La satira politica
Un capitolo dell'Enciclopedia pratica del comico
Il comico – quando si sente in dovere di essere la bocca della verità – ha una pericolosa, irresistibile tendenza a parlare (oltre che di sesso) anche di politica, a mescolarsi con l’attualità, a mettere il becco in faccende più grandi di lui. Naturalmente ci sono tanti modi per farlo.
Uno è, per esempio, quello del francese Tim, che da 35 anni disegna vignette per il settimanale “l’Express”:
“Cerco di non avere un approccio sistematico a priori. È per pormi in piena libertà di giudizio per ogni problema, avvenimento o uomo politico e di non avere tabù. È stato un processo graduale fatto con grande tranquillità di spirito, ma anche con un maggior impegno personale senza pararsi dietro una dottrina”.
Sente di avere un punto di vista coerente nel tempo?
“Lo spero. Nel tempo ho cercato di non introdurre troppo il mio punto di vista personale e di non sposare alcun dogma. Da quando ho cominciato a lavorare all’“Express” ho sentito un maggiore obbligo di prendere posizione in quanto individuo, quali che fossero le diverse posizioni dei partiti politici”.
Quali sono per lei gli argomenti più importanti del momento?
“I diritti umani, le libertà individuali, la tolleranza reciproca, la difesa delle minoranze, per dirla in una parola, la democrazia”. (“il manifesto”, 22 settembre 1994)
In Italia la situazione sembra leggermente diversa. A discolpa dei nostri eroi, dobbiamo aggiungere che da noi i ruoli tendono a confondersi (non solo in questo campo). Sempre più spesso i comici vengono interrogati come maestri di vita e di saggezza, oltre che scambiati per segretari di partito; e sempre più spesso i leader politici vanno in televisione a raccontare barzellette ed esibire la loro (discutibile) simpatia.
“Il presidente Cossiga ha detto di apprezzare molto il genere comico, nello storico incontro con Chiambretti. Quindi possiamo permetterci di essere prodighi di riconoscimenti con lui. Ha dimostrato di essere una grande spalla; non meno grande di Mario Castellani, l’immortale onorevole dei vagoni di Totò”. (Beniamino Placido, “la Repubblica, 3 marzo 1992)
“L’intervento dei politici era una piccolissima parte di Saluti e baci. Dieci o otto o nove minuti su 120. È vero che volevano venirci tutti. Il nostro rapporto con loro stava in quell’iniziale intervento di Pippo Franco che diceva sempre: “Fino ad ora abbiamo riso di voi, adesso fateci ridere voi”. Ma non succedeva mai. Non hanno mai fatto ridere”. (Leo Gullotta, “La Stampa”, 7 agosto 1993)
“De Mita e Craxi hanno impiegato anni per diventare famigliari al grande pubblico: e se ci sono riusciti devono anche ringraziare la nostra parodia. Abbiamo contribuito e renderli più popolari”. (Pier Francesco Pingitore, “Televenerdì”, 13 gennaio 1995)
“Con la mia satira io rendo così grande certa gentuccia che finiscono per diventare degni oggetti per la mia satira e nessuno può aver niente da rimproverarmi”. (Karl Kraus, Detti e contraddetti)
“Certi personaggi mediocri li abbiamo fatti crescere fin troppo, noi che facciamo la satira. Non lo meritano. In futuro, per squalificarli, dovremmo cominciare a ignorarli”. (Antonio Ricci, “l’Espresso”, 5 gennaio 1995)
“Trovo triste abitare in un paese dov’è un comico a dover spiegare la politica in tv o sulle piazze”. (Beppe Grillo, “la Repubblica”, 1° luglio 1994)
“Non c’è nulla di più comico dell’economia, un filone inesauribile. E andando avanti così non mi mancherà certo il materiale per far satira”. (Beppe Grillo, “La Stampa”, 13 agosto 1994)
“Possibile che le informazioni ai giudici debba darle un comico?”. (Beppe Grillo, “la Repubblica”, 7 febbraio 1995)
