Il laboratorio delle immagini

Anne-Marie Duguet, Déjouer l’image. Créations électroniques et numériques, Editions Jacqueline Chambon, Nîmes, 2002

Pubblicato il 23/05/2002 / di / ateatro n. 035

Anne-Marie Duguet è conosciuta a livello internazionale per le sue ricerche sul video e le arti elettroniche e le sue pubblicazioni sono contributi essenziali per la comprensione di forme d’arte felicemente sfuggenti alle classificazioni tradizionali. Con altri studiosi, critici e teorici dalla fine degli anni ’70 ha contribuito alla creazione e all’articolazione di un corpus di studi sulle nuove immagini e sulle pratiche – di produzione e di ricezione – che esse inevitabilmente comprendono. Citiamo alcune delle sue più importanti pubblicazioni: Vidéo, la mémoire au poing, Hachette, 1981; il numero 48 di «Communications», Vidéo, curato assieme a Raymond Bellour, la prima pubblicazione di ampio respiro dedicata alla “cultura video”, del 1988 (contemporanea di un’altra antologia storica e pionieristica, curata da Rosanna Albertini e Sandra Lischi, Metamorfosi della visione. Saggi di pensiero elettronico, ETS, Pisa); Jean-Cristophe Averty, catalogo della mostra da lei curata al Jeu de Paume, 1991; e poi negli anni ’90 molti saggi e testi apparsi in cataloghi, riviste, antologie in Francia e in altri paesi. Dirige anche la collezione “Anarchive”, dvdroms e progetti su internet con e su alcuni autori: nel 1999 è uscito il primo titolo, Muntadas Media Architecture Installations ed è in preparazione il dvd su e con Nam June Paik.
In Italia, Anne-Marie Duguet è conosciuta grazie alle traduzione dell’ormai famoso Dispositifs (in Vidéo) saggio sulle videoinstallazioni, pubblicato nel numero 15 de «Il Nuovo Spettatore», curato da Alessandro Amaducci e Paolo Gobetti nel 1993; e alcuni altri saggi pubblicati in Metamorfosi della visione.
Quest’ultimo lavoro dal titolo un po’ enigmatico è una raccolta di quei saggi che hanno marcato la critica e la teoria internazionali sulle arti elettroniche ed è quindi l’occasione per avere nella propria biblioteca tutti i testi altrimenti troppo difficilmente reperibili in Italia. Non ci sono testi nuovi di teoria e di critica a parte l’introduzione, che è una sorta di lettera al lettore con una dichiarazioni di poetica, di impegno, di passione.

«Questi saggi sono prelevati in un insieme di riflessioni sul video e i nuovi media che mi occupano dalla fine degli anni ’70. Testi di critica, testimoniano prima di tutto di alcune passioni e stupori, di curiosità e di emozioni che hanno nutrito – malgrado i rifiuti, i sospetti generali – questa ipotesi tutto sommato abbastanza elementare: delle opere suscettibili di sollecitare, risvegliare la sensibilità e l’intelletto potevano risultare dall’uso di media elettronici e digitali».

