victor Turner, performance come social drama) ed alla dimensione del restored behaviour. Puoi illustrarci più dettagliatamente questo concetto?

Lo sforzo “sociologico” che tento di portare avanti con il mio lavoro consiste nel considerare le performance culturali e artistiche come luoghi di osservazione del sociale. Su questa base l’evoluzione delle forme dell’espressività individuale e collettiva spiega e allo stesso tempo è spiegata dalle trasformazioni comunicative – e quindi sociali – che a loro volta dipendono dal rapporto di co-determinismo socio-mediale.
Ecco perché la teoria della performance che postula un continuum nella gamma dei possibili performativi non può non tentare di distinguere analiticamente – data la “naturale” ibridazione della performance – le forme dominanti in un determinato contesto. In altre parole, si può osservare un rapporto di omologia fra un certo tipo di performance e la configurazione socio-comunicativa corrispondente. È così che il rituale – in estrema sintesi – deve la sua specificità al senso di partecipazione anima e corpo alla comunità di riferimento, tipica delle formazioni pre-moderne e della cultura orale mentre il teatro è moderno, individuale, visivo cioè determinato dalla svolta epistemologica della scrittura e dall’inesorabile processo di virtualizzazione della comunicazione potenziato dai media. Non basta dunque, secondo me, usare la dicotomia rito-teatro, ma occorrono delle categorie di analisi adatte al post-moderno. La performance contemporanea ci aiuta in questa ricerca perché con la sua varietà ci “sbatte in faccia” il sociale offrendoci una possibilità per osservare in modo nuovo il rapporto fra individuo e società. I nuovi bisogni di espressività si traducono in dinamiche performative ibride, contingenti, basate sull’intreccio fra dominanza del visivo e recupero sensoriale così come vuole un’oralità di ritorno (o secondaria) forgiata dalla logica del digitale e dall’idea di interattività. Sono dinamiche che riguardano diversi ambiti – pensiamo ad esempio alla neo-televisione e alle sue grandi cerimonie – ma che l’arte, con la sua specificità, può fare emergere con maggiore evidenza. Uno degli aspetti che volevo sviluppare è l’analisi dell’evoluzione socio-comunicativa che trova nella scena elettronica un caso di studio particolarmente efficace. La sua capacità di assimilare e trattare – dall’interno del sistema dell’arte – le grammatiche mediali e di renderle teatrali ci permette di accedere a quelle forme neo-narrative che paradossalmente si legano alla logica dei media. Le esperienze delle avanguardie storiche, naturalmente, hanno gettato le basi per procedere in questo tipo di ragionamento ma mentre in quei casi la propensione antropologica è dichiarata, è l’anima di quel tipo di ricerca, mi sembra importante cercare di capire cosa voglia dire oggi “partecipazione” e quali forme dello stare insieme si diano allo sguardo.

Diceva Artaud che il punto di partenza del teatro è l’energia vitale rigeneratrice rappresentata dal soffio come “magico agente di trasmutazione”, simbolo del potere genesico, vivificante del teatro e ricordava che la ritualità che sancisce il carattere sacro dell’accadimento scenico non significa affatto “ripetizione” bensì quell’unicità, imprevedibilità e irripetibilità che è propria delle vita stessa. E’ questo elemento del processo rituale, non indotto, non meccanico, non ripetitivo un altro degli aspetti che permette un legame con la performance intesa come actual?

Il processo rituale – per lo meno così come viene definito dalla teoria della performance – trova nel comportamento recuperato e nell’actual i suoi meccanismi di base. Questo vuole dire che recuperare non significa ripetere ma tenere conto che la comunicazione è un processo ricorsivo che vive nella dialettica fra permutazione e ricombinazione, fra ciò che si ripete e ciò che si rinnova nell’attualizzazione dell’evento comunicativo. Il rito nasce, e si mantiene anche se trasformato, perché i nostri bisogni di metabolizzazione simbolica (della violenza, della morte?…) permangono e cercano i loro spazi “sacri”, cioè separati, altri. Non so se ti riferisci a questo e non so nemmeno se per Artaud fosse così. In ogni caso il teatro è una performance e come tale porta in sé il processo rituale con la sua ambivalenza: ripetere vuol dire che la comunicazione si lega ad altra comunicazione e che in questa circolarità non è mai uguale a se stessa ma evolve in relazione alle condizioni della sua realizzazione (tempi, luoghi, soggetti…). Ma forse queste cose le sanno meglio i teatranti…

Come si passa alla performance nei media e come le tesi dell’antropologia teatrale si legano alle teorie sistemiche di Luhmann, e alla sociologia dei media da Mac Luhan in poi?