“Scopo della satira sono i difetti e non i delitti, ai quali provvede il codice”. (Carlo Dossi, Note azzurre)
“Ormai i giornali mi chiedono l’opinione anche sulla proporzionale, si vede che in un momento di vuoto politico la linea politica la dettano i comici”. (Paolo Rossi, “il manifesto”, 16 dicembre 1992)
“La figura dell’intellettuale è cambiata. Fantozzi, per esempio, è presentissimo, insieme con tutti gli altri opinion makers adorati dalle masse: Funari e Zuzzurro, Greggio e Magalli. Lo constata Asor Rosa, lo ammette, con lucida disperazione, anche Rossana Rossanda”. (Giuliano Zincone, “Corriere della Sera”, 10 ottobre 1992)
“Occhetto mi sembra uno di quelli che di professione fanno gli spiritosi. Come i comici. Che a volte fanno ridere, a volte hanno cadute infelici. Berlinguer prima di dire una parola ci pensava un giorno. Occhetto è esattamente l’opposto. Ogni minuto una battuta e naturalmente nei momenti di difficoltà accelera. Ma le battute non sono mai una seria via d’uscita”. (Alessandro Natta, “il Giornale”, 26 maggio 1994)
“Quando all’indomani delle elezioni politiche, il segretario del Pds Occhetto ha fatto votare Spadolini per la presidenza del Senato mi son cadute le braccia: chiuso! basta! finito! Questo Partito democratico della sinistra non esiste più. Si dice che Berlusconi ha messo in piedi un partito che non c’è. Ma non c’è nemmeno il Pds”. (Sergio Staino, “Corriere della Sera”, 15 giugno 1994)
“Quando ho saputo che Occhetto si era dimesso ho pensato, istintivamente, che era evaso. Me lo sono visto, come in certi film americani, con il vestito a righe e la lima in mano che corre verso il confine del Messico”. (Michele Serra, “l’Unità”, 14 giugno 1994)
“Tra Massimo D’Alema e Walter Veltroni scelgo Roberto Benigni. Bisogna anzitutto attirare la simpatia dei giovani verso il partito e per questo credo che Roberto Benigni sia la persona adatta al ruolo di segretario del Pds, almeno per un po’, in modo da rendere il partito più simpatico e tradizionale”. (Oliviero Toscani, “la Repubblica”, 16 giugno 1994).
“È la prima volta che nel pieno di una drammatica crisi valutaria il presidente del Consiglio va alla televisione, non per annunciare provvedimenti, ma per raccontare barzellette”. (Mario Segni, “la Repubblica”, 13 agosto 1994)
“Quando Berlusconi era presidente della Fininvest seguiva con attenzione La sai l’ultima?. È un grande esperto di barzellette e ne tirava sempre fuori qualcuna che non conoscevo”. (Pippo Franco, “22 settembre 1994)
“Dieci anni fa, al tempo di Quelli della notte. Una sera arriva una telefonata sbigottita della presidenza Rai. Mi dicono: “Prodi vuol venire a vedere una trasmissione, in diretta, senza essere visto”. Era pazzo di Ferrini, Pazzaglia e Frassica, rideva moltissimo… Mi ricordo che, quella sera, per evitare che fosse ripreso, lo spostavo a gesti dietro le telecamere. Con i modi sbrigativi, tipici della diretta, lo sbattevo di qua e di là per lo studio… Da quella sera ci diamo del tu”. (Renzo Arbore, “la Repubblica”, 7 febbraio 1995)
“Io non avevo mai fatto satira perché, per citare Mao, mi sembravano più importanti le contraddizioni in seno al popolo, la solitudine della gente, i problemi di cuore… Però, ora, siamo in tempi in cui bisogna dire la propria, esporsi, come lo fanno, dall’altra parte della barricata, gli Sgarbi, i Funari. Io nemmeno mi ci sento a posto in questo ruolo, quando il pubblico ride sulle battute politiche di più facile satira mi arrabbio anche un po’”. (Claudio Bisio, “la Repubblica”, 8 gennaio 1995)