Più avanti, cominciamo a entrare nella poetica del mestiere di critico, così come è professata da Anne-Marie Duguet: si tratta sempre di partire dalle opere, di cercare di stare dalla loro parte, per cogliere i cambiamenti dell’arte, della cultura, della società. I testi si suddividono in due grandi gruppi: il video e il digitale. Nel primo gruppo, partendo sempre dalle opere, ritroviamo i testi dedicati ad autori che hanno tra loro forti affinità: Peter Campus, Bill Viola e Thierry Kuntzel. Nei sette testi, pubblicati tra il 1985 e il 1994, sono analizzate le poetiche degli autori e non solo i loro modi di produrre immagini, quanto e prima di tutto le loro visioni del mondo che diventano scrittura audiovisiva.
Più precisamente, le problematiche – artistiche, estetiche, teoriche e critiche – connesse alle videoinstallazioni preoccupano da sempre Anne-Marie Duguet e occupano la maggior parte della sua riflessione e dei suoi scritti. L’installazione perché è una «forma singolare, libera, che reinventa le proprie regole in ogni momento. Nella misura in cui tutte le tecniche, materiali e discipline possono incontrarsi nell’installazione, essa autorizza le ibridazioni più fertili, i giochi nello spazio e le appropriazioni più inattese. […] L’ho considerata prima di tutto come uno spazio di ricerca dove le esperienze dello spettatore rispondevano a quelle dell’artista, dove la rappresentazione era testata in tutti i suoi stati, in tutte le sue possibilità». Questa prima sezione sul video si apre con il saggio Dispositifs, nel quale sono analizzate alcune videoinstallazioni realizzate tra il 1969 e il 1975, opere che si costituiscono come luoghi critici attraverso principalmente una decostruzione del dispositivo della produzione e ricezione delle immagini e delle condizioni, forme e norme che definiscono la rappresentazione.
Nel secondo gruppo sono raccolti quei testi, scritti nel decennio ’90, dedicati più precisamente alle nuove tecnologie di elaborazione dell’immagine, agli sviluppi delle videoinstallazioni e videoambienti a seguito delle ricerche più avanzate nel campo dell’interattività e del virtuale. Questa seconda parte è più eteroclita: leggiamo i testi su Jeffrey Shaw – tra gli artisti più conosciuti che lavorano oggi con il virtuale, ma il cui percorso creativo affonda le radici nella performance, nelle esperienze di “cinema dilatato” degli anni ’60 -; i saggi sulla sintesi del corpo e sulla simulazione; sulla prospettiva rielaborata nello spazio digitale; sulle modalità percettive negli ambienti virtuali; sulle problematiche connesse agli archivi multimediali.
La riflessione si snoda dal video, che emerge come un laboratorio che a partire dagli anni ’70 ha autorizzato feconde e trasgressive sperimentazioni e ricerche, sino alle forme artistiche attuali interattive e virtuali, delle quali sono messe in rilievo gli elementi di continuità con precedenti ricerche nel campo dell’arte nonché gli elementi di cesura e infine le innovazioni.
Il vero protagonista del libro è l’immagine; questo strano oggetto del nostro desiderio … Sono qui ritracciati alcuni dei destini dell’immagine, di cui siamo testimoni da gli anni ’60, dall’avvento del video che ha significato, più del cinema, un’aumentata possibilità di manipolazione, di alterazione, di metamorfosi. Con il video, l’immagine ha perduto molto della sua autonomia e della sua forza.

«Diremo che ci sono due modi principali di essere o di non essere dell’immagine in molte installazioni attuali, o ancora due modi di dimenticarla: un primo modo, nel caso in cui essa è tutto, solo riferimento di una proiezione spesso ambientale in una sala scura; un altro modo, quando essa è poca cosa, ormai semplice polo di un sistema che implica elementi molteplici, o terminale che permette di visualizzare la posta in gioco che si svolge altrove, nelle circolazione dei dati su Internet, ad esempio». L’immagine esce dai monitor e dagli schermi del computer, diventa scena che si dilata dappertutto, diventa ambiente che invita l’osservatore ad assumere dei comportamenti diversi, introducendo delle dimensioni ludiche e pragmatiche. E allora poco per volta cominciamo a capire il titolo, Déjouer l’image, per il quale non esiste una traduzione letterale in italiano e che anche in francese richiede qualche parola in più: «…è infiltrarsi nell’immagine per deviarla, è rigirare le sue convenzioni mostrando e attivando i suoi parametri in tutti i modi, è intrappolarla per dominarla, e così scuoterne un po’ il potere e la certezza. Ma forse vuol anche dire fare a meno di lei, girarle attorno».

Déjouer l’image; jouer vuol dire giocare, suonare (uno strumento), rappresentare (a teatro) e anche recitare… tutti azioni, performances. In modo singolare ma acuto, Anne-Marie Duguet ci invita, nell’epoca dell’immagine che ci circonda ovunque, a relativizzarla, a vederla e toccarla nella sua fragilità, a giocare con lei interrogandoci sulle nuove pratiche artistiche che sono ai margini dell’immagini stessa. Come da sempre, negli spazi piccoli, negli interstizi spesso marginali, avvengono le cose più interessanti e innovative.

Déjouer l’image è accompagnato da un cd-rom con gli estratti di opere video, documentazioni di installazioni, schemi, fotografie relativi a opere e autori trattati nei saggi.

Simonetta_Cargioli




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