Teatri di guerra a cura di Federica Fracassi
(Fare un teatro di guerra?)
Fare un teatro di guerra
a cura di Federica Fracassi
“ateatro”, nei numeri 4 e 5, ha ospitato alcuni degli interventi che sono poi confluiti nel volume a cura di Federica Fracassi, pubblicato da scriba studio edizioni (info: scribastudio@tin.it). Con questo numero di “ateatro” si completa la panoramica degli interventi in anteprima.
Grazie
Centro Sociale Leoncavallo
“per stare in questo viaggio dovete dimenticare il vostro nome, bruciare le vostre carte d’identità…..” (Viaggiatori, 1996)
Vogliamo darvi il benvenuto con questa battuta di uno spettacolo* di alcuni anni fa perché ci piace pensare quest’incontro come l’inizio di un viaggio, la partenza di una carovana di uomini e donne che hanno la necessità e il desiderio di abbandonare le posizioni raggiunte per mettersi a rischio nelle zone di guerra. In quei territori bombardati dal conformismo culturale, come Milano, città in cui – più che altrove – il vorticoso e vorace consumo di eventi spettacolari produce svuotamento di senso, annullamento delle differenze e omologazione di ogni spinta creativa.
Milano, dove al vuoto culturale che avanza, come paradosso dei molteplici eventi proposti anche di ottima qualità e spesso a buon mercato, si risponde con la Fabbrica del Vapore: appropriazione indebita e strumentale di formule organizzative e autogestionarie altrui per trasformarle in operazione d’immagine calata dall’alto a scapito e dichiaratamente contro le esperienze spontanee e informali già esistenti e consolidate negli anni. Distanti dai bisogni della città. Questi ultimi espressi soprattutto nelle necessità diffuse di riqualificazione – anche attraverso percorsi progettuali periferici – dei territori , di valorizzazione delle pluralità artistiche e dei linguaggi, di potenziamento di momenti d’incontro delle comunità e di sostegno a quegli ambiti informali di produzione culturale che spesso proprio su quegli stessi territori sono presenti.
A mancare, ci sembra, è quel contesto di relazioni sociali e culturali che rendono significativo e pregnante un fatto artistico, trasformandolo in capacità di incidere sui comportamenti e sugli immaginari collettivi. Per questo abbiamo sostituito da tempo l’attenzione ai luoghi della cultura con quella per i contesti in cui questa viene prodotta e consumata.
Ed è da qui che vogliamo partire (nuovamente, lo abbiamo fatto varie volte nel corso della nostra storia), per tentare di riallacciare il legame tra produzione culturale e tessuto sociale, di trasformare il lavoro e l’esperienza dei singoli gruppi, operatori culturali ed artisti in una nuova visione critica del mondo che ci circonda, e in definitiva di riportare la metafora dell’arte, alle tensioni della vita.
Un procedere per tappe, inventando occasioni di riflessione con cui scandire i prossimi mesi, che ci vedrà camminare insieme ai tanti incontrati in questi anni (soggetti diversi per natura ruoli, appartenenze, per biografia e storia), coinvolgendoli nel tentativo di dar vita, per quanto ci riguarda, ad un nuovo percorso progettuale che partendo dai luoghi non convenzionali, non istituzionali, possa ripensare il senso e la funzione del teatro nella in-civiltà contemporanea..
E’ tempo di andare al di là della transitorietà degli eventi, di aprire cantieri permanenti, tessere reti, costruire piccoli osservatori per lo scambio delle esperienze. Uscire dagli steccati dei propri luoghi (e ruoli) affinché nuovi “centri”, intesi come catalizzatori di energie, risorse, ragionamenti, progetti si affermino e si moltiplichino, e – non ultimo – per sperimentare nuove formule di organizzazione e di finanziamento, e consolidare percorsi artistici sottraendoli alla precarietà delle proprie condizioni di vita e di lavoro.
Infine, riteniamo – ed è per questo che vi chiediamo di dimenticare il proprio nome… – che non serva oggi al teatro l’affermazione di forti identità ed appartenenze (il regista di fama, il critico noto, il gruppo ormai arrivato, l’istituzione teatrale affermata, consolidata e fagocitante) ma si debba partire dalla messa in relazione dei molteplici soggetti che a vario titolo producono cultura intrecciando nella rete sensibilità, riflessioni, competenze, progettualità per affermare con forza che il sistema teatrale attuale non è l’unico teatro/mondo possibile.
*(spettacolo prodotto da Senzasipario nel ’96 per la regia di gigi gherzi con attori provenienti dai centri sociali milanesi)
Due frammenti
di Pippo Delbono
Una volta mi ricordo quando ero piccolo stavo dormendo nella casa di mia nonna, una casa sulla collina dove si apriva una grande visione del mare e io una notte ho sognato che da quel grande mare usciva una grande nave e da questa nave spuntavano degli uomini vestiti di nero con gli occhiali scuri come soldati e riempivano tutto il mare e scoppiava una guerra su tutto questo mare e poi tutti si trasformavano in angeli e volavano via.