“Gli impegnati mi daranno addosso, ma per me la satira non può sostituire il mitra, io non mi sento un militante politico. Per me la satira è una valvola di sfogo per il malcontento della gente, la mia funzione è quella di additare gli scompensi, le contraddizioni che ci sono nel governo e anche nelle opposizioni. In questo senso, certo, è omogenea al sistema”. (Pier Francesco Pingitore, “la Repubblica”, 2 dicembre 1994)
“Non mi sono mai spostato dalle mie posizioni. Penso oggi quello che pensavo una volta, che i partiti sono la nostra sciagura, che i partiti pensano ai loro piccoli giochi e che all’interno dei partiti ognuno fa il proprio gioco: lo sapevamo tutti che Veltroni era il segretario del Pds e non l’hanno fatto… Negli anni Settanta ero un extraparlamentare di sinistra e lo sono ancora, sono per un movimento di sinistra e non per i partiti. Io, insomma, sono ancora sulle barricate, sono gli altri a non esserlo più”. (Giorgio Gaber, “la Repubblica”, 18 gennaio 1995)
“Non mi è mai piaciuta la condizione dell’attore che stando sul palco sa già che quelli di sotto sono d’accordo con lui, per cui basta stimolarli con la nota giusta perché scoppi un applausone… Anche quando mi trovo a lavorare su uno come Berlusconi che ha tutte le caratteristiche del personaggio “cattivo”, ho sempre il dubbio che le cose siano più complicate di quel che sembrano. È un problema che vale per tutta la satira: un genere sempre obbligato a semplificare troppo la realtà”. (Sabina Guzzanti, “la Repubblica”, 17 luglio 1994)
“È più facile sfottere Berlusconi che prendere di mira chi ha votato Berlusconi”. (Andrea Brambilla alias Zuzzurro, “Corriere della Sera”, 16 luglio 1994)
I nostri film, ci ricorda Enrico, “come ha scritto Lietta Tornabuoni, hanno raccontato una certa realtà italiana, attenti a come la gente parla realmente e a quello che la gente dice”.
Film come Yuppies o Via Montenapoleone.
“Film”, sottolinea Carlo, “che rispecchiano fedelmente la piccola borghesia italiana, così come la vediamo e conosciamo. Con mio fratello, ci siamo divertiti per anni a prendere in giro gli arricchiti metropolitani, quelli che appena fanno quattro soldi si comprano il Rolex e si fanno la settimana bianca a Cortina (dove i Vanzina, invece, hanno una bella casa, ndr). Non abbiamo fatto altro che riportare quelle facce e quegli atteggiamenti nei nostri film”. (Enrico e Carlo Vanzina, “Il Venerdì di Repubblica”, 20 gennaio 1995)
“Sto ancora studiando il nuovo tipo di coatto. Il bullo della Seconda Repubblica è molto confuso, non ha più punti di riferimento. Quello degli anni Settanta inseguiva un po’ i miti del decennio prima. Quello di adesso è meno logorroico. E io sto ancora prefezionando il suo linguaggio”. (Carlo Verdone, “il Venerdì di Repubblica”, 10 febbraio 1995)
“Il protagonista di Aspettando Godo si interrogava sugli anni ’80 e soffriva della Sindrome di Qui. Cinque anni dopo, in Tersa Repubblica lo stesso personaggio è immerso nella Seconda Repubblica ma ha un problema: si sente osservato, studiato, spiato. Dorme poco, sta perdendo l’appetito. Alla fine scopre di avere la Sindrome del Sondaggio, la nuova malattia di questi anni ’90. Ma come fanno i sondaggi? Fanno delle domande a un campione. Però, a lui, nessuno gli ha mai chiesto niente, e allora non è un campione, e allora sta ancora più male…”. (Claudio Bisio, “Comix”, 27 dicembre 1994)
“È Di Pietro la new entry del ’95. Se ne starà buono per un po’, poi rientrerà, E diventerà un soggetto satirico molti interessante. Finora Di Pietro era, semplicemente, troppo buono. Se farà politica si sporcherà le mani inevitabilmente. Sarà lui l’uomo del destino. Un oracolo temutissimo. Ogni tanto tirerà fuori delle date, dirà magari: “6 febbraio 1989!”. Nessuno di noi capirà. Ma Agnelli capirà benissimo. E così via…”. (Gino Vignali, “l’Espresso”, 5 gennaio 1995)
