L’editoriale
La scomparsa di Giorgio Guazzotti
Sabato 22 giugno è scomparso Giorgio Guazzotti. Era nato a Alessandria nel 1928, agli inizi della carriera era stato critico teatrale dell’Unità e aveva collaborato con il Dramma, ma ben presto era passato dall’altra parte della barricata, impegnandosi come organizzatore nell’ambito del teatro pubblico: prima al Piccolo Teatro, poi nel 1962 aveva fondato il Teatro Stabile della Città di Bologna (destinato a vita breve), aveva collaborato con Mario Missiroli alla direzione dello Stabile di Torino e negli anni Settanta era stato tra gli animatori del Gruppo della Rocca per poi lavorare soprattutto in Toscana e negli ultimi anni per la compagnia di Glauco Mauri.
Della sua esperienza resta traccia in Teoria e realtà del Piccolo Teatro, Torino, Einaudi, 1965, e Rapporto sul teatro italiano , Silva, Milano, 1966.
Altri che l’hanno conosciuto meglio potranno parlare più diffusamente e approfonditamente di lui e del suo lavoro. Io ho solo avuto la fortuna di conoscerlo a metà degli anni Settanta, quando ero allievo della Civica Scuola dArte Drammatica e Giorgio insegnava Organizzazione teatrale (in tandem con Mimma Gallina, che aveva pochi anni più di me e già era prof…).
E grazie a lui, al di là delle feroci liti tra il professor Guazzotti e noi giovani (e petulanti e presuntuosi) studenti, da lui ho imparato un paio di cose importanti.
La prima è che anche l’arte, e soprattutto un’arte come il teatro, al di là di tutti gli idealismi ed estetismi giovanili, ha un’economia. E si tratta di un’economia complessa e articolata, costruita su una rete di rapporti complessi con vari soggetti (istituzionali, politici, economici, e anche artistici, ovviamente). E quando si produce uno spettacolo (o si pubblica un libro, o si gira un film, o si stampa una rivista, o si impianta un sito internet, o si gestisce uno spazio) tutti questi soggetti e queste relazioni vanno presi in considerazione. Ma ho anche imparato che tutto questo non significa arrendersi all’esistente: a volte (in realtà quasi sempre) per portare a compimento i propri progetti è necessario anche cambiare il contesto in cui si sviluppano. In astratto è una verità assai banale (infatti mi sono bastate 5 righe): ma altra cosa era misurarne il principio di realtà confrontandosi con la competenza di Giorgio e con la sua sottigliezza.
La seconda è un’idea del teatro pubblico – o meglio della sua necessità – che va al di là delle differenze di gusto e di generazione, e delle rispettive curiosità intellettuali. Un teatro pubblico con una vocazione artistica e intellettuale, in grado di confrontarsi da pari a pari con il potere politico per portare alla luce le esigenze – non solo estetiche – che via via emergevano dalla società. Era questo il presupposto comune, anche se poi le forme in cui questo benedetto teatro pubblico avrebbe dovuto realizzarsi erano poi molto diverse (di qui, anche, quelle liti che tutti i suoi allievi ricordano con nostalgia).
Avevo detto un paio di cose, ma in realtà ce n’è una terza più importante. Ci sono i principi e le idealità, certo. In teoria un intellettuale ha l’unico dovere di realizzare i propri progetti e di far valere questi principi e queste idealità. In realtà, se vuole che siano minimamente efficaci, deve poi confrontarsi con un mondo che è maledettamente complicato e difficile. A quel punto può chiudersi in una torre davorio, a sparare sentenze sul mondo intero e a coltivare le proprie frustrazioni. Oppure può, come si dice, sporcarsi le mani. Praticare la sottile arte del compromesso – senza cedere su principi e idealità. Ecco, questa è un altro insegnamento di cui devo essere grato a Giorgio.
Oliviero_Ponte_di_Pino
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