C’è un mistero che non diventa comunicazione se non l’ami tantissimo e se non vuoi che esca fuori in una maniera che altri la sentano, come la senti tu. Bobò è come se fosse al cuore di una profonda contraddizione della vita in cui nella violenza, nel limite, nel dolore c’è l’aspirazione alla gioia. E’ così anche nella vita personale di ciascuno: quando sei ferito, trapassato, quando sei precipitato nel dolore non hai voglia di giocare col dolore o di parlare tristemente del dolore, hai voglia di vita. Quando sono stato a Sarajevo la gente che aveva vissuto per quattro anni assediata, circondata, bersagliata dalla mattina alla sera dai cecchini, ora voleva parlare di vita. Parlano con tristezza della guerra quelli che la guerra la vedono sui giornali o la vivono da lontano. E’ lo stesso per quelli che parlano di handicap rispetto agli handicappati.
C’è stato qualcuno che Barboni l’ha odiato: ha proiettato una sua rabbia, qualcuno addirittura parlava di “relitti umani in scena”. Invece io credo che nell’esperienza della crisi, del disequilibrio, della sofferenza c’è una possibilità straordinaria di bellezza. E’ questa bellezza che io cerco…
E poi questo era il periodo della guerra in Bosnia e io vedevo alla televisione tutti quei morti, quei massacri, quelle stragi, e mi dicevo: “Ma Pippo, non puoi stare lì col tuo piccolo problemino mentre nel mondo ci sono le guerre!”. Niente. Ero diventato apatico a tutto. E poi mi veniva in mente quando ero a Lima, in Perù, e c’era il coprifuoco e la polizia sparava per le strade e non si poteva uscire e la gente faceva delle feste dove ballavano, ballavano tutta la notte, e allora io mi dicevo: “Anche tu Pippo, devi danzare, danzare, danzare in questa guerra!”
(Da Barboni. Il teatro di Pippo Delbono, Ubulibri, 1999)
Teatri di guerra
di Gigi Gherzi
La guerra non è un tema.
Non si chiama Kossovo, Mafia, Chiapas.
Non farsi belli della guerra.
Non aggiungere l’ennesima perlina
alla collana del “politically correct”.
La guerra racconta di noi,
del nostro rapporto col mondo.
Tanto teatro vive ignorando la guerra.
Per ignoranza si ignora.
Per l’arroganza tipica dei professionisti invecchiati.
In omaggio agli ultimi miti decadenti “sull’essere artisti”.
L’unica guerra che conosce è quella meschina
per la sopravvivenza.
Occupare poltrone. Trombare l’avversario.
Vendere più del gruppo concorrente.
Intortare il critico. Passare il provino.
La tristezza: giovani che invecchiano
aspettando di passare i provini.
La guerra vive nelle nostre cellule.
E’ quella a bassa intensità che si avverte quando si guarda fuori
e ci si accorge che il mondo sta morendo.
Consumato dalle regole di una “necessità”
che ha assunto la forma dell’incubo.
Le leggi oggettive del mercato.
Le leggi oggettive del sopravvivere.
Palle.
Allora non si parla di Chiapas.
Si è Chiapas.
Si partecipa a quella bestemmia.
Si è Vajont.
Si è quel paese distrutto.
Si è la guerra presente nel mondo, perché, qui e ora,
la stiamo vivendo.
Testimoniarlo è atto d’amore.
E’ anima che trabocca e si espande.
Che incontrando l’altro incontra se stessa.
Non si può che essere teatro di guerra, sempre.
Con visione e fantasia.
Imparando dagli errori del passato prossimo.
Non affrontare il nemico sul territorio a lui favorevole.
Non copiarne il linguaggio.
Non accontentarsi della miserabile nocciolina
rappresentata dal “riconoscimento della diversità”.
Disinteressarsi del ricambio generazionale.
Delle politiche rivolte ai “giovani gruppi”.
Dedicare forza e amore e passione
al pezzo di mondo che si sta costruendo.
Sapere che solo quel mondo, quei fratelli,
sono la tua forza,
il virus che potrà espandersi ed attecchire.
Essere più belli del nemico.
Praticare la sfida disarmata.
Essere coscienti che le luci del “centro”
vivono di uno splendore mortuario.
Costruire nuove forme di produzione e di incontro.
Pensare al teatro come a una selva
in cui, inizialmente pochi, si ha bisogno di capirsi,
di sperimentare leggi ed etiche,
forme della solidarietà, dell’incontro, della creazione.
Nessuna distinzione tra noi e il pubblico.
Ogni spettatore è un’artista che ti guarda.
La scommessa è comune.
Quando la colonna sarà pronta per partire
che il viaggio sia meraviglioso.
Nel frattempo, lavorando nel piccolo,
costruire mondi che permettano il respiro.
Essere combattenti della guerra che mira
a incrinare l’ignoranza.
Estinguerci nelle nostre identità fasulle.
Rinascere ricreando il sogno dell’arte.
Gigi Gherzi, marzo 2001
Tag: Teatro di Guerra (19)
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