“Benigni ci dice che non è cambiato nulla: ci fa ridere sempre alla stessa maniera, per le stesse cose contestando un Potere che riesce a cambiare tutt’al più (e neanche sempre) qualche nome ma che rimane insopportabilmente odioso e uguale a se stesso. Benigni di ieri era uguale a quello di oggi: persino la giacca secondo me era la stessa. Stessi abiti, stessa irruenza, stessa malinconia, stessa meravigliata incredulità e identica presa di distanza da quel Potere”. (Fabio Fazio, “l’Unità”, 27 aottobre 1994)
“La satira diretta ai potenti ha mostrato di non provocare reazioni. La controparte è immobile”. (Altan, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 27 marzo 1992)
“In Italia la satira politica finisce per cadere negli stereotipi di sempre, noiosi, anche repellenti a volte”. (Emanuele Pirella, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 27 marzo 1992)
“Io ne sono ormai sicuro: uno, dieci, cento sberleffi non fanno un graffio al potere. Non oggi, non al potere di oggi. Facciamo ridere di Berlusconi? Tra quelli che ridono, una minoranza trova conferma dei suoi dubbi e delle sue critiche, la maggioranza invece digerisce tutto come una barzelletta, innocua se non benefica per i personaggi principali della storia. Una volta l’ironia poteva far sobbalzare il potere, c’era infatti un triangolo: il potere, poi la cultura e poi la maggioranza silenziosa. Adesso invece la maggioranza silenziosa e il potere sono la stessa cosa, ed entrambi hanno in antipatia la cultura che c’era. Se scherzi, sghignazzano anche loro, se fai sul serio si incazzano”. (Paolo Villaggio, “la Repubblica”, 27 ottobre 1994)
Se i comici non possono scalfire il potere, resta sempre aperta una strada: far concorrenza ai politici sul loro stesso terreno.
“Smetterò di fare politica quando i politici smetteranno di fare i comici”. (Michel Colucci, in arte Coluche, 1945-1986, comico francese, più volte candidato alla presidenza della repubblica)
In Italia, dopo gli effimeri trionfi di Giannini e dell’Uomo Qualunque, dopo le candidature di Paolo Villaggio, Enrico Montesano, Ombretta Colli eccetera, il comico francese sta trovando sempre nuovi imitatori: Massimo Loche a Tunnel, ma non solo…
“Domani fondo un nuovo partito, il partito del “Come va? Bene, grazie”. E alle prossime elezioni mi candido. Scommettiamo che batto tutti?”. (Beppe Grillo, “Corriere della Sera”, 30 giugno 1994)
“Quando eravamo a Viterbo, sui muri della città c’erano dei manifesti del mio spettacolo dove mi si vede in una immagine bella patinata, vestito di tutto punto, sorriso a trentadue denti, lo sguardo rassicurante. Un po’ in stile Seconda Repubblica, insomma. Quando il sindaco, credo democristiano, li ha visti si è allarmato: “Bisio? Chi è ‘sto Bisio? Sarà mica il candidato di Forza Italia?”, pare abbia chiesto ai suoi collaboratori. “Che fa? Comincia già ora la campagna elettorale? È sleale””. (Claudio Bisio, “la Repubblica”, 8 gennaio 1995)
Enzo Biagi: “Qual è l’aspetto più comico della vita italiana?”.
Roberto Benigni: “Il fatto che siamo il popolo di san Francesco e votiamo sempre il più ricco. Horca miseria zozza, come si presenta uno con un sacco di soldi, zac!, vince”.
Enzo Biagi: “Fa un augurio agli italiani”.
Roberto Benigni: “Io vorrei tanto metter su un partito con lei, Biagi. Ora va di moda gli alberi, si prende per simbolo un bel pero. Slogan: fate una pera, e come va a finire va a finire”.
