Questa non è una prima

Appunti di una guardatrice di Marco Paolini su Storia di plastica

Pubblicato il 02/08/2002 / di / ateatro n. 039

Sono una fedele guardatrice di Marco Paolini. Quando si lascia vedere.
Dopo le ‘prove generali’ di Ustica a Bagnacavallo (non è il titolo teatrale, ma basta a capirsi), l’’assenza. Certo se fossi stata attenta e disponibile avrei raggiunto qualche oratorio di provincia, dico Pezzoli per dire una parrocchia di quelle che lui ha frequentato, per seguire la scia. Quella di Appunti Foresti, de I cani del gas, altri titoli spuri che volevano dire, appunto, lo strascico pulviscolare di cose già viste, già fatte, già godute.
Ammetto di non aver inseguito questa scia: anche la fedeltà qualche volta ha bisogno di pause di riflessione. E dopo l’Ustica di Bagnacavallo, avevo davvero bisogno di una tregua. Perché non mi era piaciuta, l’’avevo trovata una cosa fatta in fretta, nonostante Del Giudice che è un bravo scrittore (forse non di teatro), nonostante Giovanna Marini che appartiene ai cult della mia educazione politica e sentimentale (ma in Ustica c’’entrava come i cavoli a merenda, forse per qualche strambezza di Bologna 2000).
Ed ecco che Mira, cioè la Provincia di Venezia, cioè Arteven e La Piccionaia, ci regalano una rentreè del nostro, con l’’atteso titolo di Parlamento Chimico-Storie di Plastica, cioè Marghera, il Processo Eni-Montedison. Cioè il ‘nuovo lavoro’ per cui si è sottratto al pubblico e si è rintanato in laboratorio.
 
La prima cosa che va detta è proprio questa.
Paolini è tornato indietro.
Negli anni del trionfo televisivo (un attore arriva in TV, quindi esiste), del Vajont per le masse e poi del Milione, in diretta dall’’Arsenale della Serenissima, e poi di Fondamenta lui e Patty Smith da Piazza S. Marco, e poi del Bestiario, veneto e italiano, in tourneè per la penisola e persino sull’altra sponda veneziana dell’’Adriatico (in Istria), non sono stata la sola a domandarmi come avrebbe reagito Paolini al successo. Lo travolgerà, lo cambierà, lo rovinerà?
Già.
Il successo di pubblico, questa ineluttabile meta dell’’attore, di tutti coloro che comunicano, che vogliono (per usare le sue parole) essere un ponte. Se ti manca l’’altra sponda che razza di ponte potrai mai essere?! Ma quando ce l’’hai sei costretto ad adattartici? E l’’altra sponda, qui ed ora, è solo quella televisiva?
E quando sulla riva, improvvisamente e forse inattesa, si manifesta una folla, quali potranno essere le reazioni di chi era stato a lungo a lavorare da solo, o quasi da solo, con piccoli pubblici eletti o marginali?
Come reagisce l’’attore al suo successo?
Una delle due domande cruciali del mondo dello spettacolo, intimamente legata a quella sulla ‘economicità della cultura’: è il mercato che fa il valore? E senza i soldi è possibile produrre cultura? E fare l’’attore è un lavoro come un altro? Che si fa per campare?
 
