Le recensioni di “ateatro”: I promessi sposi alla prova
di Giovanni Testori, regia di Andrée Ruth Shammah
Sono passati dieci anni dal primo allestimento dei Promessi sposi alla prova di Giovanni Testori, quando il Teatro Franco Parenti lo riallestisce, sempre con la regia di Andrée Ruth Shammah e la scena di Gian Maurizio Fercioni, in una versione leggermente (e opportunamente, almeno dal punto di vista dell’efficacia spettacolare) scorciata, con la paternalistica bonomia di Gianrico Tedeschi nella parte del Maestro, a sostituire, e in qualche modo attutire, la lacerazione interiore di Parenti.
In questa Milano dimessa e avvilita, mediocremente formentiniana, il testo sembra guadagnare di attualità. Verrebbe quasi la tentazione di parlare di profezia, riascoltando l’invettiva che il Maestro, nel finale, lancia contro la città: “Vale, sì, vale esser figli tuoi, anche qui ed ora, città sconfitta, città infetta, città malata, città dilaniata, città derelitta! Accetta che sia questa prova il sì che veramente ti rinnova! Case, piazze, strade, asili, fabbriche mai finite…”.
Siamo ovviamente alla scena finale, quella della peste, che tanto per Manzoni che per Testori non è solo un male del corpo ma che è prima di tutto una catastrofe morale, e insieme l’occasione per riscattarsi dal male. Per l’intero spettacolo, sfrangiando il romanzo con metodo pirandelliano e insieme rovesciando quello stesso metodo con intenti pedagogici, il Maestro accompagna e commenta le vicende di Renzo e Lucia (Giovanni Franzoni e Francesca Cassola) alle prese con il male del mondo: due persone “comuni”, scalzate dalla propria quotidianità per le prepotenze di Don Rodrigo (Stefano Guizzi), un “cattivo” luciferino, e che accumula perciò i difetti del rampante paramafioso a quelli del ribelle trasgressivo (a questo proposito, affinché scatti un meccanismo d’identificazione con gli spettatori più giovani, non è necessario che i due interpreti recitino “bene”, anzi: la loro inadeguatezza di fronte alle implicazioni della vicenda diventa anch’essa esemplare). Testori non dimentica, ovviamente, che accanto alla dimensione “sociale” esiste anche una dimensione metafisica del male, e si compiace di sottolineare la complessità del rapporto tra male e colpa: come ribadisce l’irruzione della sventurata Gertrude (una grandguignolesca della “vedova nera” Marianella Laszlo).
La teatralizzazione dei Promessi sposi, comprese le guittate e i consapevoli effettacci, diventa allora un mezzo per ritrovare l’efficacia delle parole del romanzo – soffocate da troppe riletture – e per metterne a nudo alcuni snodi testorianamente fondamentali. Grazie alla guida del Maestro, questa spettacolarizzazione dovrebbe anche segnare la strada per passare dalle diverse individualità al “coro”, e per trasformare il dramma in liturgia – sacramento, appunto, la peste. Tuttavia, vivendo nel pieno della catastrofe, ricucire questa coralità, ritrovare la forza di vincoli e rapporti sociali, è un’impresa che ha del soprannaturale (appunto, la Provvidenza). Ma oggi, verrebbe da aggiungere, mancano i Maestri e non ci sono più, a far da collante, la solidarietà e i buon senso delle Agnese e delle Perpetue (che hanno in scena l’efficace comicità “lumbarda” di Rosalina Neri e Carlina Torta). Non appare casuale, allora, il pessimismo apocalittico, almeno sul piano collettivo, dell’ultimissimo Testori, quello di Gli Angeli dello Sterminio. Perché la peste, quel collasso morale che ha prodotto Tangentopoli e ora la spinge ad avvitarsi su se stessa, non è ancora finita, e le ricette per curarla finora non paiono gran che efficaci.
Pubblicato originariamente sul “manifesto” l’11 novembre 1984.
Oliviero_Ponte_di_Pino
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