Bit bit hurrah!

Villette numerique, Parigi 24-29 settembre 2002

Pubblicato il 06/10/2002 / di / ateatro n. 043

Inaugurato all’insegna del molto popolare Villette numerique, prima edizione di un Festival biennale dedicato alle arti digitali diretto da Frédéric Mazelly, ha invaso ed elettrificato per sei giorni, dal 24 al 29 settembre la città di Parigi e nello specifico il Parc de la Villette. Sotto l’alto patrocinio (e il sostegno economico) di France Telecom, Ministero della cultura e della comunicazione, Regione de l’Ile de France, il Festival ha richiamato il grande pubblico grazie anche alla presenza di eventi musicali di rilievo quali il concerto dei Kraftwerk, pionieri della musica elettronica e quello dei GRM experience. Per quanto ben lontano dal traguardo dei trentamila visitatori previsti, forse un po’ troppo ottimistamente, Villette numerique, la cui apertura era stata criticata da Didier Fusellier, direttore del Festival Exit della Maison des arts di Créteil, ha effettivamente catalizzato l’attenzione generale dell’intera città.
Dislocato tra la Cité des sciences et de l’industrie, la Grande Halle e la Cité de la musique, il Festival prevedeva un numero altissimo di eventi, performance, spettacoli tecnologici, installazioni video e sonore interattive, proiezioni e incontri sul cinema digitale e sul film d’animazione (con finestre sui vari Festival: Imagina, Film d’animation d’Annecy, Acm-Siggraph), ed infine workshop (tra cui quello su danza e tecnologia a cura di Armando Menicacci di Mediadanse, Paris VIII). Un’importante sezione era dedicata agli approfondimenti teorici, chiamata Medialounge ideata, organizzata e coordinata dall’associazione Anomos, che ha messo nel carnet degli appuntamenti, incontri con ricercatori, critici ed artisti. Gli atti del convegno verranno pubblicati nella rivista „Anomalie“, organismo divulgativo su arte e media “generato“ da Anomos.
Villette numerique annoverava, inoltre, (e si trattava dell’area di gran lunga più frequentata) una sezione dedicata ai giochi intitolata (non a caso) Playtime, e Nuits électro, dj set che si protraevano per buona parte della notte. Collegato al Festival anche un concorso internazionale di net-art vinto da http://akuvido.de/www/; http://www.inbarnarak.com/ruthron/volume e http://www.flyongpuppet.com/shocl/oneday.htm.
Segnaliamo, inoltre, www.lecielestbleu.com di Jacques Birge (sito di giochi interattivi: tra questi lo zoo sperimentale, dove è possibile spostare e far ruotare pezzi di un cavallo e dare vita a un animale mutoide); e soprattutto Guerriglia news network dei GNN: si tratta del sito creato dai veterani di Mtv sulla falsariga del sito delle news della CNN, con détournement delle immagini televisive fatto da artisti hip hop americani e montati secondo le tecniche di scratch video dei Guerrilla tapes.
Prima edizione di un Festival non particolarmente entusiasmante Villette numerique segue altri tentativi di manifestazioni votate alla creazione elettronica e digitale (Global tekno, 1998; Mix move, 2001). Lontano dal proporsi, come invece la stampa locale titolava, quale versione francese di Ars electronica (la manifestazione legata alle arti video di Linz), questo Festival è, comunque, un primo coraggioso tentativo di proporre, riunificandole, le arti della (nuova) visione (e del nuovo ascolto) digitale in un contesto finalmente aperto al grande pubblico e non soltanto a quello degli “addetti ai lavori“.

