Le recensioni di “ateatro”: Prometeo incatenato

di Eschilo, regia di Luca Ronconi

Pubblicato il 10/03/2003 / di / ateatro n. 050

Dopo il discusso debutto la scorsa estate al Teatro Greco di Siracusa, il Progetto Greci ideato da Luca Ronconi è approdato a Milano. Per lo meno, al Teatro Strehler è approdato il primo tassello della trilogia, il Prometeo incatenato di Eschilo. Il progetto – concepito unitariamente come una sorta di viaggio a ritroso che ha per tema l’eclissi del divino (ispirato, nelle parole dello stesso regista, dall’ultimo tassello, Le rane, «il motore di tutto»), nella sua versione invernale viene spalmato nell’arco di tre stagioni. Le Baccanti è annunciato per il 2003-04, il testo di Euripide – quello con i famigerati manifesti dei politici oggetto di una stucchevole polemica – per l’annata successiva.
In una stagione senza debutti di nuove produzioni ronconiane, dopo l’esplosione di produttività del regista nel 2002 (gennaio Quel che sapeva Maisie a Milano, marzo Infinities sempre a Milano, maggio Prometeo, Rane e Baccanti a Siracusa, luglio Amor nello specchio a Ferrara) e dopo una sequela di punzecchiature e polemiche di matrice soprattutto leghista, è il sintomo di uno stallo per il Piccolo Teatro. E diventa più difficile, per il pubblico milanese, cogliere il senso di un singolo spettacolo a prescindere dal progetto in cui è inserito.
Come in altre recenti esperienze ronconiane lo spettacolo – vista anche la staticità del testo – è costruito intorno a un segno forte, in una scenografia di forte effetto firmata dalla fida Margherita Palli: a occupare il palcoscenico è la gigantesca statua di un Titano morente, che sta accasciandosi al suolo (proprio sconfiggendo i Titani Zeus è riuscito a prendere il potere tra gli dei: grazie all’aiuto di Prometeo, che ora ha punito). E’ una scenografia fatta per stupire – anche con i voli dall’alto delle apparizioni divine di Oceano (Giovanni Crippa) ed Ermes (Riccardo Bini) e con la sorprendente fiammata che conclude questa tragedia sospesa (nel senso che fa parte di una trilogia di cui non ci sono pervenuti gli altri due tasselli).
E’ come se Ronconi avesse tentato di concentrare e restituire la forza del mito – per altri versi irrecuperabile – attraverso un gesto registico esemplare e stupefacente, dal fascino barocco. A questo gesto fanno da contrappunto da un lato il corposo e travolgente virtuosismo del protagonista, un Franco Branciaroli che resta per l’intera durata dello spettacolo – oltre un’ora e mezza – incatenato alla chioma del colosso, come incastonato nella pietra; e dall’altro, evocato dal coro delle Oceanine come irrinunciabile habitat, uno specchio d’acqua che occupa quasi per intero la scena.
Lo spettacolo è caratterizzato dalla consueta eleganza del Ronconi di questi anni, che sta conducendo, spettacolo dopo spettacolo, con evidente soddisfazione e convinto della sua necessità, uno straordinario lavoro che ricapitola decenni di riflessioni e invenzioni. Proprio Ronconi ha contribuito a discutere e ridefinire i limiti della forma teatrale, dall’Orlando al Laboratorio di Prato in giù). Ma ora non è più possibile compiere quei grandi gesti liberatori, reinventare cornici e grammatiche – anche se gli spazi di libertà e i mezzi tecnici ed economici sono diventati maggiori (come dimostra Infinities) e la critica riconosce il suo magistero.
Così gli ultimi spettacoli paiono nascere dal disincanto, da una quieta disillusione nei confronti della società italiana e della cultura che è in grado di esprimere. Non c’è mai rabbia, solo una vena di fonda malinconia dissimulata dall’attivismo e dissipata dalla lucidità dell’intelligenza, dal piacere dell’invenzione, dal gioco registico, dal godimento della riscoperta, dal gusto di macchine teatrali sempre più complesse e raffinate. E, ancora, l’impegno a misurarsi con il teatro e il suo repertorio, a costruire una compagnia (anche in quest’occasione compaiono Galatea Ranzi come Corifea e una generosissima Laura Marinoni a incarnare la follia e la sofferenza di Io.
Certo, a Ronconi dev’essere piaciuta la lucidità tutta politica con cui Eschilo radiografa i rapporti di potere tra gli dei, e l’implicita conclusione che i tiranni di oggi sono inevitabilmente destinati a cadere domani. Ma forse per lui il fascino segreto del testo sta soprattutto nella contrapposizione tra l’immobilità di Prometeo e la folle corsa di Io. Tanto le catene che bloccano l’azione dell’uno quanto il tafano che tormenta l’inquietudine dell’altra sono il frutto dell’odio di Zeus. Tra questi opposti coincidenti, tra una lucida, profetica impotenza e un attivismo senza scopo e senza ragione, c’è solo lo stupore impotente del coro.

Prometeo incatenato
di Eschilo
regia di Luca Ronconi, scene di Margherita Palli
Milano, Piccolo Teatro

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