I postumi
L'editoriale
Sophie Ristelhueber, dalla serie Fait.
Nel 1992, poco dopo la fine della Prima guerra del Golfo, è uscito un piccolo libro. In copertina non cè il nome dellautrice, solo il titolo, Aftermath (qualcosa come i postumi o le conseguenze). Più in piccolo, sotto il titolo, Kuwait 1991. Cè un piccolo testo, e poi quasi solo immagini. Sophie Ristelhueber, lautrice, ha fotografato dallalto le tracce del conflitto sul deserto tra Irak e Kuwait. Da un aereo o in piedi sulla sabbia, ha diretto lobiettivo verso il terreno. Le trincee e le fortificazioni. Le tracce delle colonne sulla sabbia. Le carcasse dei carri armati. I crateri delle bombe. I pozzi in fiamme. I ghirigori di filo spinato. Le cortecce di bombe e missili. Gli accampamenti devastati. Nessuna presenza umana, solo i segni della guerra. Terribili, ma con una loro spietata bellezza.
Quella serie di foto è stata tra laltro esposta al MOMA di NY nel 1996 con il titolo Fait (Fatto) e alla Albright-Knox Art Gallery.
Sophie Riestelhueber, l’allestimento di Fait alla Albright-Knox Art Gallery.
Quella delle foto di Sophie Riestlhueber la conosciamo: è la bellezza di molta arte moderna. Linformale, lart brut. I segni che la Land Art lascia sul paesaggio, destinati a essere cancellati dallo scorrere del tempo. La poetica del rifiuto. La seduzione della violenza e della distruzione. Il fascino del quasi nulla e delleffimero. La purezza del segno, le ferite che lascia. Unestetica minimalista proiettata su dimensioni gigantesche. Il gesto esemplare, le tracce di un gigantesco e sconvolgente happening. La vertigine della catastrofe – ma raggelata, fissa, immobile. Forse unarte del post-umano, tecnologica, che al posto di penne e pennelli usa bulldozer e bombe, esplosivi e fuoco. Sono i dettagli che nessuno vede. Sono le cicatrici del tempo, del conflitto, della vita e della morte. Sono forse lultima traccia dellumanità che resterà quando noi non ci saremo. Sono frutto della storia, ma non raccontano una storia: si offrono al nostro sguardo come terribili oggetti di contemplazione.
Ci sono molti modi per reagire alla guerra. A questa guerra. Alla nuova guerra infinita e asimmetrica che sembra profilarsi allorizzonte della storia. Si possono fare molte cose: sul piano del pensiero e della consapevolezza personali, dellazione politica, del gesto estetico. Il cinismo e limpotenza. La tragedia e lironia. Lautoironia e lautocritica. La somatizzazione. Limpegno. Il sacrificio personale, limpegno. La lotta, occhio per occhio. La provocazione. La fuga nel trascendente o nellestetismo. Lazione diretta o il pensiero. Lurlo o il silenzio. Linformazione. La testimonianza.
Le nostre reazioni, come persone prima ancora che come intellettuali o come artisti, sono un misto di tutto questo. E cambiano, mentre cambiamo noi e il mondo che ci circonda.
Sophie Riestelhueber, Every One, Centraal Museum, Utrecht, 1993.
In questo ateatro continuiamo la documentazione e la riflessione su alcuni temi che hanno caratterizzato il nostro lavoro in questi anni.
Cè molto teatro di guerra, inevitabilmente. A cominciare da Terrorism dei fratelli Presnyakov (Londra) e da Highway Ulysses (a Boston), oltre al testo completo della lettera in cui Peter Sellars presenta il suo progetto per la prossima Biennale Teatro.
Intrecciata a questo tema, prosegue la riflessione sul mito che aveva trovato ampio spazio in ateatro 50: un contributo di Davide Enia, la Medea con Fiona Shaw…
Poi uno speciale Testori a dieci anni dalla morte dello scrittore lombardo, con una teatrografia e molto materiale darchivio.
E ancora le recensioni e unanteprima della mostra di Jan Fabre a Bergamo, Gaude Succurrere Vitae.
Per quanto riguarda la situazione delle istituzioni teatrali italiane, vale la pena di tenere docchio i forum. Sembra che non accada nulla, ma ci sono stati (e ci saranno) incontri e iniziative. Cercheremo di tenervi aggiornati.
Redazione_ateatro
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