Le recensioni di “ateatro”: In exitu
di Giovanni Testori, regia di Michela Blasi
In uno dei suoi monologhi più estremi, In Exitu, Giovanni Testori mise in scena un tossico, Riboldi Gino, che agonizza e delira per lultima overdose nei cessi della stazione. Era lo stesso autore a mettersi in gioco (e in scena) interrogando il Riboldi Gino (che era Franco Branciaroli) e commentando la sua parabola. Fu uno spettacolo memorabile e scandaloso, rappresentato tra laltro nellatrio marmoreo della Stazione Centrale e alla Pergola di Firenze (dove suscitò uninsurrezione del pubblico e forse era proprio quello che voleva Testori).
E difficile misurarsi con un precedente di questo genere, ma Michela Blasi Cortellazzi (regista) e Andrea Facciocchi (unico interprete) hanno superato di slancio la prova, anche se si sono mossi in una direzione diversa da quella svelta da Branciaroli. Rifuggendo da ogni tentazione realistica o psicologica, scavando nel testo e nella lingua in quella lingua spezzata e franta, in quelle frasi smozzicate, nellintreccio musicale di temi e variazioni, di riprese e crescendo strozzati hanno costruito un monologo di sorprendente forza e energia, un corpo a corpo con la parola di rara intensità. Il fulcro è proprio questo: la lotta allultimo sangue tra due corpi, quello dellattore con la sua voce, i suoi gesti, la sua danza (ma tutti prosciugati fino allessenzialità, privati di ogni orpello o divagazione), e quello del testo, con le sue invettive, le sue confessioni, la disperazione e la tenerezza, i gridi e i rantoli
In Exitu è costruito su due livelli. In superficie la disgregazione psicologica, fisica e del linguaggio di Riboldi Gino, la dissoluzione del tessuto sociale che lo spinge allautodistruzione (o piuttosto la facilita, perché non vi è giustificazione possibile al suo degrado). Appena sotto, una analogia stratificata tanto blasfema quanto salvifica tra lostia del sacramento, il seme del rapporto omosessuale, la goccia che esce dalla siringa. E, sottolinea linterpretazione di Andrea Facciocchi in quello spazio vuoto e nero, tra la parola e il corpo, tra lattore e lo spettatore. Non cè scavo psicologico, non cè spazio per la pietà o per la consolazione. Quel grumo di dolore assoluto e di male, quel sacramento tragico, non può incontrare la luce della grazia. Può solo esplodere in questo esorcismo, in questa scarica di pulsioni, in una rabbia impotente che si ulula contro, atterrita da una cupa bellezza. Non può commuovere, ma ammutolire.
Oliviero_Ponte_di_Pino
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