La sezione DIGIT@ART, collocata alla Cité de la Science, relativa alle installazioni interattive, è stata realizzata grazie al sostegno e alla collaborazione dell’Università Paris VIII (in particolare il Laboratoire Mediadanse, il CICM Centre de recerche en informatique et création musicale, il CIREN Centre interdisciplinaire de recerche sur l’esthétique numérique, Università Paris I, e numerose Scuole e Accademie di Belle Arti (tra cui l’Ecole Nationale Supérieure des Arts décoratifs, l’ARI-Atelier de recherches interactives, Paris VII; KHM-Accademia di arti e media di Colonia).
Il direttore artistico della sezione, Jean-Louis Boisser, docente all’università di Paris VIII, ha selezionato opere che esploravano i temi del gioco, dell’estetica della relazione e della variabilità.
La visione era purtroppo sacrificata a causa dello spazio ristretto e dell’affollamento generale (siamo dentro un Museo della scienza frequentatissimo dai bambini…).
Tra le opere interattive esposte da segnalare Morphoscopie du transitoire di Tania Ruiz che rende concreta e visiva la temporalità intesa come sequenza, come stratificazione di momenti, dell’immagine video; J’efface votre trace di Du Zhenjun, sorella minore di Coro di Studio azzurro. Si entra in uno spazio rettangolare di metri 3 x 9 nel cui tappeto sono proiettati corpi nudi che, grazie a sensori collocati a terra, si “accorgono“ della nostra presenza e non appena proviamo a percorrere questo spazio, iniziano a pulire le nostre tracce, lavando e strofinando il pavimento. L’installazione Newyorkexitnewyork di Priam Givord e Martin Lenclos ci trasporta, invece, dentro le intricate maglie della città di New York, la cui immagine è proiettata su un grande schermo 3D. La visita virtuale, effettuata grazie a un joystick, diventa l’esperienza visiva e sonora di un paesaggio urbano visto da una macchina in corsa dalla quale è possibile effettuare liberamente mille deviazioni dalla strada principale.
 

La sezione SPECTACLES prevedeva uno spettacolo di teatro (Calderon da Pasolini, di Jean.Marc Musial), due di danza (Blue provisoire– Yann Marussich e D.A.V.E. di Klaus Obermaier e Chris Haring) e un’opera lirica digitale (Comme cela vous chante, Equipe Image numérique e Réalité virtuelle, Paris, VII).
 

L’inserimento di una pièce teatrale nella kermesse degli eventi complessivi, ci è sembrato più un dovere che non una scelta realmente meditata. Questo Calderon non era, infatti, a nostro avviso, rappresentativo del panorama attuale del teatro tecnologico né francese, né internazionale. Si trattava di un’affastellarsi di schemi, monitor impilati che riempivano la scena come disturbante “moltiplicatore di sguardi“, omaggio ad una contemporaneità già datata, e producevano come unico effetto, da una parte un fastidioso horror vacui e dall’altro un intollerabile bombardamento retinico. Immagini tratte dai documentari televisivi sulla guerra di Spagna, sulla Spagna post franchista e su Pasolini, passavano sui monitor, mentre a ricordare che si è sempre “dentro una cornice,“ campeggiava, da ispirazione pasoliniana, il quadro di Velasquez Las meninas in cui l’osservatore è incluso nell’opera grazie allo sguardo del pittore che si autorappresentava, rompendo l’illusione dell’arte. Un operatore con una Betacam riprendeva in diretta i personaggi di questo tableau vivant scenico vestiti o alla moda della Spagna del 600 o da reduci della Prima Guerra mondiale, proiettando in diretta parti del loro corpo su un grande schermo, citazione forse di quel capolavoro di teatro tecnologico che è Il mercante di Venezia di Peter Sellars dove ogni personaggio era esplorato attraverso la duplicità della sua maschera sezionata in corpo reale e immagine televisiva, a svelare il potere mistificante del media.
In questa sezione ci saremmo aspettati piuttosto Jean-François Peyret, autore di un interessante progetto sulle Metamorfosi o Jean-Lambert Wild, regista di un’ Orgia tecnologica “pasoliniana“ di cui avevamo dato notizia sui numeri scorsi di ateatro; spettacoli acclamati dalla critica che avrebbero potuto raggiungere in occasione di una manifestazione come Villette numerique, un pubblico che normalmente non frequenta i teatri (tantomeno un Teatro nazionale come il Théâtre de la Colline dove lo spettacolo di Wild era andato in scena lo scorso febbraio) e avrebbero offerto l’opportunità (anche a noi stranieri) di vedere spettacoli tecnologici di rilievo che, a causa degli alti costi e della difficoltà delle sale ad accogliere questo genere “ibrido“ del teatro di ricerca, spesso nascono e muoiono in un brevissimo arco di tempo.
 
D.A.V.E. (Digital amplified video engine)
Klaus Obermaier e Chris Haring
 

fptp Marianne Weiss.
 
