Le recensioni di “ateatro”: Tre Lai
di Giovanni Testori, Longanesi, Milano, 1994
Come restituire forza alla parola teatrale? Su questo ha lottato, nell’arco della sua carriera di drammaturgo, Giovanni Testori, fino al suo ultimo testo teatrale, Tre Lai, che arriva in libreria un anno e mezzo dopo la morte dello scrittore. In questi monologhi, che danno voce a un emblematico trittico di personaggi femminili, l’efficacia del testo nasce in primo luogo dall’intreccio di scandalo e rituale (come in certe esperienze dell’avanguardia, da Paradise Now a Nitsch): dalla dialettica tra questi due poli incompatibili può trarre la sua forza la messinscena. Ecco dunque accostate le oltraggiose e infoiate Cleopatra e Erodiade alla Madonna addolorata sul Calvario. Ecco queste donne sensuali e angosciate, bruciate sì dal desiderio di un uomo, ma quanto diverso: l’amato Antonio, l’odiato e osceno profeta, il figlio adorato. Ecco l’oggetto del desiderio incarnarsi nel serpente che morderà il seno di Cleopatra, nella lingua che sporge dalla testa mozza del Battista, nel corpo dilaniato dalla Croce.
Esplode soprattutto, in quest’ultimo Testori, il tentativo di restituire un corpo alla lingua. Ma se la lingua ha perso sostanza e verità, come ritrovarne la vita? Certamente lontano dalla lingua appiattita ed espropriata della quotidianità e dei mass media, e lontano da ogni perfezione classicistica. Piuttosto può cercarla, la voce, nello scarto: in quella distorsione che l’allontana dalla norma, deformando desinenze, riducendo le parole all’osso per farle rifiorire con volute barocche, facendo vibrare le differenze tra due calchi che non possono essere identici. Non è tanto una lingua che scelga di misurarsi con la realtà (magari una realtà frammentata, stratificata, multiforme, e che impone quindi il pastiche, la sovrapposizione di diversi registri e gerghi). E’ invece una lingua che ritorna a se stessa; e che anzi, in prima istanza, si rivolta contro se stessa e le proprie regole, si cristallizza nei cliché che inventa e poi insorge. Nel dittico che precede questi Tre Lai, già i titoli, con la deformazione dei nomi dei protagonisti in Sfaust e sdisOrè, esplicitavano la negazione, lo sfregio, il rifiuto della di sé, della parola e del senso che porta con sé. Quella “s-” prefissa si ribalta qui nell'”-às” finale accentato che accomuna le tre protagoniste: Cleopatràs, Erodiàs e Mater Strangosciàs. E quella desinenza suona come un’invocazione che si spegne, il grido della tortura e dell’agonia, ma anche quello del bambino che invoca la madre, forse quello dell’orgasmo (e certo i gridi muti di Beckett e Bacon). Tre Lai è l’approdo di un processo di riappropriazione della parola che è anche reinvenzione e regressione: fino all’afasia, al balbettio, alla glossolalia. Fino appunto a questo meccanismo infantile, ironico e ripetitivo, di distorsione e uniformazione dei vocaboli. Affiora uno strato aurorale del linguaggio, che precede addirittura il dialetto: in questo caso, quello brianzolo dell’infanzia, per riconoscersi in una lingua naturale, materna, intima, incontaminata (anche se poi oggi questo non può certo essere il recupero filologico o mimetico di una parlata popolare – e la cosa non può sorprendere, viste le irrimediabili trasformazioni del paesaggio geografico e antropologico). Ed è forse questa distanza – accomunate nella memoria alle cerimonie sacre dell’infanzia – che sospinge la lingua anche verso assonanze con il latino, fino a far assumere alla scansione dei versi un sapore liturgico. Così come valore liturgico e magico assumono i nomi dei paesi della Brianza, costellati intorno alla spina dorsale della terra – ormai immaginaria – in cui si inverano i personaggi: la Val Assina, e poi Magreglio, Proserpio, Longone, e soprattutto Lasnigo…
Alla fine, questa lingua è in grado di appropriarsi anche della modernità, inglobando con ironica naturalezza “toplès” e “spot”, ma anche “slou” (inteso come ballo lento), “scer” (ovvero lo share televisivo), “pul” (cioè pool) e magari “biutiful”. Può citare canzoni d’epoca come Veleno, o il “por nano” caro a Fo. Può soprattutto plasmare a propria misura l’intera tradizione poetica – quella poesia dove lampeggia la forza originaria della parola: a partire naturalmente dall’omaggio ai Lais di Maria di Francia, passando per Dante e Leopardi, approdando nel finale all’indispensabile “terra sdesulada”.
Questo percorso sfiora altre esperienze di questi anni: in teatro (dal Dario Fo di Mistero buffo a Enzo Moscato, fatti salvi i diversi livelli espressivi); e, con ovvie divergenze, nel percorso di molti poeti dialettali (Loi, Baldini). Non è la nostalgia di un passato irrecuperabile, ma la consapevolezza la ricerca dell’autenticità espressiva, nell’Italia di oggi, non può essere semplice e non ammette scorciatoie. E allora, è nell’invenzione linguistica filtrata dal dialetto, nelle torsioni di una lingua in perenne rivolta, come in questi Tre Lai, che sembra possibile far confluire la ricchezza di un’Italia sospesa tra arcaismi e modernità e l’esigenza di dar forma a ossessioni e archetipi personali.
Giovanni Testori
Tre Lai
Longanesi, pp. 176, 26.000 lire
Pubblicato originariamente sul “manifesto” il 22 settembre 1994.
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