(Il fatto, 21 febbraio 1995)
“Grazie a Dio la politica è diventata spettacolo. Non è più quella cosa incomprensibile guidata da una minoranza fumosa che ne parlava bene per non farsi capire”. (Renzo Arbore, “la Repubblica”, 7 febbraio 1995)
“Io sono soltanto una cosa, e nient’altro che quella: un clown. Questo mi mette su un livello superiore a qualsiasi uomo politico”. (Charlie Chaplin, “The Observer”, 17 giugno 1960)
Prima un paio di fatti.
Novembre 1996. Chiude “Cuore”, il settimanale di satira più famoso d’Italia. “Il declino non è cominciato quando io sono andato via. Già nell’ultimo anno della mia gestione, 1993, abbiamo cominciato a perdere colpi. Qualcosa si era già interrotto. Purtroppo in Italia abbiamo il mito del ‘Canard Enchainée’ che esce da 70 anni e vende. Ma non si capisce che il ‘Canard’ non fa satira. La vera satira, infatti, è balle allo stato puro. Scatta nel momento in cui si sparano frottole con alto significato metaforico. Purtroppo questi fenomeni hanno vita breve, andando avanti diventa manierismo. La vera sfortuna è che in Italia non ci sono i rincalzi capaci di rilevare il testimone passato da ‘Cuore'” (Michele Serra, “Corriere della Sera”, 5 novembre 1996).
Dicembre 1998. La Corte di Cassazione riconosce il “diritto di satira”, annullando la sentenza di condanna a Vauro Senesi e al giornalista del “Venerdì di Repubblica” Sergio Frau, in seguito alla querela presentata dalla senatrice Alberti Casellati dopo la pubblicazione di una vignetta che peraltro era già apparsa su “Cuore”. La Suprema Corte sentenzia che la satira è “un diritto a sé”, e che al suo linguaggio non si può applicare il metro di correttezza dell’espressione. “La satira politica, secondo la Cassazione, è libera espressione della cultura delle istituzioni (cultura da non intendere soltanto come quella ufficiale, ma più in generale come sintesi di nozioni e sentimenti della vita del paese). Chi fa satira può dunque usare l’ironia “sino al sarcasmo”, e “all’irrisione di chi esercita un pubblico potere, in tal misura esasperando la polemnica intorno alle opinioni e ai comportamenti”. Inoltre, poiché la satira è anche “espressione artistica”, non dev’essere soggetta, come tale, agli “schemi razionali della verifica critica”. Attraverso la metafora paradossale dev’essere comunque “riconoscibile se non un fatto o un comportamento politico”, almeno la presunta opinione del personaggio pubblico, “secondo le sue convinzioni altrimenti espresse, che per sé devono essere di interesse sociale”. Quanto al linguaggio della satira, è “essenzialmente simbolico e frequentemente paradossale”, e dunque “non si può applicare il metro consueto della correttezza d’espressione”. Ma anche la satira ha un limite: al pari di ogni altra manifestazione di pensiero, essa non può superare il rispetto dei valori fondamentali, esponendo, oltre al ludibrio della sua immagine pubblica, al disprezzo della persona”.
Novembre 1999. Massimo D’Alema chiede tre miliardi di danni a Giorgio Forattini per una vignetta apparsa su “Repubblica” l’11 ottobre e dedicata al “caso Mitrokhin”. “Evidentemente il capo del governo vuole farsi una barca più grande”, commenta Vauro (“Corriere della Sera”, 11 novembre 1999). E Altan: “Dare notizie e fare satira sono due cose diverse: non si possono applicare all’uno le regole dell’altro. Altrimenti, per la satira è davvero la fine”. Una puntata di “Porta a porta” dedicata alla satira politica, che avrebbe dovuto prendere spunto dall’episodio, viene annunciata e improvvisamente annullata. In seguito alla vicenda il vignettista abbandona, dopo più di vent’anni, il giornale. “Ha fatto bene Forattini a rifiutare la dichiarazione assolutoria chiesa da D’Alema. E’ D’Alema che ha sbagliato e quindi era semmai lui a dover dichiarare qualcosa: mi rammarica che continui invece a insistere nell’errore”, dichiara Sergio Staino al “Corriere della Sera” (30 dicembre 1999).