Ma, qui, mi pongo la domanda dal punto di vista del singolo, dell’’artista, del ponte.
E una risposta, bella e forte, viene dal ritorno a Mira di Paolini, figlio adottivo di questa Riviera. Non è vero quello che scrivono i cronisti, che Marco è artisticamente figlio di Mira: per quel pochissimo che capisco del teatro italiano contemporaneo lo vedo figlio di Settimo Torinese, indelebilmente. Lo so. Qui ci gioca parte del mio humus: preferisco riconoscergli delle radici piemontesi, torinesi, vicino a dove stanno le mie. Eppure, dai, oggettivamente ci sono più Vacis e più Curino in Paolini di quanto non ci siano Bettin e Meneghello. Se parliamo di teatro.
Mira, la Riviera, il Veneto sono stati i luoghi del successo (c’’entra col Nordest?!).
In ogni caso, la risposta (alla questione del successo) mi piace e non mi importa affatto che sia criticabile: se piace a me e a lui e quanto mi basta, come spettatore che sta sulla riva opposta e ha tanto bisogno che le si comunichi qualcosa di non omologato e di non televisivo.
Paolini è tornato indietro dal suo successo.
Bravo.
Non so se l’’abbia snobbato, se sia stato così montanaro da saperlo schivare, così egocentrico e chiuso (come spesso sono gli attori) da non poterlo accettare, così rigoroso dall’’evitare le sue lusinghe, così furbo da prevedere che non sarebbe durato, così conoscitore di sé stesso da sapere che non ne avrebbe gradito tutti i compromessi, così umano da aver seguito l’’istinto che, ad una certa età, è molto incrostato di ragionamenti.
Tant’’è.
Il Paolini di stasera, qui, al parco di Villa dei Leoni non è quello delle dirette televisive, non è il mattatore di Vajont, non l’istrione di Milione, né il professionista di Bestiario. E’’ meno di tutto questo, teatralmente molto meno.
Ma non è neppure il replicante delle varie serate di Appunti Foresti (Villa Pisani Strà, Estate 1999) o di Ustica (Bagnacavallo, estate 2000).
Uno che ha avuto il coraggio (o la dignità della paura?) di fare un passo indietro.
Nel male e nel bene.
 
Il secondo punto è la sua (ritrovata) maniera di lavorare in pubblico. Quella che i cronisti chiamano work-in-progress.
Naturalmente, chi fa così, ha tutto il mestiere necessario per accattivarsi i presenti: il Parlamento Chimico viene presentato insistentemente come un dubbio: ma come faccio a raccontarvi questa storia, di plastica? Non c’’è un evento, una catastrofe, come nel Vajont: Marghera non è scoppiata, sarebbe più facile. Quando c’’è stato il terremoto in Friuli, tutti dai cai della terraferma (Sile, Brenta, Dese, Piave, Adige) sono usciti in strada pensando che la terra tremava perché il petrolchimico era (finalmente) saltato in aria. Finalmente nell’’accezione dialettale: alla fin fine, in buona sostanza, andando alla vera essenza delle cose.
Ma non è così e teatralmente è difficile rappresentare una tragedia annunciata ma, contrariamente al Vajont, non avvenuta.
Invece, dice il ponte all’’altra sponda, c’’è una tragedia lo stesso ma è latente.
E’’ il tumore degli operai.
E’ tragedia annunciabile ma incerta è anche il processo non ha fatto chiarezza, ha lasciato ragionevoli dubbi: ha semmai sancito l’’impossibilità di avere certezze, di riconoscere l’’esplosione.
Difficile fare un lavoro teatrale su questo. Difficile anche per gente di mestiere come Francesco Niccolini e Marco Paolini.
 
E, qui, l’’ostinazione dell’’attore va a saggiare la disponibilità del suo pubblico mirese e veneziano: prima all’’Aurora di Marghera e da oggi in poi chissà in quanti oratori e dopolavori e teatrini e piazze e camere chiuse e teatri di sperimentazione. Io, ci sta dicendo, ho deciso che questa storia la voglio raccontare e voi, cosa ne pensate?
Ci state?
Esattamente come aveva cominciato con la storia di Tina Merlin: un altro pugno nello stomaco che evidentemente è il suo modo di procedere, quello che gli si attaglia e che non è disposto a lasciare. Neppure per le sirene del successo.
Mi pare una scelta più fisica che politica.
Voglio dire che forse la Rai e i teatri stanno cambiando padroni ma non mi pare questa la pulsione dominante a cambiare strada. Non direi che si tratta di buon viso a cattivo gioco: torno alle origini tanto il mercato mi si sarebbe chiuso lo stesso.
Credo sia qualcosa di ‘molto molto personale’ e apprezzo che esistano ancora scelte dettate da questa natura di motivazioni, a prescindere dalle valutazioni artistiche.
 