Geniale spettacolo di danza ideato dai due artisti austriaci Obermaier (creatore delle musiche e delle immagini video) e Haring (danzatore e coreografo) sul tema dell’ibridazione, clonazione, manipolazione del corpo umano in epoca di riproducibilità biotecnologica. Si tratta di citazioni e di un’ironica presa in giro di tutte le modalità con cui la letteratura e il cinema (da quella classica a quella di science fiction cyberpunk, al genere splatter) ma anche la storia dell’arte hanno raccontato le mutazioni e relative ossessioni di decostruzione (che diventa in questo caso “malleabilità“ e “intercambiabilità“) dell’identità: dalla Metamorfosi di Kafka al Neuromante di Gibson, da Videodrome di Cronemberg a The mask).
In effetti proprio queste stratificazioni di immagini video, proiettate direttamente sul corpo (quasi “innestate”, con una precisione di movimenti da parte del performer che raggiunge la perfezione), che apportano membra, occhi e bocche e lo deformano all’estremo senza però intaccarlo, rendono virtualmente (che in questo caso equivale a un “magicamente“) il corpo figura mitologica: metà uomo e metà animale, metà donna e metà uomo, ma anche metà uomo e metà macchina, metà uomo e metà “cosa“, forma indefinita che fuoriesce da un ammasso di pietra (come i Prigioni di Michelangelo).
La nuova carne proposta nello spettacolo è parente stretta del cyborg di Donna Haraway, dei post umani di Sterling ne La matrice spezzata, ma soprattutto di quella carne macellata con cui Deleuze definiva le figure umane di Bacon. Come i quadri di Bacon, infatti, creati a partire dalle “fotografie in movimento“ di Muybridge, che dànno l’impressione di aderire ad un principio “cinematografico,, della visione, implosi nel loro urlo fossilizzato nella tela che incrudelisce la carne e che equivale alla vita in ciò che essa ha di irrappresentabile, così lo spettacolo restituisce un corpo che negando le regole di equilibrio e di armonia, è letteralmente scorticato, stritolato, meccanizzato e ossimoricamente in movimento e in stasi, in rotazione e nella sua fissa frontalità. Per un momento lo spettatore rimane spiazzato: non trovando più davanti ai suoi occhi il corpo, pensa che questo sia stato ingoiato dall’immagine, divorato e poi vomitato in forma allucinata. Il dubbio è se quello che sta vedendo in scena sia un ologramma o un essere umano in carne ed ossa. Mutazione come seconda natura, come una sorta di “felice“ alienazione dell’uomo nella sfera bio-tecnologica, passaggio indolore ad una nuova realtà, a una nuova “artificialità naturale“. “Il video fa parte del corpo“ -ricordano nella nota di sala gli autori- “o meglio, il danzatore fa parte del video“.
 
360
Granular Synthesis
 

Spettacolare la struttura concepita per 360°, opera installattiva ideata dal duo austriaco Granular synthesis, artisti legati soprattutto alla creazione video e alla sperimentazione musicale elettroacustica: un’architettura circolare avvolge il pubblico con 16 schermi monumentali; l’impressione è quella di entrare in un’arena o in un enorme gasometro o in un’improbabile cattedrale, all’interno della quale ci si immerge collettivamente (e sgomitando…) in un universo fatto di luci flashanti, intermittenti, di immagini che non riescono a prendere forma e rimangono “neve“, schermo senza segnale, e di sonorità fatte di risonanze e riverberi. Il ritmo è quello cardiaco, sistolico e diastolico. Le forme e le luci sembrano generate direttamente dai decibel. Tutt’altro che esperienza rilassante, casomai incubo, 360° ci porta in un’interiorità angosciante; è l’esperienza di un “dentro“: circuito, chip, bad sector, cervello. E la linea continua di luce che percorre gli schermi blu è un laser, un televisore dal tubo catodico rotto, un encefalogramma piatto, con alterazioni elettriche in corso (campi magnetici, scariche metereologiche o elettroshock?). L’impressione visiva e sonora è quella di abitare in un ambiente che ha definitivamente eliminato la differenza tra organismo, natura e macchina in una sorta di somiglianza “elettrica“ tra l’attività cerebrale, fenomeni perturbativi ed elaborazione digitale. Mi viene in mente la prima frase del Neuromante di William Gibson: “Il cielo aveva i colori di un televisore sintonizzato su un canale morto“.
 
