La voce di Cassandra

Appunti sull'attualità del mito

Pubblicato il 10/03/2003 / di / ateatro n. 050

Una precedente versione di questo testo è apparsa sul “manifesto” nel 1995.

Cosa può significare, oggi, entrare in rapporto con il mito? Quali sentieri imboccare? Quali invece rischiano di rivelarsi vicoli ciechi?
Il confronto implica in primo luogo la scelta del mito come linguaggio: terreno comune alle diverse nazioni dell’Occidente, patrimonio con una riconoscibilità che supera le barriere linguistiche, campo in grado di attivare e incanalare energie psichiche, grammatica sulla quale costruire eventualmente una morale e un’ideologia. Insomma, il mito come forma di sapere pre-ideologico: un sapere costituito da un intreccio di narrazioni che attraversano il mondo, ne esplorano e delimitano le possibilità, e non un testo, un sistema unitario da sovrapporre al mondo.
Dunque, il mito non come testo che trasmette senso, ma piuttosto come gesto, come racconto da rendere vivo attraverso lo scambio, qui e ora, a tra narratore e ascoltatore. Una relazione tra attore e spettatore da rendere attuale agendo sulla scena. Da riscoprire magari attraverso il piacere della trama, dell’intreccio (questa riscoperta del racconto e della narratività – sfiorando però solo tangenzialmente il problema del mito – è la direzione di lavoro, per esempio, di Marco Baliani).
E’ evidente quanto, nell’epoca della crisi forse irreversibile delle ideologie e dei grandi sistemi di sapere, la prospettiva di un ritorno al mito possa affascinare, tanto da porsi come possibile alternativa, o via di fuga. Tuttavia un ritorno semplice e diretto al mito appare impraticabile. L’ingresso nella Storia, l’abbandono del tempo mitico è un evento irreversibile, apre una ferita che non è possibile rimarginare. Analogamente, la crisi novecentesca dei modelli narrativi può forse essere superata richiamandosi a un bisogno primario di forme narrative, che consegnino univocamente al lettore-ascoltatore il loro senso compiuto: ma sempre portando in sé la consapevolezza dello svuotamento della forma-romanzo e delle sue ambizioni totalizzanti (che si possono condensare nelle forme “romanzo-mondo” e “romanzo-destino”).
D’altro canto non va dimenticato che i grandi sistemi ideologici, che vogliono appunto contrapporsi al sapere mitico, tradiscono spesso strutture o fondamenti che con il mito hanno profonde affinità: dal millenarismo marxista all’identificazione Freud-Mosè, dall’uso della leggenda di Edipo in Totem e tabù al sottofondo apocalittico dell’opposizione Natura-Cultura in Lévi-Strauss.
La strada verso il mito è dunque necessariamente tortuosa e ricca di ambiguità. Se in una qualche forma testi, immagini e testimonianze legati al mito sono giunti fino a noi, tuttavia sono diventati opachi, oscuri, attraversati da crepe e fratture, doppi fondi e false piste (proprio intrecciando questa problematica a quella della ricerca di un’identità culturale nazionale, sovrapponendo e deflagrando distanza e presenza, è nata la grande poesia greca moderna, quella per esempio di Ritsos).
Aldilà di uno sterile neoclassicismo (con sottoprodotti di alessandrino snobismo) o di una pedagogia elementare, da sceneggiato televisivo, ogni lettura ingenua, immediata, “fedele all’originale”, è solo velleitaria. Per superare la distanza, è vero, c’è la strada in apparenza più semplice, quella dell’attualizzazione, che proietta volontaristicamente l’archetipo sul presente: e quindi lo restringe in chiave sociologica e psicologica, per adattarlo all’invadenza piccolo-borghese, con effetti di satira più o meno volontaria (e con risultati a volte godibilissimi: Savinio resta esemplare); oppure ne amplia la portata, sovrapponendolo alle tragedie della Storia (e dei moderni telegiornali). Nel primo caso si rischia di affondare nella psicologia, nelle pestifere sabbie mobili dell’introspezione. In dimensioni cioè estranee al mito (e rifiutate dalla consapevolezza postmoderna). Nel secondo, ci si scontra alla fine con l’incommensurabilità della Storia al Mito: per trovare perciò equilibri solo precari, episodici, dettati magari da un’autentica urgenza politica o civile, anche se a volte ricchi di suggestioni.
Una possibile alternativa, che spalanca notevoli margini di libertà, consiste nel ricercare la forza originaria del mito a livello pre-verbale, tornando perciò a una dimensione ancora più originaria rispetto al racconto: e dunque privilegiando il corpo (nella danza), o l’immagine (la pittura, ma anche il video), o la musica eccetera. Puntando, in tutti i casi, sulla presenza fisica, tangibile, di qualche elemento in grado di attivare nello spettatore una “immaginazione mitica”, spingendosi a volte nella direzione del rito e risalendo così alle origini del teatro.
