La musica delle parole
Intervista a Luigi Ceccarelli
Con questa intervista a Luigi Ceccarelli, il musicista che ha collaborato con Marco Martinelli e Ermanna Montanari per L’isola di Alcina e di recente con Fanny & Alexander per Requiem, prosegue la riflessione sul rapporto tra teatro e musica iniziata con l’intervista a Filippo Del Corno in “ateatro 14”.
Per ulteriori info sulla carriera e sulla musica di Luigi Ceccarelli, edisonstudio.
Perché ti sei avvicinato al teatro? Il teatro musicale era già un filone di lavoro che perseguivi nell’ambito della tua ricerca musicale?
In realtà sono sempre stato un musicista molto vicino al teatro e alle arti visive. E non solo perché ho collaborato con artisti delle più varie discipline, ma soprattutto perché, al di là della conoscenza di una tecnica specifica, credo che l’operato di ogni artista sia in rapporto con tutta la cultura e non soltanto con il proprio linguaggio. Quando penso alle opere che più hanno influenzato il mio lavoro mi vengono in mente, oltre che musicisti, nomi di pittori, registi, architetti o scrittori.
Fin dall’inizio della mia formazione musicale, quando ero ancora uno studente al Conservatorio di Pesaro, il mio interesse per le arti visive è stato molto forte. Verso la metà degli anni Settanta ho lavorato insieme a un gruppo di studenti dell’Accademia di Belle Arti di Urbino per la progettazione di un’installazione che coinvolgesse l’intero palazzo del Conservatorio. Si trattava di un percorso sonoro e visivo che trasformava quell’austero ambiente accademico in un luogo di incontri stravaganti: rumori concreti di ambienti, rumori di oggetti e frammenti di varie conversazioni erano liberamente associati a oggetti e ambienti dell’arte povera.
Pochi anni dopo, il mio professore di Musica Elettronica, Walter Branchi, mi fece conoscere il pittore Achille Perilli e gli artisti che lavoravano con lui in “ALTRO, gruppo di lavoro intercodice”. Si trattava di un gruppo formato da artisti provenienti da varie discipline (pittori, fotografi, grafici, architetti, danzatori) che realizzava spettacoli partendo dall’idea di una relazione paritaria tra tutti i linguaggi artistici. Con loro ho lavorato dal ’77 all’ ’80 nella creazione di Abominable A, una performance teatrale nella quale tutta la parte sonora, da me realizzata, era costituita unicamente da parole che iniziavano per “A”, lette in sequenza da vocabolari di varie lingue e modificate elettronicamente.
In seguito il gruppo si è trasformato in “ALTRO teatro”, la compagnia di danza diretta da Lucia Latour e con Lucia abbiamo continuato a realizzare spettacoli di danza e musica fino alla metà degli anni Novanta. Il nostro metodo di lavoro era molto influenzato dal lavoro intercodice, e anche in questo caso la progettazione degli spettacoli era fatta con criteri di lavoro di equipe. Oltre alla musica ho realizzato al computer complesse multivisioni che servivano da scenografia. Tra tutti vorrei ricordare Anihccam spettacolo ispirato a Fortunato Depero, che all’inizio degli anni Novanta ha avuto grande successo in Italia e in Europa.
Il mio avvicinamento al teatro di parola, invece, è iniziato di recente ed è stato un percorso a tappe, nato in modo per me del tutto imprevedibile partendo dalla radio.
Nel 1994 Radio Tre aveva commissionato a venti musicisti italiani altrettanti “Radiofilm”. Con questo termine, inventato da Luca Francesconi, si proponeva ai compositori di realizzare un’opera musicale partendo da una storia e utilizzando il linguaggio del cinema e le tecnologie elettroniche ad esso connesse, ma, ovviamente, in assenza di immagine. Due erano le novità rilevanti rispetto al tipo di commissione che viene di solito fatta ad un musicista: l’obbligo di utilizzare le tecniche digitali nella composizione non solo come ausilio tecnico ma come elemento creativo, e la richiesta che il testo e la trama del racconto risultassero assolutamente comprensibili, a differenza di quel che avviene di solito nella musica di ricerca. Per quell’occasione ho realizzato La guerra dei dischi su testo di Stefano Benni tratto dal romanzo Terra!
