Videotiepido
Angela Madesani, Le icone fluttuanti. Storia del cinema d'artista e della videoarte in Italia, Bruno Mondadori, Milano, 2002
Il sottotitolo del libro implica di per sé un progetto di vasta portata: fare una storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia, partendo dalle origini dell’uno e dell’altra per arrivare sino ai giorni nostri. L’intero secolo ventesimo, dal futurismo a oggi. Impresa ambiziosa, dalla quale noi lettori attendiamo di essere illuminati da un lavoro capace di sintetizzare, ma con dei punti di riferimento critico-teorici, un secolo di immagini in movimento artistiche e, soprattutto, ci aspettiamo di trovare nuove indicazioni anche sulle relazioni tra cinema d’artista e videoarte.
L’autrice ci avverte sin dalla premessa ci avverte: oggetto del suo studio sono il cinema e il video usati solo ed esclusivamente dagli artisti. Accenna al rischio di confusione tra cinema d’avanguardia, cinema sperimentale, cinema d’artista, videoarte. Accenna ma non sviluppa: nella stessa premessa, viene fatto l’esempio di Alberto Grifi, del quale si legge:
ha partecipato a numerose mirabolanti imprese artistiche, ma non è un artista. D’accordo pensiamo si tratta della premessa, sono esposti toni e colori del discorso a venire, abbiamo capito che si entra in un territorio dai confini delicati, anche questo essere o non essere artista sarà in seguito argomentato
Invece no, leggiamo tutte le 230 pagine del libro e non c’è un tentativo di definizione teorica e critica.
Il libro ha ovviamente un andamento cronologico. I primi quattro capitoli (1. Cinematografia e futurismo: una storia complessa; 2. Anton Giulio Bragaglia: un cammino nell’avanguardia; 3. Dagli anni venti ai cinquanta: quarant’anni di ricerca; 4. Luigi Veronesi) hanno un impianto storico e sintetizzano cinque decenni di ricerca nel campo del cinema d’artista; vi fanno eco in appendice la ristampa del Manifesto del cinema futurista e alcune interviste Carpi, Barucchello, Mauri, Patella ecc. È la parte meno rischiosa.
Le dolenti note cominciano quando nella storia subentra il video. Siamo al capitolo 5, Gli anni Sessanta e Settanta: la grande euforia. Intanto si rileva un errore relativo alle prime presentazioni pubbliche di lavori realizzati con l’immagine video e con i televisori: Paik e Vostell non hanno esposto assieme alla Galleria Parnass di Wuppertal nel 1963: quella mostra fu la prima personale di Paik, nella quale espose dei distorted tv sets; Vostell avrebbe nello stesso anno presentato i suoi television dé-collage alla Galleria Smolin di New York. Passiamo: questo è un errore che si riscontra a volte.
Seguono le ricostruzioni della storia della videoarte in Italia, cominciando con gli anni ’70, e con le esperienze delle prime gallerie e delle prime mostre dedicate al video a Bologna, Roma, Milano, Venezia. Con la necessaria importanza data alla preziosa esperienza di Lucciano Giaccari, del quale l’autrice riprende e adotta la distinzione fatta agli inizi degli anni ’70 tra video freddo e video caldo, spiegata nella nota a pagina 121: Con ‘video caldo’ si intende il video d’artista, il video creativo, mentre con ‘video freddo’ si allude a quello documentario, che documenta teatro, danza, performance e qualsiasi altra manifestazione artistica. Questa distinzione viene poi applicata in tutto il libro alle produzioni video esaminate.
Nel 1999 è stato pubblicato da Costa & Nolan Definizione zero. Origini della videoarte tra politica e comunicazione di Simonetta Fadda (Madesani la cita come artista e cita anche questo saggio). Quello della Fadda è un lavoro molto curato, preciso, storicamente documentato, ma anche critico e teorico, nel quale è dato il dovuto spazio al video militante, di controinformazione, a quelle produzioni che hanno opposto, in Italia e come in tutti gli altri paesi, il video alla televisione come sistema di produzione dell’informazione e dell’immaginario. Di tante idee e esperienze in tale contesto, ci sono solo pochi cenni nel libro di Madesani.