Muovendo al contrario nella direzione del linguaggio e del testo, come è possibile confrontarsi con la forza del mito senza l’illusione di facili immediatezze, evitando scorciatoie e regressioni? Il punto di partenza, come accennato, può essere uno solo: il sospetto nei confronti del senso, della raccontabilità e dell’efficacia del mito. La lezione principale dei maestri della modernità (oltre a Nietzsche, solo tre nomi: Marx, Freud, Lévi-Strauss) è stata probabilmente quella di insegnarci a diffidare di qualsiasi testo, di qualsiasi racconto: per scavare nel rapporto struttura-sovrastruttura, in quello tra l’Io e l’inconscio, nelle strutture nascoste dei legami di parentela. Il rapporto con il mito implica dunque un continuo lavoro d’interpretazione, la costante ricerca del senso nascosto. E’ il procedimento seguito dalla “regia critica” (da Ronconi a Castri) nella sua esplorazione del sottotesto (o dei sottotesti), per portare alla luce il significato occulto, latente e più “vero”, che scorre al di sotto di quello esplicito.
La logica del processo interpretativo – portata alle estreme conseguenze – può però avere un unico sbocco: l’inarrestabile deriva del senso, una successione di continue interpretazioni e associazioni, di svelamenti e “ristrutturazioni”, alla ricerca di un significato ultimo essenzialmente inafferrabile (semplificando, è la prospettiva di Lacan e del decostruzionismo; oppure, procedendo a ritroso, verso un’origine magari inattingibile, quella di Heidegger e di certa ermeneutica).
A questa visione del mito come fonte inesauribile di significati, si contrappone tuttavia – almeno in apparenza – una considerazione empirica: il continuo ricorso, da parte della nostra civiltà, da duemila anni a questa parte, sostanzialmente allo stesso gruppo di miti, quello dell’antica Grecia. Come se il repertorio, almeno per quanto riguarda l’Occidente, si fosse esaurito e completato attraverso la commistione con i miti ebraico-cristiani (e in parte con quelli nordici). Da allora le aggiunte al corpus mitologico occidentale sono state rarissime: forse Amleto, certamente due eroi “cattolici” come Don Juan e Faust, e poco altro (il Mahabharata di Brook resta purtroppo un’eccezione dal fascino esotico). Come se per noi la grammatica essenziale della mitologia fosse quasi interamente contenuta nel corpus dei miti greci. Come se non esistessero nuove narrazioni mitiche, ci ritroviamo intrappolati, costretti a rinarrare sempre le stesse storie. L’aspetto meccanico, burattinesco dell’Agamennone. Una giostra di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, con quei costumi che imbozzolano e costringono i personaggi in figurazioni minerali o animali, alludono forse anche a questo: alla coazione, alla ripetizione nevrotica, alla rigidità di queste strutture mitiche.
Nonostante questo, il mito continua a mantenere la sua capacità di generare senso: non solo e non tanto grazie al processo d’interpretazione, ma anche e soprattutto attraverso un meccanismo di varianti e opposizioni binarie. Un mito, insegna Levi-Strauss, preso di per sé, non ha significato. Lo acquista solo in rapporto ad altri miti; o meglio, ad altre varianti dello stesso mito. Ogni nuova versione, operando spostamenti, inversioni e ribaltamenti di termini, proietta il proprio senso anche su tutte le interpretazioni precedenti, che al tempo stesso la rendono significante. Quella del mito è dunque una verità fragile, precaria, che vive nella tensione dell’esperienza e dello scambio, nella messinscena della propria differenza. Esemplare illustrazione di questo principio è il puntuale, violento, provocatorio ribaltamento/enfatizzazione degli elementi che compongono l’Orestea nello spettacolo della Raffaello Sanzio: il Coro dei vecchi di Argo che si rivela un gigantesco coniglio, il re Agamennone impersonato da un ragazzo down, le Erinni letteralmente incarnate da scimmie selvatiche… Un procedimento analogo lo seguono certe inversioni di Heiner Müller, ma fin dall’antichità il metodo è stato questo, in forme ugualmente spiazzanti, giocate sulla distanza tra l’attesa del pubblico e la sorpresa nell’inveramento del mito.
Come nel caso delle interpretazioni/analisi del mito, anche in questa prospettiva di opposizioni binarie e ricombinazioni dei suoi elementi costitutivi, viene da chiedersi se il numero delle possibili varianti è infinito, o se invece, a un certo punto, essendo limitato il numero di elementi significanti, le sequenze non finiscano inevitabilmente per ripetersi, come accade con le melodie musicali. Insomma, forse abbiamo esaurito, o stiamo esaurendo, anche questa possibilità combinatoria. Il metodo post-moderno di frammentazione, intersezione e ricomposizione delle sequenze narrative dei miti può essere una risposta a questa crisi.
In ogni caso, se il meccanismo di fondo è quello descritto da Lévi-Strauss, non sorprende che la narrazione – in qualunque forma – di un mito tenda a evocarne altre versioni, che si arricchiscono del confronto reciproco: se in apparenza si negano e si contrappongono, in realtà si sostengono e rafforzano a vicenda.
Ma il mito guarda al passato, non al futuro. E le sue autentiche profezie, come quelle di Cassandra – nelle sue moderne reincarnazioni come ai tempi dell’Iliade e dell’Orestea -, paiono destinate a restare inascoltate.

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