A differenza della maggior parte degli altri musicisti, che non si sono discostati molto da un’opera musicale piuttosto tradizionale con l’aggiunta di un testo recitato, lavorando alla Guerra dei dischi ho scoperto un linguaggio nuovo che mi è molto congeniale e che usa le tecniche digitali per combinare insieme suoni concreti, suoni astratti e testi, considerandoli elementi di uno stesso linguaggio nel quale i suoni delle parole e i rumori di ambiente sono elementi musicali a pieno titolo, e gli elementi musicali, a loro volta, diventano estensioni della fonetica. In seguito ho composto altri lavori che impiegano questa stessa impostazione, per alcuni dei quali ho realizzato anche la parte visiva. In particolare per RadioTre ho realizzato una serie di piccoli pezzi di cinque minuti con testo di Valerio Magrelli dal titolo I viaggi in tasca. Poi La commedia della vanità di Elias Canetti con la regia radiofonica di Giorgio Pressburger. Questo lavoro, oltre ad essere trasmesso dalla radio è stato rappresentato in forma scenica qualche anno fa al Mittelfest. Le azioni degli attori si svolgevano dal vivo, mentre il sonoro, comprese le voci, erano quelli realizzati da me in studio.
Nel caso sia dell’Alcina sia del Requiem, mi sembra di capire che tu abbia lavorato molto sul testo e sulla sua tessitura verbale, per dar loro una sostrato, una materialità sonora. Che obiettivi di sei posto? E come hai lavorato? Hai chiesto di modificare il testo in base alle tue esigenze?
Il mio lavoro sul testo e sulla tessitura verbale è complementare a quello dello scrittore e del regista; è un lavoro che considera la dimensione sonora del teatro nella sua globalità e parte dal significato del testo per arrivare al suono: il suono della voce, i suoni che delimitano lo spazio della voce, i suoni ambientali e la loro interazione con la voce.
A differenza di come un musicista lavora in teatro o nel cinema, il mio modo di fare musica in rapporto a un testo non consiste semplicemente nel sovrapporgli un commento o “creare un sottofondo”, ma nell’organizzare un universo sonoro che si integri con l’azione e con l’immagine e che venga a far parte della struttura narrativa ed emozionale così intimamente da essere inscindibile dal resto. Insomma il mio è un contributo alla creazione di un ‘opera unitaria dove ogni elemento sonoro e visivo risponda al medesimo ritmo.
Quando inizio a lavorare per un nuovo spettacolo teatrale per prima cosa studio il testo e cerco di pensarlo in relazione alle voci degli attori. Utilizzando la tecnologia digitale, ci sono molte cose che un musicista può fare per migliorare la recitazione e l’espressività della parola nel contesto generale. Per esempio rendere percepibile tramite l’amplificazione tutti quei particolari fonetici che normalmente si perdono, perché troppo deboli rispetto al suono di fondo. (Questa può sembrare una tecnica molto banale anche perché ormai tutti in teatro la adoperano, ma in genere la si usa in modo talmente rozzo che di solito peggiora, invece di migliorare, la qualità della voce.) L’amplificazione dei suoni e soprattutto della voce richiede una grande conoscenza tecnica, ma sopratutto va considerata come un fatto creativo. Io considero l’amplificazione come un microscopio acustico che, al pari di un microscopio visivo, rende percepibile un microcosmo sonoro altrimenti inimmaginabile. Con il tempo ho imparato che l’espressività della voce, la sua capacità di comunicare i significati più profondi, viene data in gran parte da quei suoni accessori e apparentemente involontari che sono sempre presenti quando si parla ma che non consideriamo significanti come per esempio le incertezze di pronuncia, i respiri, gli schiocchi della lingua, i rumori della saliva. Qualche anno fa quando provavo a ripulire le voci da questi disturbi mi accorgevo che la voce perdeva tutta la sua capacità emotiva. Oggi di solito tendo a esaltare i rumori, a volte anche eliminando completamente i suoni vocalici, quelli che normalmente sono i più importanti nel canto.
Anche se il risultato delle voci da me trattate può sembrare molto naturale, in realtà per ottenerlo è necessario a volte un trattamento molto forte: l’elaborazione timbrica della voce, che si ottiene analizzando ogni componente armonica del suono fin nei suoi minimi dettagli per poi operare elaborazioni selettive. Se agli inizi dell’era della musica elettronica, negli anni Cinquanta, gli strumenti elettronici erano piuttosto grossolani e i suoni che si ottenevano avevano un sapore inconfondibilmente “elettrico”, oggi siamo arrivati a un grado di flessibilità delle macchine sufficiente per avere elaborazioni molto sofisticate e simili per qualità ai suoni naturali.