“Molti autori satirici hanno la fierezza di essere dei veri e propri opinionisti politici. Ma allora si può avere senso dell’umorismo e ridere di una vignetta cattiva e nello stesso tempo contestarla dicendo che l’umorista aveva politicamente torto. Altrimenti l’umorista è un buffone che qualunque cosa dica non fa male a nessuno. Bisogna decidersi: è un buffone o un opinionista?”. (Umberto Eco, “Corriere della Sera”, 29 ottobre 1998)
“La satira (…) è sempre a rischio di scivolare nel conservatorismo, nella reazione, nel qualunquismo (…) ha sempre un fondamento reazionario, contro il nuovo”. (Valentino Parlato, “il manifesto”, 27 dicembre 1997)
“Valentino Parlato è molto sincero. Usa il termine ‘reazionario’ perché lo ritiene il maggiore insulto, ma le stesse cose potrebbero dire il Papa, Stalin, Craxi, Mao, Mussolini o Fidel Castro, tutti coloro che hanno bisogno di seminare certezze nel mondo. Diffidano della satira e hanno ragione perché questa è l’antitesi delle certezze, la sua natura è spargere dubbi, guardare dietro, rovesciare le cose. Uno spirito laico e veramente nuovo bada a esprimere ciò che non gli verrebbe da una lettura tradizionale della realtà”. (Sergio Staino, “Corriere della Sera”, 28 dicembre 1997)
“La vera satira dovrebbe essere sempre nel mirino della censura, tanto da essere annullata dai ‘poteri forti’, che però non sono quelli che si vedono o che crediamo di sapere. La satira oggi graffia senza sangue, è un genere ‘reazionario'”. (Enrico Ghezzi, “Corriere della Sera”, 14 agosto 1997)
Lei non censurò mai nulla?
“Dario Fo (…) E chi se l’immaginava che arrivava al Nobel? Comunque non me ne sono mai pentito (…) La satira politica alla Rai entrò con me. Contro i dorotei, che non la volevano. Ma lei deve capire i tempi. Si camminava sulla lama del rasoio. E le assicuro che quello sketch non faceva ridere. C’erano stati degli scontri di piazza dirussimi tra gli edili e la polizia. Erano giorni di tensione (…) altissima. E Fo faceva una scenetta con un imprenditore edile che, mentre gli davano la notizia che un muratore era caduto da un’impalcatura ed era morto, pensava solo a un enorme brillante che regalava a un’amichetta. Non faceva ridere per niente. Ed era, in quei momenti, incandescente. Gli chiedemmo di cambiarla, lui si impuntò: me ne vado. Gli dissi: vai”. (Ettore Bernabei, “Corriere della Sera”, 21 settembre 1998)
Quando costruisci il tuo monologo non è che fai un proclama politico: la satira politica è istintiva, ti aiuta a prendere le distanze dalle certezze del governo, colpisce chi vuole e dove vuole. E’ una valvola di sfogo contro ogni forma di politically correct”. (Paolo Hendel, “Corriere della Sera”, 15 maggio 1998)
“In teatro la satira politica puoi ancora farla, vengono a vederti per scelta, in tv invece parli a tutti, l’imitazione per essere efficace dev’essere riconoscibile (…) La satira non ha il compito di distruggere nessuno. Può, deve, essere cattiva, ma non ha il potere di scalzarlo dal piedestallo: Martelli non è caduto perché io ne facevo l’imitazione. Il compito della satira è un altro, riavvicinare i cittadini alla politica, creare partecipazione. Se nessuno si interessa più di quello che succede nel Palazzo, chi ci sta dentro il Palazzo fa quello che gli pare”. (Sabina Guzzanti, “Corriere della Sera”, 3 dicembre 1998)
“Anche se vincesse la sinistra, non ci appiattiremo certo su governi progressisti nati da mille mediazioni e opportunismi, in un clima politico dove tutti tendono a volere le stesse cose facendo la corte agli stessi Di Pietro e Dini”. (Sergio Staino, 1996, “Corriere della Sera”, 28 luglio 1998)
