4 Amleti per il Novecento

In magine a Shakespeare & Shakespeare alla Biennale di Venezia

Pubblicato il 12/03/2001 / di / ateatro n. 004

La Biennale di Venezia ha costruito un mini-festival intorno al debutto dell’Otello con la regia di Eimuntas Nekrosius: spettacoli, mostre, incontri, film… raccolti sotto l’etichetta Shakespeare & Shakespeare.
Shakespeare & Shakespeare è anche il titolo del volume curato da Luca Scarlini in collaborazione con Elisa Vaccarino (e pubblicato da Marsilio) che raccoglie “trascizioni adattamenti tradimenti 1965/2000”: si parla di spettacoli (ovviamente), libri, balletti, musiche, pubblicità, in vario modo ispirate a WS e alle sue opere. Qui sotto, il mio modesto contributo all’impresa.

Sceglierne solo 4 è durissima, solo di Amleti “fondamentali” nel Novecento ce ne sono stati a centinaia, ne ho schedati alcuni per il CD-rom shakespeariano fatto per Garzanti e avrei potuto andare avanti ancora a lungo. Insomma, anche limitandomi al Pallido Prence non saprei davvero quali sue incarnazioni privilegiare. Oltretutto non capisco se questo sondaggio punta a proclamare in una specie di hit parade lo “Shakespeare del Secolo”, oppure se l’obiettivo è un censimento che vada anche alla scoperta di curiosità ed eccentricità.
Se dovessi però fare quattro segnalazioni amletiche (e limitandomi agli spettacoli), comincerei col fare un gioco delle coppie, una piccola parodia alla Lévi-Strauss, per delimitare il ring.
La coppia numero uno contrapporrebbe il primo Amleto integrale al primo Amleto in abiti moderni, la messinscena di Robert Benson nel 1900 a Londra a quella realizzata nel 1925 dalla Birmingham Repertory Company di Barry Jackson con la regia di H.J. Ayliff. Insomma, la filologia contro l’attualità, il rispetto puntiglioso contro la libertà assoluta. Benson (che nel 1881 aveva portato in scena l’Agamennone in greco) in uno spettacolo di oltre cinque ore sfatò il mito dell’irrappresentabilità dei testi integrali, dopo secoli di tagli e adattamenti. Jackson riuscì invece a rendere il Bardo popolare: era questo l’obiettivo della sua modernizzazione, che in pochi mesi contagiò in un’autentica epidemia le scene del mondo intero. Da allora abbiamo visto ormai centinaia e centinaia di attualizzazioni adattamenti: ma è curioso ricordare che nella prima scena, in quell’ormai lontano 1925, il regista fece salire le luci lentissimamente, per attutire lo shock ed evitare le risate del pubblico di fronte a un principe con i calzoni alla zuava e la camicia bianca.
La seconda coppia contrapporrebbe Gustav Gruendgens a Nikolaj Okhlopkov, l’Amleto del Terzo Reich (Berlino, 1936) a quello post-staliniano (Mosca, 1954). Hitler lasciava mettere in scena il capolavoro di Shakespeare, a patto che diventasse il prototipo dell’eroe ariano. Stalin durante la Seconda guerra mondiale ne aveva vietato la rappresentazione. L’interpretazione di Gruendgens (protagonista e regista) era ricca di ambiguità, e rifletteva la sua solitudine all’interno del regime: il più celebre Mephisto della storia era peraltro sovrintendende del più prestigioso teatro tedesco, lo Staatstheater di Berlino. Nello spettacolo del Teatro Meierchol’d, pochi mesi dopo la morte di Stalin, campeggiava un gigantesco portale-sipario che trasformava l’intera Danimarca in una grande prigione. Inutile dire che Amleto un testo politico, e che le sue interpretazioni costituiscono dunque un’autentica cartina di tornasole delle oscillazioni di ogni regime.
Nella terza coppia metterei Carmelo Bene (e anche la Societas Raffaello Sanzio) e Federico Tiezzi. Carmelo Bene di Amleti ne ha disfatti tanti, dal 1961 a oggi, in teatro e tra cinema e tv. La Raffaello uno solo: l'”amlodhi” (che in antico norvegese vuol dire più o meno deficiente”) del gruppo romagnolo è andato in scena nel 1992. Federico Tiezzi alle sue Scene di Amleto ci ha lavorato per tre anni, dal 1999 al 2001, al volgere del secolo. Da un lato la distruzione di tutte le rappresentazioni-interpretazioni possibili, dall’altro l’accumulo e la contrapposizione delle varie letture del testo, la stratificazione delle interpretazioni critiche e delle messinscene. Da una parte lo svuotamento del senso, lo smontaggio degli elementi che concorrono alla creazione dello spettacolo, la regressione, l’autodistruzione, la sintesi. Dall’altra la fiducia (forse ingenua, forse disperata) nella capacità di un testo di generare senso, di farsi oggetto di infinite interpretazioni, di aprirsi a una molteplicità di sguardi. Nei due casi, però, è un Amleto per frammenti, sminuzzato e ricomposto. Distillato, assottigliato, sottratto, oppure analitico, proliferante, stratificato. Se il Novecento ha segnato il passaggio dalla modernità alla post-modernità, anche Amleto ha fatto la sua corsa.
La quarta coppia: Giovanni Tesori e Heiner Mueller, due delle tante riscritture del testo. Nel suo Ambleto (1973) Testori tritura e deforma espressionisticamente parole e frasi, le torce tra lingua e dialetto, le contamina con termini stranieri e di locuzioni di storpiato latino, per ritrovare forza alla fabula, al racconto, e riscoprire così attraverso Amleto la propria disperata umanità. In Hamletmaschine (1977) Mueller cristallizza la lingua in versi dalla scansione classica, e però tritura il racconto, lo squarcia per riempirlo di suggestioni legate alla propria biografia e all’attualità, componendo un mosaico allucinato e rivelatore sulla fine della storia.
Ma forse (mentre la memoria si affolla di altre incarnazioni) l’Amleto più importante del secolo, quello che potenzialmente contiene tutte le successive messinscene shakespeariane, resta uno spettacolo “sbagliato”, non riuscito. E’ quello nato a Mosca dall’incontro-scontro tra due geni del teatro come Stanislavskij e Craig, eternamente sospeso tra le suggestioni del monodrmma e del grande allestimento. Ma sulla collaborazione tra questi due geni teatrali si è già scritto moltissimo – inutile aggiungere altro, se non la consapevolezza che a teatro anche gli errori possono essere fecondissimi.

Oliviero_Ponte_di_Pino




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