Con il trattamento della voce è possibile anche rendere più intelligibile il testo Quando un attore si rende conto che per farsi capire non ha più bisogno continuamente di parlare forte, e che ogni suo minimo sospiro può essere ascoltato, incomincia a usare tante sfumature che normalmente sarebbero impercettibili. Ermanna Montanari per esempio, l’interprete dell’Alcina ha imparato a usare questa tecnica in modo veramente mirabile.
Il mio metodo di lavoro con i suoni strumentali è del tutto simile a quello con le voci e questo mi permette di avere una perfetta interazione tra suoni e voci. Nel caso degli strumenti tradizionali poi, e soprattutto degli strumenti a fiato, il rapporto tra strumento ed esecutore è molto vicino a quello dell’attore con la propria voce, non essendo questi strumenti altro che una estensione della cavità orale di chi li suona. Con il cornista Michele Fait, con il quale ho realizzato i suoni dell’Alcina, e con il trombonista Renzo Brocculi per il Requiem, abbiamo lavorato a lungo sul respiro e sull’emissione dei suoni accessori, quelli che non possono essere scritti in una partitura, e per questo abbiamo studiato particolari tipi di ripresa microfonica. Abbiamo anche sperimentato varie modifiche agli strumenti stessi (trombone e corno), per ottenere particolari sonorità.
La convenzione che distingue i suoni cosidetti “musicali” dai rumori non esiste più. Allora perché non considerare musica anche le voci e i suoni ambientali? Con le nuove tecnologie ci si rende conto che tutti i suoni, siano essi prodotti da strumenti musicali, voci o dall’ambiente, possono servire alla creazione artistica.
Naturalmente un musicista in teatro non lavora da solo e questo comporta necessariamente una grande sintonia con tutti gli altri autori dello spettacolo, regista e attori innanzitutto, ma per me è sempre molto importante anche la relazione con la scenografia ed il disegno luci. Credo molto nel lavoro collettivo e sono convinto che la buona riuscita di un’opera dipenda dal grado di collaborazione che si raggiunge all’interno della compagnia.
Nel caso particolare dell’Isola di Alcina c’è voluto molto coraggio da parte di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari ad accettare la mia interferenza in un tipo di lavoro, quello del Teatro delle Albe, così tecnicamente diverso dal mio, ma tra noi si è stabilita subito una sintonia creativa perfetta. Nel Requiem ho avuto l’opportunità di ampliare ancora di più il mio rapporto tra musica e teatro. Fanny & Alexander ha utilizzato da sempre le tecnologie digitali e unendo le nostre competenze abbiamo realizzato uno spettacolo molto complesso.
Tu lavori molto con l’elettronica. Che rapporto si crea sulla scena con le voci “live” degli attori? Per esempio, che rapporto si crea tra i tempi “fissi” delle basi e quelli più flessibili degli attori e del pubblico? Come gestisci il rapporto tra questi due “ritmi”?
Nella realizzazione di uno spettacolo teatrale una parte sempre più importante è riservata al rapporto uomo/macchina. Partendo dai primi decenni del secolo scorso, attraverso le avanguardie artistiche come il futurismo, il costruttivismo e l’espressionismo del Bauhaus, il teatro è divenuto una macchina dinamica nella quale scenografia e luce hanno sviluppato una grande duttilità assumendo la stessa importanza del testo e della recitazione.
In questa ottica l’impiego della tecnologia elettronica è un ulteriore passo nell’invenzione scenica che ci da la possibilità di manipolare immagini, movimenti e suoni considerandoli come elementi di un’unica partitura.
Credo che il maggior vantaggio portato dalle macchine digitali in tutte le attività umane, e quindi anche nel teatro e nella musica, sia la loro programmabilità. Intendo con questo la possibilità di fissare molto esattamente nel tempo gli eventi e di ripetere le sequenze programmate ogni volta che lo si desidera, apportando le eventuali modifiche senza dover ripetere tutta la sequenza ogni volta da capo.
Teoricamente questo metodo di lavoro è molto simile a quello che si usa già da tempo nel cinema. Di fatto in teatro prima dell’impiego dei computer tutto questo era quasi impossibile. E poi in teatro c’è un elemento che rende tutto molto più affascinante:l’interazione dal vivo, in tempo reale, tra l’uomo e la macchina. Oggi la tecnologia ci mette a disposizione macchine che non sono più rigidamente legate a tempi predeterminati e quindi possiamo far interagire in vario modo sequenze digitali e attori dal vivo.
