L’editoriale
del numero 31
Come vedete nel piccolo “teatro di guerra” delle scene italiane, scaramucce e dimissioni, polemiche e convocazioni iniziative si moltiplicano. È certo un segnale di vitalità, che però non può nascondere diversi problemi di fondo. In primo luogo, queste reazioni sono solo la difesa di diritti acquisiti o, se si preferisce, di spazi duramente e faticosamente conquistati dopo anni di lavoro? Oppure è la reazione alla progressiva riduzione di questi spazi, già in atto da diversi anni? (E in questo caso bisognerebbe capire perché, e come reagire
).
Se invece quello a cui stiamo assistendo è la nascita di una nuova progettualità, la prima domanda da porsi è un’altra. Se è stato impossibile fare le cose semplici quando la situazione era favorevole, sarà possibile farlo oggi e nei prossimi anni, dopo che la situazione politico-culturale si è fatta assai più difficile? Insomma, bisogna capire quali sono le condizioni per dare forza a quelle che nella sua ormai celebre Lettera ai teatranti Gianfranco Capitta definisce “cinquanta, ma forse cento, ma forse anche mille, che fanno teatro ogni giorno in Italia facendomi emozionare e ragionare, e con le cui visioni ho imparato a capire e vivere il presente e il futuro”.
E prima ancora, forse, bisogna comprendere chi sono questi “cinquanta, ma forse cento, ma forse anche mille”. In parte la questione è emersa in maniera implicita nella discussione sul forum, e corre sotterraneamente da anni in qualunque discussione sul nuovo teatro. Chi sono questi “cinquanta, ma forse cento, ma forse anche mille”? Qualcuno lo deve decidere o si autoconvocano? E in questo caso varrà il principio assembleare “una testa un voto” o la regola – implicita e terribile – che il talento artistico non è democratico? Oppure si partirà da un documento intorno al quale coagulare il sostegno e l’impegno?
Insomma, forse è il caso di chiarire se si tratta di una battaglia politico-culturale in cui il mondo del teatro si allinea all’opposizione (una opposizione che peraltro quando era al governo non ha brillato per particolare acume
). Il primo obiettivo è ovviamente quello di difendere la necessità di un adeguato sostegno pubblico al teatro e alla cultura in generale. In questo caso, si tratta di aggregare quante più forze possibili, dentro e fuori dal teatro e dal suo mondo, e di intervenire in tutte le occasioni di lotta.
Se invece si tratta di una battaglia all’interno del teatro pubblico, in difesa di una precisa concezione della cultura e del teatro, allora è necessario chiarire gli obiettivi ma prima ancora vanno ridefiniti il ruolo e la funzione del teatro pubblico nel nostro paese (su questo, Ronconi e il Piccolo Teatro hanno espresso con chiarezza il loro progetto).
Infine, se si tratta invece di trovare nuovi spazi per la ricerca, per individuare e far crescere nuove energie teatrali, è opportuno comprendere su quali forze e su quali spazi si può contare, e costruire una rete di rapporti e relazioni, dal Nord al Sud, rafforzando le relazioni tra spazi e realtà produttive.
Ovviamente qualunque iniziativa si muoverà probabilmente su questi tre fronti – o deve tenerli ben presenti (è quello che ho cercato di fare, nel mio piccolo, in questi anni).
Ma questa è probabilmente una impostazione troppo vaga, viziata di teoria. Forse è più opportuno essere pragmatici.
L’altro giorno stavo chiacchierando con Moni Ovadia. A un certo punto mi ha detto: “Ho visto la discussione sul sito, molto vivace, interessante. Sai cosa dovremmo fare, sul sito? Noi siamo teatranti, dovremmo fare una specie di gioco di simulazione, in cui immaginiamo cosa faremmo se fossimo al governo di questo paese.”
L’obiettivo è troppo ambizioso. Ma almeno provare a immaginare che cosa faremmo se dovessimo governare il teatro, beh, quello possiamo tentare di farlo.
Redazione_ateatro
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