I capitoli che seguono (6. Gli anni Ottanta: la rivoluzione del video e 7. Gli anni Novanta: il boom del video) vogliono fare una sintesi di vent’anni di produzione italiana. E ci sono, con i problemi di definizione, anche delle confusioni di territori: si intrecciano nel discorso la videoarte citati il festival di Locarno ad esempio, con una programmazione che dal 1980 sino al 2000 è stata incentrata sulle ricerche svolte sul medium video, come tecnologia e come forma espressiva con il video d’artista video come estensione della pratica plastica, delle problematiche delle arti visive con lo svilupparsi della pubblicità, con i videoclip
Niente di questo è analizzato con strumenti critici e teorici adeguati.
L’autrice non si avvale del vasto corpus di studi sulla videoarte costruito in oltre vent’anni dalla ricerche di Sandra Lischi, Marco Maria Gazzano, Valentina Valentini, tra i più importanti specialisti di videoarte in Italia, neppure citati nel libro. La bibliografia è incompleta. Una delle premesse contenute nel sottotitolo non è stata purtroppo articolata: la cinematografia delle avanguardie storiche, oggetto dei primi capitoli, ha profonde continuità con alcune ricerche svolte dagli artisti con il video. Molta videoarte rilegge le avanguardie storiche, e dialoghi fruttuosi e fecondi sono analizzati nei lavori di Sandra Lischi rimando al suo ultimo libro, Visioni elettroniche. L’oltre del cinema e l’arte del video, Marsilio, 2001 e Marco Maria Gazzano rimando all’antologia di saggi da lui curata, Il cinema dalla fotografia al computer. Linguaggi, dispositivi, estetiche e storie moderne, Quattroventi, 1999.
Un altro silenzio clamoroso riguarda alcuni autori italiani di videoarte che sono solo citati in liste di programmazioni di festival: Gianni Toti (di cui è citata, in poche righe, la video-poem-opera Planetopolis), Giacomo Verde, Mario Sasso, Mario Canali solo sono dei nomi e cognomi. Però in appendice ci sono delle belle fotografie a colori prese dalle loro opere, ovviamente neanche citate: è il caso di Giacomo Verde. Come non è dato il giusto spazio di presentazione a due manifestazioni che hanno permesso e permettono la diffusione del video non solo in Italia ma anche a livello internazionale: la Rassegna internazionale del video d’autore curata da Valentina Valentini a Taormina negli anni ’90; e Invideo. Mostra internazionale di video d’arte e di ricerca, a Milano, diretta da Romano Fattorossi, Sandra Lischi, Felice Pesoli (sino al 1999) Chicca Bergonzi.
Nel capitolo sugli anni ’80, l’autrice scrive: Non mi pare che il problema sia tanto di considerare o meno il video una forma d’arte, quanto di farlo rientrare in un concetto più ampio e articolato della stessa. Seguono paragrafi sulla tecnologia, sul suo peso nella vita e nella cultura, gli accenni a certi festival e manifestazioni già menzionati, all’attività del Palazzo dei Diamanti di Ferrara, al lavoro di Fabrizio Plessi, di Maurizio Camerani, la nascita di Studio Azzurro e pochi accenni al teatro.
L’ultimo capitolo, sugli anni ’90, è esclusivamente dedicato al video d’artista, del quale ancora una volta non vengono forniti i necessari parametri critici e teorici. Il metodo è così enunciato: Per comodità di lettura ho creato una sorta di mappatura della situazione, cercando di collocare con la libertà dovuta i diversi video all’interno di ‘tipologie’ molto ampie di taglio contenutistico (p.122). Seguono presentazioni di lavori sulla televisione, sul sociale, sui rapporti con il cinema; lavori autobiografici, narrativi. Ma il capitolo non è strutturato: autori, titoli di lavori, brevi presentazioni e/o commenti ma senza fili di collegamento. Leggiamo a pagina 133: Quella del video è, infatti, un’area molto ampia e priva perlopiù di confini ben definiti, in cui si comprendono l’artista visivo tout court, l’autore di performance e ambienti interattivi e coloro che fanno direttamente opere videoinformatiche senza domandasi più di tanto chi sono.
In appendice, la parte contemporanea è corredata di interviste: Studio Azzurro (Paolo Rosa), Marcello Maloberti, Simonetta Fadda.
Simonetta_Cargioli
Tag: video (5), videoarte (4)
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