Fare interagire sequenze prefissate con le azioni teatrali dal vivo è stato sempre molto stimolante per me dal punto di vista creativo. In ogni spettacolo si presentano ogni volta problemi di interazione tra il tempo di recitazione degli attori (o anche di uno strumentista che suona) e le sequenze predeterminate di suoni, di luci, di movimenti scenici. La ricerca delle risoluzioni più adeguate mi ha portato spesso a trovare nuove idee drammaturgicamente determinanti.
Nel caso dell’Alcina per esempio le aperture e le chiusure dei microfoni degli attori e i cambiamenti di riverberazione della voce sono programmate nel tempo. Così durante lo spettacolo non è necessario eseguire operazioni meccaniche e ci si può concentrare esclusivamente sulle variabili più delicate dello spettacolo, come il rapporto di intelligibilità tra suono e voce. Anche il movimento del suono nello spazio è completamente automatizzato: ci sono fino a ventiquattro suoni contemporanei che vengono spostati nello spazio seguendo ognuno il proprio percorso. Nel Requiem viene utilizzato un sistema molto più complesso costituito da tre computer sincronizzati tra loro: uno di questi gestisce tutti i suoni preorganizzati su 24 piste, un altro gestisce nel tempo l’elaborazione delle voci dal vivo seguendo una partitura per ciascun attore. Il terzo computer è utilizzato per il controllo delle luci in sincrono con il suono. Per fare tutto lo spettacolo “a mano” occorrerebbero più di dieci operatori, ed una grande confusione, mentre noi siamo soltanto in due. L’unica cosa che dobbiamo controllare parzialmente a mano è movimento delle voci nello spazio seguendo il movimento degli attori.
Per quanto riguarda il rapporto tra i tempi degli attori e i tempi delle sequenze di solito sono gli attori a seguire ed a prendere i riferimenti dai suoni e dalle luci, cosa che li obbliga inizialmente ad un lavoro di apprendimento più lungo, ma che in seguito quando, i tempi sono ben calibrati, aumenta la loro sicurezza. Naturalmente è possibile anche il contrario, far seguire gli attori dalle macchine, anche se tecnicamente è un po’ più complicato. Nell’Alcina per esempio ci sono dei momenti in cui è Ermanna che da il tempo di riferimento e tutti si adeguano a lei. Nel 1995 ho scritto Macchine Virtuose, un concerto per il gruppo di percussionisti Ars Ludi dove gli esecutori sono il riferimento dei computer, che seguono perfettamente ogni loro minima variazione di tempo e di dinamica.
Nell’amplificazione dal vivo c’è un aspetto nuovo che spesso inquieta molto i musicisti, ma in particolare gli attori: il non controllo totale della propria emissione sonora. La voce amplificata viene diffusa da un altoparlante, che per motivi tecnici non può essere troppo vicino alla fonte sonora, perciò l’attore non può ascoltare il risultato della propria voce amplificata esattamente come si ascolta in platea, a meno di non impiegare un complesso sistema di cuffie (hear monitor). L’attore è costretto perciò a fidarsi dell’operatore che controlla i microfoni, e questo fa dell’operatore un vero e proprio interprete che si frappone fra il suono dal vivo ed il suono amplificato.
Negli anni Sessanta Karlheinz Stockhausen ha composto Microphonie II per tam-tam amplificato e filtrato e questo è, a mia conoscenza, il primo lavoro che impiega in musica un concetto di orchestrazione “in serie”, cioè con modificazioni a catena di uno stesso suono, in alternativa all’orchestrazione tradizionale “in parallelo”, dove i suoni prodotti individualmente dai vari orchestrali si sommano. Nel pezzo di Stockhusen due esecutori suonano un tam-tam del diametro d due metri. Due esecutori amplificano il suono tenendo in mano un microfono ciascuno selezionando solo alcuni dettagli del suono da amplificare secondo una partitura specifica. Altri due esecutori modificano il suono preso dai microfoni variando due filtri, anche loro secondo una specifica parte. Per il mio lavoro in teatro questo trattamento successivo del suono amplificato è molto importante, perché così è possibile manipolare in modo musicale le voci degli attori.