“Prima c’era la sinistra che sosteneva gli autori di satira quando erano attaccati dal potere. Poi arrivò il governo dell’Ulivo, e noi lì contenti a sognare: chissà che begli spettacolini ci preparano. E invece niente. La Rai che ha fatto? Ha comprato uno spettacolo di Beppe Grillo e non l’ha mai mandato in onda: per me è un gravissimo caso di censura. Intanto ritornavano la Carrà e perfino la Zingara. Oggi che la Rai ha un solo spettacolo di satira (La posta del cuore), lo stanno massacrando (sotto tiro l’imitazione di Daniela Fini da parte di Cinzia Leone, n.d.r.). Usano la scusa del politicamente corretto, ma è un’assurdità: la satira per definizione è scorretta. Non vogliono la satira, lo dicano. Ma l’idea di mettere i paletti è proprio sbagliata”. (Antonio Ricci, “Corriere della Sera”, 17 novembre 1998)
“Striscia la notizia sfotte spesso Berlusconi o altri uomini di potere, ma in fondo è di regime. Lo stesso i Guzzanti: nei travestimenti e nelle imitazioni sono straordinari, ma nulla di più. Ai politici fa solo piacere essere presi in giro: una cosa che ho imparato fin dai tempi di Alto gradimento. In tv non solo non si fa satira politica, ma neppure di costume, c’è soltanto molto qualunquismo”. (Gianni Boncompagni, “Corriere della Sera”, 14 agosto 1997)
“Vorrei vedere Ricci alzare il bersaglio, vorrei che se la prendesse con certi magistrati che impugnano lo spadone, con certi finanzieri all’arrembaggio, con i Prodi, con i Veltroni, con gli Agnelli, con i Ciampi, con quelli che veramente gestiscono il potere”. (Giampaolo Sodano, “Panorama”, 15 agosto 1997)
“A Striscia facciamo controinformazione in maniera provocatoria, noi siamo evidentemente falsi. Non utilizziamo giornalisti, l’impianto della trasmissione è quello del varietà di ballerine e i conduttori sono dei comici così come gli inviati sono dei cabarettisti. Tutto questo per dire che non siamo nella verità ma nel varietà, appunto, con tanto di risate finte di un pubblico fantasma e un ideologo che è il Gabibbo, un pupazzo”. (Antonio Ricci, da un’intervista di Arianna Di Genova, “Alias”, 3 marzo 2001)
“Striscia la notizia, nonostante i suoi ascolti, è irrilevante. (…) La partita è truccata. Se fossero veramente coraggiosi andrebbero in Rai: troppo comodo fare i situazionisti da Berlusconi. In Rai ti ostacolano per motivi politici. Di là ti bloccano solo se fai poco share”. (Daniele Luttazzi, “l’Espresso”, 1° febbraio 2001)
“Fino a 10 anni fa i politici rappresentavano dei miti, quindi se ne poteva fare la satira. Ora sono solo dei signori messi alla prova su cose tecniche e la satira se la fanno da soli. Oggi non fa differenza fare la parodia di Bertinotti o la Carrà, non sono mondi poi tanto lontani”. (Corrado Guzzanti, “Corriere della Sera”, 8 gennaio 1999)
“Io sono 55 milioni di italiani. Ho, per fortuna, la stessa sensibilità che ha la massa (…) per cui quando devo dire una battuta, la dico solo se prima rido io. E non è mai successo che se rido prima io, gli altri non ridano dopo”. (Adriano Celentano, 1982, ripreso da “Il Venerdì di Repubblica”, 20 aprile 2001)
“A me sembra che la satira politica mi vada stretta, sia violenta, limitativa, troppo facile: non rinuncio a dire la mia, ma con altri mezzi”. (Antonio Albanese, “Corriere della Sera”, 2 novembre 1996).
“La satira politica mi annoia”. (Diego Abatantuono, “Corriere della Sera”, 28 dicembre 1998)
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