I capolavori dei dilettanti

In margine a una nota di Giovanni Raboni su Magris, Pasolini, Testori...

Pubblicato il 27/10/2002 / di / ateatro n. 010

Sono da qualche giorno in libreria due volumi di indiscutibile interesse per tutti coloro che sono interessati alla drammaturgia italiana contemporanea. Il primo è il Meridiano dedicato al Teatro di Pier Paolo Pasolini. Il secondo è il nuovo testo di Claudio Magris, La mostra.
Nel presentare i due libri sul “Corriere della Sera”, Giovanni Raboni ha offerto alcuni spunti di grande interesse, perché investono in pieno la questione del senso e della necessità del teatro oggi.
“Qualche giorno fa, a proposito della riproposta editoriale del teatro di Pasolini, osservavo che negli ultimi decenni l’unico contributo davvero vitale alla drammaturgia italiana è venuto dagli outsider, cioè da poeti e narratori (come Pasolini, appunto, o come Testori) che hanno affrontato e praticato il linguaggio teatrale con una sorta di geniale improvvisazione “dilettantesca” (…) Dopo aver letto La mostra, sarei tentato di rovesciare o, meglio, di rendere simmetrico il discorso: se la passione teatrale di alcuni grandi non-professionisti è stata una risorsa preziosa per un teatro altrimenti anemico o routinier, il teatro è – può essere – una risorsa preziosa per i grandi professionisti della parola non teatrale quando il caso o l’ispirazione li metta di fronte a una materia particolarmente densa o incandescente, una materia non del tutto riducibile, per una ragione o per l’altra, alla linearità di un racconto più o meno canonico o a una razionalità di tipo saggistico”.

Al di là del giudizio sui “routinier del teatro”, si tratta di un interessante spunto di riflessione, che meriterebbe approfondimenti e precisazioni.
Per esempio si potrebbe ricordare che sia Pasolini che Testori, ai loro esordi, si erano misurati con la forma teatrale (I Turcs tal Friùl per Pasolini e La morte e Caterina di Dio per Testori).
In secondo luogo, andrebbero esaminate e precisate, caso per caso, le motivazioni del passaggio (o del ritorno) alla forma drammaturgica, che sono assai diverse a seconda dei casi.
Questo passaggio (e più in generale il rapporto tra la scrittura per la scena e altre forme di scrittura) è del resto un problema centrale. Basti pensare agli slittamenti tra romanzi e testi teatrain in Beckett e in Genet. Nel primo caso da un certo punto di vista il teatro nasce forse da una sorta di semplificazione dell’universo romanzesco, dalla scelta di una forma e di un rapporto con il pubblico più “facili”; ma questo, trattandosi di Beckett, porterà alla fine a una ricerca d’assoluto ancora più radicale, proprio attraverso la forma teatrale, fino ad arrivare all’essenzialità lancinante delle ultime pièce. Nella drammaturgia di Genet vengono invece esaltati – fino all’esplosione barocca – gli aspetti di teatralità che nei romanzi erano invece piuttosto tematizzati (tra racconto e riflessione). In teatro si trovano invece oggettivati, e immediatamente messi in discussione, enfatizzati e moltiplicati in successivi giochi di specchi, e poi fatti nuovamente conflagrare con la realtà politica, dal Balcone ai Negri (e nel caso di Genet andrebbe anche esaminato il problema dell’abbandono della scrittura sia teatrale sia narrativa).
Solo per fare un paio d’esempi italiani, la questione che riguarda anche Mario Luzi, dove invece il trampolino versi il teatro è forse il moltiplicarsi dell’io lirico in diverse voci – in un paesaggio di voci – e insieme la necessità di una riflessione di carattere più articolatamente filosofico; e lo stesso Raboni, che nel suo debutto drammaturgico, con Rappresentazione della Croce, riprende di fatto molte suggestioni della sua prima raccolta, Gesta Romanorum, per dar loro una diversa oggettività; o ancora Raffaele Baldini, dove il teatro sembra la naturale destinazione dei “personaggi poetici” che prendono la parola nelle sue poesie.
Questi sono alcuni esempi, suggestioni sommarie e certo discutibili, ma citate solo per ribadire che questo slittamento rappresenta uno snodo centrale per comprendere che cosa possa significare oggi “teatro”, e da quali fonti possa trarre linfa vitale la dimensione teatrale oggi.
Due elementi possono essere confortanti e ricchi di implicazioni. Da un lato è interessante che la scrittura per il teatro abbia offerto e continui a offrire uno spazio di autenticità e libertà a chi scrive, e che la drammaturgia si riveli dunque una pratica necessaria per molti scrittori; e dall’altro (qualunque cosa si pensi della teatralità come dimensione antropologicamente originaria) questa esigeza di teatro sembra rispondere di volta in volta a necessità diverse, e profondamente legate alla poetica e alla parabola artistica di chi sceglie questa forma espressiva e questa modalità di comunicazione.

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