Full play: a media dance project
E-101. Ideazione: Paolo Atzori Anthony Moore, Robert O’Kane.
Coreografia e performance: Bud Blumenthal.
Co-produzione: Sk Stiftung Kultur, Colonia.
Contatti: info:@art2b.net
 

Otto schermi di grandi dimensioni situati all’ingresso della Grande Halle delimitano lo spazio deputato per gli spettatori. Una pedana centrale rialzata è il luogo dove agisce il danzatore che è anche operatore-manovratore delle immagini e del suono. Il corpo in movimento, infatti, rilevato da sensori collocati a terra e da un sistema di motion capture e motion tracking, controlla sia il suono (potendo effettuare variazioni su 4 accordi di tre note ciascuno) che le immagini (preregistrate: il performer stabilisce con la sua danza, sequenza e velocità). La danza circolare porta all’interiorità e alla memoria: una casa, un giardino, dettagli di oggetti. E’ un indagine introspettiva, il cerchio è il suo mondo. La narrazione è fatta di immagini e di suoni già preesistenti nell’hardware (ovvero, nella coscienza) a cui basta un gesto per farli “venire alla luce“. Se con il corpo, attraverso le direzioni, le diagonali, la velocità del movimento, ma anche attraverso il calore, il performer può generare armonie e fermi immagine, sequenze e accelerazioni, le immagini restituiscono il tempo della memoria, il passato, il rewind, insomma; lo stesso zoom, controllato anch’esso dal danzatore, sembra rispondere a un principio di affettività: fa affiorare una traccia mnesica. Le tecnologie sembrano simulare processi mentali. In fondo la storia, la memoria o come noi ricostruiamo una storia a memoria è una questione di recombination, di selezione, di montaggio, a cui i nostri desideri qui e ora danno un ordine (e un senso) sempre diversi.
Difficoltà tecniche hanno purtroppo menomato la performance di alcune parti, ma il ballerino ha intelligentemente compensato tale mancanza con una spiegazione pubblica sulle tecnologie digitali e sui sistemi impiegati per la creazione dello spettacolo.
Perché in effetti, nella generale (e per certi aspetti incomprensibile) volontà di nascondere a tutti i costi le tecnologie o di non palesarle, il pubblico che assiste a queste performance, ne comprende solo in minima parte il funzionamento e l’interattività diventa davvero soltanto una “questione privata“ tra il performer e il suo sensore.
 
Approfittiamo della nostra presenza a Villette numerique per incontrare Richard Castelli, direttore di Epidemic. Castelli ci spiega che Epidemic è un’importante struttura di progettazione, produzione, promozione e distribuzione di opere legate alla multimedialità, (video, film o performance live). Per Villette numerique Epidemic ha proposto 360, l’installazione ideata da Granular synthesis per lo spazio della Grande Halles. Questi alcuni degli artisti che fanno parte della “scuderia“ Epidemic: i giapponesi Dumb Type e Saburo Teshigawara, i francesi Art Zoyd, i canadesi Robert Lepage e La La La human steps (che saranno presenti al Festival RomaEuropa a fine ottobre). Totalmente assenti, invece, artisti italiani.
Castelli ci illustra brevemente la filosofia di Epidemic e le modalità organizzative e di intervento: Epidemic ha una struttura molto leggera, non ha una sede fisica, a differenza del CICV (il Centro di Creazione video Pierre Schaffeur con sede a Montbéliard-Belfort, nel castello Peugeot di Hérimoncourt; vedi www.cicv.fr), esiste in rete al sito www.epidemic.net.
Il compito principale è quello di lavorare su progetti multimediali che possono proposti dall’artista oppure ideati e formulati direttamente dalla stessa Epidemic: “Non c’è una regola, non c’è un metodo predefinito, dipende dalle diverse esigenze, dai diversi artisti“. Ma, come tiene a precisare Castelli, quello che è importante è il contenuto artistico del progetto, il quale una volta definito, deve essere seguito in tutte le fasi del suo processo. Epidemic studia il piano complessivo del progetto, individua i possibili e più adatti partner, sia essi istituzioni pubbliche, centri artistici, festival, o industrie interessate a finanziarlo interamente o a coprodurlo. Epidemic sulla base della tipologia del progetto, inoltre, ipotizza le collaborazioni: “connette” letteralmente artisti di nazionalità diverse, non secondo un procedimento casuale di melting pot, tiene a precisare Castelli, ma di profonda comprensione delle possibile affinità e sintonie tra i diversi artisti e rispettivi ambiti ed estetiche.
Il regista teatrale e cinematografico Robert Lepage ha affidato a Castelli, per esempio, il compito di creare il casting per Zulu time, il cabaret tecnologico inaugurato lo scorso anno consistente in danze, acrobazie, proiezioni sui vari livelli di un’enorme arco di trionfo metallico (vedi www.exmachina.qc.ca).
La filosofia di Epidemic e la rete di collaborazione tra artisti è bene esemplificata dallo schema che si può trovare in rete al sito ufficiale, insieme con schede biografiche degli artisti e schede tecniche dei progetti già realizzati e quelli in corso di realizzazione.

Anna_Maria_Monteverdi




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