I postumi

L'editoriale

Pubblicato il 10/04/2003 / di / ateatro n. 051

Sophie Ristelhueber, dalla serie Fait.

Nel 1992, poco dopo la fine della Prima guerra del Golfo, è uscito un piccolo libro. In copertina non c’è il nome dell’autrice, solo il titolo, Aftermath (qualcosa come “i postumi” o “le conseguenze”). Più in piccolo, sotto il titolo, Kuwait 1991. C’è un piccolo testo, e poi quasi solo immagini. Sophie Ristelhueber, l’autrice, ha fotografato dall’alto le tracce del conflitto sul deserto tra Irak e Kuwait. Da un aereo o in piedi sulla sabbia, ha diretto l’obiettivo verso il terreno. Le trincee e le fortificazioni. Le tracce delle colonne sulla sabbia. Le carcasse dei carri armati. I crateri delle bombe. I pozzi in fiamme. I ghirigori di filo spinato. Le cortecce di bombe e missili. Gli accampamenti devastati. Nessuna presenza umana, solo i segni della guerra. Terribili, ma con una loro spietata bellezza.
Quella serie di foto è stata tra l’altro esposta al MOMA di NY nel 1996 con il titolo Fait (Fatto) e alla Albright-Knox Art Gallery.

Sophie Riestelhueber, l’allestimento di Fait alla Albright-Knox Art Gallery.

Quella delle foto di Sophie Riestlhueber la conosciamo: è la bellezza di molta arte moderna. L’informale, l’art brut. I segni che la Land Art lascia sul paesaggio, destinati a essere cancellati dallo scorrere del tempo. La poetica del rifiuto. La seduzione della violenza e della distruzione. Il fascino del “quasi nulla” e dell’effimero. La purezza del segno, le ferite che lascia. Un’estetica minimalista proiettata su dimensioni gigantesche. Il gesto esemplare, le tracce di un gigantesco e sconvolgente happening. La vertigine della catastrofe – ma raggelata, fissa, immobile. Forse un’arte del post-umano, tecnologica, che al posto di penne e pennelli usa bulldozer e bombe, esplosivi e fuoco. Sono i dettagli che nessuno vede. Sono le cicatrici del tempo, del conflitto, della vita e della morte. Sono forse l’ultima traccia dell’umanità che resterà quando “noi non ci saremo”. Sono frutto della storia, ma non raccontano una storia: si offrono al nostro sguardo come terribili oggetti di contemplazione.
Ci sono molti modi per reagire alla guerra. A questa guerra. Alla nuova guerra infinita e asimmetrica che sembra profilarsi all’orizzonte della storia. Si possono fare molte cose: sul piano del pensiero e della consapevolezza personali, dell’azione politica, del gesto estetico. Il cinismo e l’impotenza. La tragedia e l’ironia. L’autoironia e l’autocritica. La somatizzazione. L’impegno. Il sacrificio personale, l’impegno. La lotta, occhio per occhio. La provocazione. La fuga nel trascendente o nell’estetismo. L’azione diretta o il pensiero. L’urlo o il silenzio. L’informazione. La testimonianza.
Le nostre reazioni, come persone prima ancora che come intellettuali o come artisti, sono un misto di tutto questo. E cambiano, mentre cambiamo noi e il mondo che ci circonda.

Sophie Riestelhueber, Every One, Centraal Museum, Utrecht, 1993.

In questo ateatro continuiamo la documentazione e la riflessione su alcuni temi che hanno caratterizzato il nostro lavoro in questi anni.
C’è molto teatro di guerra, inevitabilmente. A cominciare da Terrorism dei fratelli Presnyakov (Londra) e da Highway Ulysses (a Boston), oltre al testo completo della lettera in cui Peter Sellars presenta il suo progetto per la prossima Biennale Teatro.
Intrecciata a questo tema, prosegue la riflessione sul mito che aveva trovato ampio spazio in ateatro 50: un contributo di Davide Enia, la Medea con Fiona Shaw…
Poi uno speciale Testori a dieci anni dalla morte dello scrittore lombardo, con una teatrografia e molto materiale d’archivio.
E ancora le recensioni e un’anteprima della mostra di Jan Fabre a Bergamo, Gaude Succurrere Vitae.

Per quanto riguarda la situazione delle istituzioni teatrali italiane, vale la pena di tenere d’occhio i forum. Sembra che non accada nulla, ma ci sono stati (e ci saranno) incontri e iniziative. Cercheremo di tenervi aggiornati.

Redazione_ateatro




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