Dal punto di vista dello spettacolo, del coinvolgimento e, infine, del teatro siamo di fronte a qualcosa di estremamente manchevole.
E’’ discutibile che un attore (un professionista della comunicazione) scelga il pubblico, e quello a pagamento in particolare, come collaboratore nella confezione del suo ‘prodotto’. Un conto poi è se il semilavorato è già compiutamente teatrale (una prova generale, prove aperte, una jam session di pezzi già noti) come accadeva nel Festival della Ville, in barena, con l’Orto di Meneghello o con gli spezzoni che confluivano nelle varie versioni del Bestiario.
Stasera a Mira, le Storie di Plastica sono ancora, assolutamente, materiale raccolto, alla ricerca di un filo narrativo e soprattutto di una struttura spettacolare, rappresentativa che le riordini. Riconosco anche il lavoro di Francesco Niccolini (certe ironie del testo e qualche allusione di raccordo) mentre è difficilissimo vedere l’’impronta di una regia che non sia qualche piccolissimo trucco di bottega (le spalle al pubblico, il salto dal palcoscenico, inezie).
L’’attore non recita, non dice e nemmeno racconta come sa fare Paolini quando lo spettacolo è pronto: espone. Ci propone dei materiali, ovviamente selezionati e non casuali, nei quali, solo dopo 3 ore di paziente e impegnato ascolto, possiamo vedere una ipotesi di lettura, nemmeno ancora di rappresentazione.
La proposta interpretativa non mi spiace e credo che sia drammaturgica: non c’’è colpo di scena in questa Storia, è una violenza latente che deve apparire per contraddizioni raffinate, per una esposizione contrapposta di fatti, il cui esito non è deflagrante e conclamato ma lasciato alla coscienza, ad un giudizio che esula dai fatti.
Tutta un’’altra storia rispetto al Vajont. E tutta un’’altra materia teatrale.
Molto più difficile (come ve la racconto??, chiede appunto l’’attore) anche perché recente, aperta, ancora latente. Senza monumento alla memoria: la diga che sopravvive agli uomini.
E su questo punto le descrizioni del paesaggio petrolchimico sono sicuramente un abbozzo poco sviluppato nel testo, ancora privo di quella teatralità che in Bestiario, nell’Orto e anche nel Milione è stato magistralmente perfezionato.
La prima parte del Parlamento Chimico, perciò, sarebbe la più facile da ‘rendere spettacolo teatrale’, mettendo a frutto le precedenti esperienze paoliniane, e con lui di Niccolini e di Vacis.
Penso alle perfette descrizioni del Nordest, la galassia Benetton, la Campagna e i porti d’oriente del Milione, l’’Alto Vicentino di Meneghello, il Friuli di Tavan, la BarbaZucon Town di Zanzotto, la Mestre di Calzavara…..la fila di scarpe da donna con una pentola dove bolle sapone della Riviera del Brenta, le villette e i capannoni, i tavernicoli….
La prima parte, perciò, è quella che rende più perplessi, talvolta annoia, sembra superflua: un avvicinamento troppo lungo al cuore della Storia e un arrivarci per strade già battute, ma ripercorrendole sottotono, senza voler utilizzare lo strumentario teatrale, rodato dai precedenti spettacoli.
Volpi di Misurata e Cini, la Laguna e le sue salsedole (salsola soda), la soda e il cloro, le mamme di Marghera, i contadini dei cai che diventano operai chimici, canali e interramenti: i richiami agli altri lavori di Paolini sono frequenti senza che lui ci regali, neanche per un momento, la passione e la maestria di cui è capace.
Sembra che lo faccia apposta, ad essere avaro di teatro, di recitazione, di sé.
Antipatico: del resto l’’ha detto subito non è la prima, io non faccio più prime e comunque decido io, ormai sono un ex, la prima potrebbe essere anche l’’ultima.
Come dire: sto lavorando, non pensate di essere qui per divertirvi.
Infatti.
Per chi lo conosce è chiaro che saranno sviluppati gli elementi teatrali: è nata prima la sirena o la mamma di Marghera? Moreeeeee, vieeen casaaaaaa.
Ma non qui e non ora. Non è una prima.
 
