Le recensioni di “ateatro”: In exitu

di Giovanni Testori, regia di Michela Blasi

Pubblicato il 10/04/2003 / di / ateatro n. 051

In uno dei suoi monologhi più estremi, In Exitu, Giovanni Testori mise in scena un tossico, Riboldi Gino, che agonizza e delira per l’ultima overdose nei cessi della stazione. Era lo stesso autore a mettersi in gioco (e in scena) interrogando il Riboldi Gino (che era Franco Branciaroli) e commentando la sua parabola. Fu uno spettacolo memorabile e scandaloso, rappresentato tra l’altro nell’atrio marmoreo della Stazione Centrale e alla Pergola di Firenze (dove suscitò un’insurrezione del pubblico – e forse era proprio quello che voleva Testori).
E’ difficile misurarsi con un precedente di questo genere, ma Michela Blasi Cortellazzi (regista) e Andrea Facciocchi (unico interprete) hanno superato di slancio la prova, anche se si sono mossi in una direzione diversa da quella svelta da Branciaroli. Rifuggendo da ogni tentazione realistica o psicologica, scavando nel testo e nella lingua – in quella lingua spezzata e franta, in quelle frasi smozzicate, nell’intreccio musicale di temi e variazioni, di riprese e crescendo strozzati – hanno costruito un monologo di sorprendente forza e energia, un corpo a corpo con la parola di rara intensità. Il fulcro è proprio questo: la lotta all’ultimo sangue tra due corpi, quello dell’attore con la sua voce, i suoi gesti, la sua danza (ma tutti prosciugati fino all’essenzialità, privati di ogni orpello o divagazione), e quello del testo, con le sue invettive, le sue confessioni, la disperazione e la tenerezza, i gridi e i rantoli…
In Exitu è costruito su due livelli. In superficie la disgregazione psicologica, fisica e del linguaggio di Riboldi Gino, la dissoluzione del tessuto sociale che lo spinge all’autodistruzione (o piuttosto la facilita, perché non vi è giustificazione possibile al suo degrado). Appena sotto, una analogia stratificata – tanto blasfema quanto salvifica – tra l’ostia del sacramento, il seme del rapporto omosessuale, la goccia che esce dalla siringa. E, sottolinea l’interpretazione di Andrea Facciocchi in quello spazio vuoto e nero, tra la parola e il corpo, tra l’attore e lo spettatore. Non c’è scavo psicologico, non c’è spazio per la pietà o per la consolazione. Quel grumo di dolore assoluto e di male, quel sacramento tragico, non può incontrare la luce della grazia. Può solo esplodere in questo esorcismo, in questa scarica di pulsioni, in una rabbia impotente che si ulula contro, atterrita da una cupa bellezza. Non può commuovere, ma ammutolire.

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