In Italia normalmente si considera il lavoro dell’operatore elettronico come una mansione puramente tecnica ed è questa la causa dell’estrema arretratezza nell’uso delle nuove tecnologie. Ho ascoltato molti concerti completamente rovinati da una cattiva amplificazione. E nell’ambito teatrale ho visto anche di peggio. In teatro la tecnologia usata per il suono risale per lo più a trent’anni fa: vengono sistemati due altoparlanti ai lati del palco e da li vengono mandati tutti i suoni registrati e quelli dal vivo. Così suoni e immagini non corrispondono più spazialmente e mentre l’attore parla in una posizione, il suono della sua voce si ascolta da tutt’altra parte magari mescolato con altre voci. Una tale dimostrazione di barbarie è oggi inconcepibile se si pensa all’alta qualità tecnica disponibile (che per esempio il cinema sfrutta con molta efficacia).
Una parte fondamentale del lavoro di un musicista che lavora con l’elettroacustica è la progettazione dello spazio sonoro. Nella realizzazione di uno spettacolo per me è prioritaria la progettazione di un sistema di diffusione che ricrei uno spazio sonoro artificiale così come viene fatto per l’immagine dallo scenografo e dal disegnatore luci. Questo spazio sonoro deve considerare non solo la scena ma tutto lo spazio in cui avviene la rappresentazione, spettatori compresi. Le voci degli attori devono per questo devono essere amplificate e riposizionate nello spazio.
Quale può essere oggi la funzione del teatro musicale? Penso anche ai costi di produzione allestimento, alla situazione dei teatri lirici e del loro pubblico…
La nostra cultura sta andando sempre più verso una visione olistica del mondo e anche tra i vari linguaggi artistici è sempre più forte la necessità del superamento degli schemi tradizionali verso una maggiore interazione, di conseguenza le modalità di comunicazione di oggi richiedono linguaggi di tipo logico superiore ai precedenti.
Il teatro in questi ultimi anni ha dimostrato di essere disponibile a un rinnovamento in questo senso ed è diventato sempre più la sede naturale nella quale confluiscono tutte le arti per dare vita ad un ambiente creativo globale. In tutto ciò la musica, intesa nella sua accezione più ampia di arte di organizzare suoni, ha un ruolo fondamentale e insostituibile.
Il rapporto tra parola e suono è sempre stato di grande importanza nella musica e la sua espressione più alta è stata in passato il melodramma e l’opera lirica sette e ottocentesca. Oggi invece la riproposizione della tecnica del bel canto nella musica è difficilmente praticabile. Una dimostrazione spesso imbarazzante di questo sono la maggioranza delle opere liriche contemporanee che si mantengono legate a questa tecnica. Inoltre gli enti lirici italiani si sono dimostrati inadatti a ospitare e a promuovere al loro interno nuove forme musicali, sia dal punto di vista artistico, sia dal punto di vista tecnico e organizzativo. Nei teatri lirici si continuano a rappresentare quasi esclusivamente le opere del passato con orchestre e cantanti che ne perpetuano la tradizione, mentre a giustificazione del nuovo si rinnovano gli allestimenti impiegando le tecniche più avanzate.
Per questo le opere contemporanee hanno necessità di trovare spazi alternativi. Compito non facile visto anche l’orientamento del sistema di finanziamento pubblico completamente sbilanciato verso la tradizione e con preoccupanti tentazioni verso la musica leggera.
Credo che l’ambiente del teatro di ricerca sia in questo momento molto ricettivo anche per quel che riguarda la nuova musica. Lo dimostra l’attenzione sempre più grande che molte compagnie di teatro dimostrano verso la musica contemporanea e l’esigenza, sempre più diffusa, di collaborazione con i musicisti nella creazione di nuovi spettacoli in cui la musica sia una parte integrante dell’ideazione.
In questa direzione è rivolto il mio lavoro con il Teatro delle Albe e con Fanny & Alexander che ha dato risultati interessanti sia dal punto di vista teatrale che musicale.
Credo comunque che il teatro musicale, oltre a cercare nuovi spazi alternativi, debba avere la forza intellettuale di avventurarsi in territori più vasti e di confrontarsi con le altre forme artistiche.
Continuare a parlare di teatro musicale nei termini tradizionali significherebbe isolare ancora di più la musica contemporanea, e relegarla nella torre d’avorio nella quale è isolata già da troppo tempo.
Oliviero_Ponte_di_Pino
Tag: CeccarelliLuigi (3), Ermanna Montanari (11), Marco Martinelli (21), Ravenna Teatro (21), Teatro delle Albe (29)
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