Poi, dopo quaranta minuti di pazienza entriamo nel vivo del tema e cominciano ad emergere i modi teatrali con cui, in via sperimentale, la Storia potrà essere messa in scena: una versione alla Calvino della rivoluzione plastica, ancora molto da limare e teatralizzare (una questione di testo attorno agli spunti che per ora si lasciano solo intuire), e un paesaggio antropologico della Laguna Mondo che sicuramente dovrebbe dare più spazio ai personaggi locali: operai, mamme, famiglie, fabbrica.
La famiglia è basata sulla fatica, per il bene e il futuro dei figli. Ma perché ci davano da mangiare la cervella!!?
Da notare che non scatta mai un applauso e l’’unico timidissimo tentativo è ad una delle rarissime battute con cui ci viene concesso un allentamento dell’’impegno (cloro al clero, ma il clero non ha voluto collaborare allo smaltimento dei rifiuti di produzione della soda).
E’ come se fossimo in un’’aula: l’’attore è un insegnante che fatica a trascinare la classe, rischia di annoiarla. Il teatro come formazione permanente.
Ci sono diversi incisi lungo una esposizione dei fatti pignola e impegnativa, ma l’’attore non vuole fare nulla per alleggerirci l’’ascolto: lesina le digressioni sceniche, ci regala pochissimo umorismo, non ci concede né dialoghi dialettali, né confidenza con i personaggi, né citazioni poetiche a parte un Marinetti preso a prestito dal Milione. Penso che sarebbe un’’ottima occasione per usare Monteleone ma so che lui non lo ama, peccato.
Non divaga l’’attore, e non ci svaga.
Del resto sta lavorando. E noi con lui.
E la questione è sul palco (mentre l’’attore sta giù, ponte che si avvicina alla sponda del pubblico), ingombrante come un campo da calcio: la scrittura per il teatro.
Di questo (anche di questo, oltre che del ruolo dell’’attore) si occupa Paolini, si occupa Niccolini (e altri). Qualcuno usa l’’orribile crasi autattore: l’’attore che è anche autore dei propri testi, vuole esserlo o si sente costretto ad esserlo, decidendo che i testi classici o quelli contemporanei scritti da altri non fanno per lui o per lei, gli stanno stretti, come si dice. In questo brutto neologismo si vede anche la presunzione dell’’attore: l’autarchia di chi pretende che, per esprimersi, non ci siano scritture adatte. Ma, se vogliamo vedere il lato positivo e non la componente divistica senza la quale non esisterebbero attori e spettacoli, dobbiamo convenire che c’è bisogno di un teatro contemporaneo nei contenuti, nei testi, nei temi che porta in scena: c’’è bisogno di qualcuno che lo scriva.
Ed è questo, piuttosto che i modi della recitazione, i canoni della scena, che interessa Paolini: forse è la sua caratteristica più intrinseca, più distintiva.
In questo senso niente di meglio che una storia del capitalismo italiano, della nostra epoca industrialista, del paesaggio nordestino rivoluzionato, dell’’approdo tardivo alla questione della salute: persone e paesaggio insieme, una tematica a cui Paolini ci ha introdotti e abituati. E in questa storia niente di più emblematico di Marghera, almeno per il Nordest. Storia tutta da scrivere per il teatro.
Teatro civile o semplicemente teatro: linguaggio e ponte per comunicare la storia, per ricordare, per narrare. Per paesaggire.
 