La sistemica descrive la società contemporanea a partire dalla differenza sistema/ambiente e dalla semantica della società differenziata per funzioni. In quest’ottica è possibile osservare il sistema sociale dell’arte e il sistema dei media tenendo conto della loro (relativa) autonomia e delle proprie modalità di osservare l’ambiente riproducendolo comunicativamente. Il rapporto fra performance, performance artistica (specialmente teatrale) e media mette in evidenza il rapporto di accoppiamento strutturale – la co-evoluzione – che connota da sempre, anche in maniera dolorosa e controversa, questi sistemi.
Nello stesso tempo questo rapporto, e soprattutto l’uso artistico delle tecnologie, permette di osservare i media, di comprenderne i linguaggi e le logiche. Di accedere alle dinamiche dell’immaginario collettivo contemporaneo.
La performance teatrale, che vive nella complessità dei linguaggi, che ri-negozia i concetti di presenza, di interazione e le categorie spazio-temporali, mi sembra essere un caso paradigmatico, particolarmente affascinante (e complicato!) di questo rapporto: ancora una volta un luogo di osservazione privilegiato.

Buona parte della tua ricerca di dottorato riguardava l’indagine della ricezione di alcune performance tecnologiche, che per motivi di spazio non è potuta entrare a far parte del tuo libro L’incertezza creativa. Da queste indagini sono fuoriuscite alcune incongruenze tra intenzionalità creativa del regista-gruppo e sua effettiva comunicazione (l’orizzonte di attesa). Guardare la performance dalla parte del suo effetto sul pubblico ci porta a misurare la distanza culturale tra opera e destinatario, tra artista e spettatore, quest’ultimo spesso fuori dal “frame”. Puoi parlare di queste esperienze in sintesi?

La ricerca sulla ricezione – parola che se devo essere sincera non amo molto – dimostra come l’idea di comunicazione come trasmissione di informazioni (molto legata anche al modo di funzionare dei media di massa) non sia adatta a spiegare qualcosa che la biologia cognitiva (e con essa la sistemica) ha espresso chiaramente e cioè che la comunicazione, dal punto di vista del soggetto cognitivo, è un’autoprestazione di ognuno e che non c’è niente da trasmettere.
Quello che mi interessa vedere è come uno spettatore osserva le sue osservazioni, come definisce la sua esperienza spettatoriale, come accetta le sfide cognitive di una scena che si complessifica e come le attualizza.
Su un altro livello, allora, è possibile osservare la relazione che emerge dall’interazione teatrale ma che è anch’essa frutto dell’osservazione. In poche parole: parto dal presupposto che attori e spettatori (così come gli attori fra di loro, gli spettatori fra di loro, ecc.) sono reciprocamente all’oscuro delle intenzionalità e delle aspettative dell’altro. La comunicazione è un fatto improbabile perché nulla ci garantisce che ci capiremo e che accetteremo le selezioni compiute da qualcun altro.
Inoltre il linguaggio, che sarebbe il mezzo evolutosi per abbassare la soglia di tale improbabilità, viene usato dall’arte in generale e dal teatro di ricerca in particolare in maniera non convenzionale e questo naturalmente complica il lavoro dello spettatore!
Ciò che conta però è che l’esperienza spettatoriale e in generale artistica (l’esperienza interiore, direbbe Luhmann) non è un fatto di condivisione e comprensione dei significati immanenti di un’opera ma è produzione (di informazione), riduzione dell’incertezza fra la gamma dei significati possibili. La ricezione, in questa accezione, comporta la produzione del senso ed è questo, credo, che tutti condividiamo. La necessità di fornire senso che è la forma umana di elaborazione dell’esperienza.

Come collochi in questa prospettiva situazioni artistiche di confine – dalla net art alla web performance – in cui la componente artistica è legata a un principio di partecipazione e condivisione reale sia pur attraverso la rete?

La ricerca di nuovi spazi e modi di condivisione mi sembra una costante antropologica del nostro tempo. Come sempre gli artisti si fanno promotori delle nuove istanze che il sociale, forse un po’ inconsapevolmente, produce.
Mi piace pensare che lo spazio della performance non abbia confini e credo che queste esperienze si spieghino così.
Dal punto di vista del sociale il sistema dell’arte si riproduce comunicativamente e l’accoppiamento con le tecnologie non lo impedisce di certo.
Penso però che i problemi in questo caso siano altri, legati alle possibilità di fruizione, al fatto che è ancora più facile andare a teatro o a una mostra che partecipare a una performance in rete. Credo che anche nell’accesso alla rete, e al suo strano modo di essere democratica, ci sia un problema di “abbordabilità” che non è teorico ma pratico, di alfabetizzazione, di usabilità… Oggi la distinzione guida della società è data dal rapporto fra inclusione ed esclusione e dobbiamo stare attenti perché lo scarto di conoscenze e il digital divide hanno ancora un peso nel determinare chi è incluso e chi non lo è.

Laura Gemini, nata a Rimini, vive a Bologna. Laureata in Scienze Politiche – Indirizzo Politico Sociale all’Università di Bologna, ha conseguito il dottorato in Sociologia della Comunicazione e Scienze dello Spettacolo aella Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Urbino. E’ attualmente ricercatore della Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Insegna Teoria e tecniche della Ricezione al Corso di Laurea Specialistica in Comunicazione e Pubblicità per le Organizzazioni della Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Urbino.

Anna_Maria_Monteverdi




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