Senza pause e senza cambio di registro approdiamo a quella che sembra la parte principale del Parlamento Chimico: la Storia vista attraverso i nomi degli imputati al Processo, dei protagonisti ‘potenti’, i padroni di Porto Marghera. Che poi sono anche personaggi pubblici, noti, discussi e sui quali è più facile passare ad un tono spettacolare, evocativo.
Dal parlamento inteso come ‘parliamo della Chimica’, passiamo al Parlamento come luogo del Potere (è bello l’intrigo bisognerebbe che fosse più palese al pubblico). Io godo di un vantaggio: so che Porto Marghera è una sintesi chimica del capitalismo italiano, molto prima di Cusani, perché ho letto Grifone e Cesco Chinello. E in questo mi piace la lunga introduzione sulle salsedole e sul Conte Volpi.
Sulla scena appaiono, ancora in ordine sparso, il Corruttore Mattei lo Jedi-gnomo Cuccia con la sua astronave MedioBanca, il principe pirata Raùl Gardini che plana su Marghera con i suoi appetiti da avventuriero, Ice Schimberni dagli occhi di ghiaccio, e il gigante friulano Cefis: tutti dedicati a conquistare e ‘risanare’ la Montecatini, la soda e il cloro, la Chimica sulla Laguna.
Finalmente il testo scorre un po’ più leggero sul pubblico, ormai provato e (si sente) perplesso.
A questo punto del lavoro (suo e nostro) l’’idea drammaturgica finalmente si delinea: è così che hanno pensato di poterci raccontare questa Storia di Plastica, senza botto finale, di sottile e latente violenza.
La differenza tra risanare finanziariamente un’’azienda (ma è chiaro che i personaggi del Parlamento stanno giocando con la Chimica e con la Finanza) e risanarla davvero: renderla sana per chi ci lavora, per il paesaggio di chi ci abita.
Una chiave probabile della narrazione, sottile, e adatta ad una declinazione narrativa che possa stare in scena.
Quella dei padroni è la parte più evoluta dello spettacolo: anzi, a voler essere onesti, l’’unica che ha una qualche autonomia scenica (la più facile).
A conferma che la chiave di narrazione sta qui, Paolini legge un documento del Presidente Cefis (o è Schimberni?) sulle spese di manutenzione degli impianti in una logica di budgeting: si fanno solo se sono strettamente necessarie a garantire profitti, altrimenti sono escluse da una strategia dell’’impresa.
Il conflitto è svelato e la sentenza del Processo, che nello spettacolo è solo sullo sfondo (giustamente), perde volutamente di peso di fronte ad una contraddizione molto più generale e latente tra valori.
Il fatto che in tangenziale si va a passo d’’uomo non significa che questo mondo sia a misura d’’uomo, sentenzia l’’attore. Una sintesi provvisoria del testo.
Poi chiude: Sani, saluto venezianissimo che tocca le corde affettive del Milione (Sani, Sambo dice il Campagne al veneziano che gli insegna a premere e a staire per andare avanti in Laguna) ed è carica di una ironia chimica, alchemica, a conclusione di una storia di ‘malattie annunciate’.
Finalmente un coup de teatre.
 
L’’applauso finale è davvero perplesso.
Il pubblico di Mira accoglie con affetto il ritorno del proprio ponte, qualunque cosa abbia da trasmettergli: ma è un gesto di fiducia più che di entusiasmo.
Si sente. Lo sente.
Dice che è contento di essere tornato.
E’ molto. Non può essere tutto.
E, secondo l’’insegnamento del Milione, ni altri spetemo: la prima anche fosse l’’ultima.
Buon lavoro.
 
Dolo 6 luglio 2002

Isabella_Scaramuzzi




Tag: Marco Paolini (20)


Scrivi un commento