Il presepe della vita e della morte (del teatro)

L'eredità di Eduardo in Natale in casa Cupiello per la regia di Antonio Latella

Pubblicato il 11/01/2015 / di / ateatro n. 152

Dodici attori in fila sul proscenio vuoto come statuine di un presepe colossale da costruire, con tanto di cometa luminosa gigante che scende dal graticcio a riempire lo spazio scenico di una capanna fuori scala, tutta da immaginare nelle sue proporzioni scombinate e da penetrare con sguardi che in platea si scoprono lillipuziani. Fin da questa prima lunga, ipnotica scena del Natale in casa Cupiello di Antonio Latella, il presepe è, evidentemente, il teatro stesso, e l’accoglimento della metafora è immediato proprio in quanto il necessario adattamento prospettico da parte dello spettatore lo coinvolge nella dinamica di un effetto percettivo di natura puramente teatrale.
Del resto le didascalie introduttive del testo di Eduardo, scandite in coro, e poi quelle riguardanti ciascuna parte singolarmente, distanziano e dichiarano subito il doppio livello testuale su cui, ancora una volta (come in Un tram che si chiama desiderio o nel Servitore di due padroni), Latella muoverà le sue pedine attorali. Quello delle battute recitate dal “di dentro” di un ruolo mai del tutto definito e assunto, e quello appunto delle didascalie che straniano e divaricano il personaggio dall’attore, in un proficuo esercizio creativo ed esegetico insieme che si confronta da una parte con le teorie interpretative che hanno accompagnato l’evolversi dell’arte scenica, dall’altro con la tradizione del teatro di Eduardo e la lunga storia dei suoi effetti e ricaschi sulla scena e sulla drammaturgia italiane.

Natale in casa Cupiello (primo atto)

Natale in casa Cupiello (primo atto)

Allo sguardo zoomato sul palco corrisponde infatti un dispositivo di “ingrandimento” del testo. La messinscena di Latella sembra muovere una lente indiscreta sulla commedia andando a sentire la grana delle parole originali, a leggere tra le righe, a scoprire inattesi risvolti nell’inconscio testuale, a soppesare le variazioni della travagliata stesura del testo (com’è noto, l’atto unico che debuttò nel 1931 diventò il secondo atto nella versione definitiva, mentre il primo fu aggiunto nel ’32 e il terzo nel ’34, ma vi furono altri interventi fino alla versione del 1943, che risente dell’incontro con Pirandello, e oltre).
Scaturisce così una drammaticità nuova nella tensione tra testo e didascalie, ma anche tra la lettera del testo e la sua forma, perfino grafica, rivelata spesso da ripetizioni ritmiche e dalla sottolineatura degli accenti. È questa presenza della scrittura di Eduardo a guidare nella lettura di uno spettacolo composito. Una presenza quasi palpabile in scena, dove il protagonista (Francesco Manetti), bastone e giacca bianca, traccia nell’aria con veloci gesti calligrafici le stesse parole che pronuncia, senza tralasciare la punteggiatura, gli accenti gravi, acuti e circonflessi. Il personaggio, spiega Latella, è sopraffatto dalla scrittura, ne è posseduto.

Natale in casa Cupiello (secondo atto)

Natale in casa Cupiello (secondo atto)

Dette in prima persona, le didascalie di ciascun attore perdono la freddezza tecnica di indicazioni drammaturgiche o registiche per assumere rilievo di discorso intimo e autoanalisi, suggerendo inedite prospettive psicologiche, sfumature interpretative. Anzi, non differenziandosi molto nel tono dalle stesse battute, le didascalie si caricano a volte di una drammaticità perfino superiore a quelle. Così i personaggi-statuine si presentano, si scoprono, agiscono a un tempo sulla scena e in una dimensione interiore; gli attori sono insieme sul palco e in un banco di regia metateatrale, agiscono e descrivono la propria azione.

Anche nel secondo atto Latella lavora a uno sdoppiamento, forse meno riuscito, degli attori, questa volta alle prese con degli animali di pezza, o carcasse di animali, che tutti i personaggi si caricano addosso, si strappano dal corpo, si lanciano, secondo una simbologia poco chiara. Esplicito invece il richiamo a Brecht quando Concetta (Monica Piseddu), la moglie del protagonista, percorre la scena trainando un carro-teca-catafalco come una Madre Coraggio sulla quale viene scaricato il peso di una famiglia allo sfascio. È lei l’unica a mantenere quel senso di realtà che nessuno dei maschi di casa Cupiello sembra minimamente possedere. Ma se, com’è evidente, il quadro brechtiano parla anche dell’Italia di oggi, allora il presepe sgangheratamente barocco che si viene a comporre intorno al carro nei colori della tradizione napoletana è l’immagine struggente della povertà morale e delle contraddizioni del Paese.

Natale in casa Cupiello (secondo atto)

Natale in casa Cupiello (secondo atto)

«Cominciamo da capo», ripete più volte la voce registrata di Eduardo ogni volta che il suo presepe viene oltraggiato e danneggiato. E la drammaturgia visiva dello spettacolo ogni volta ricostruisce una visione del testo nello spazio scenico sempre disadorno, spalancato ormai anche sul retropalco. Un presepe «grande come il mondo» nel quale, dopo che il portiere Raffaele è sceso come un arcangelo dal cielo, imbracato e fornito di ali, e mentre le arie del Barbiere di Siviglia cantate dal dottore-contralto Maurizio Rippa trasformano la sceneggiata in un melodramma, Luca Cupiello, colpito da un ictus, finirà per incistarsi come un Bambin Gesù decrepito e tremante, nudo nella culla, in un’estrema, intensa composizione presepiale. A tratti nella luce livida di una prospettiva frontale che lo avvicina al Cristo morto del Mantegna, a tratti contorto come un Giobbe, mentre anche nell’agonia continua a vergare in aria la sua scrittura convulsa. Quando il figlio Tommasino (Lino Musella) infine ammette di apprezzare il paterno presepe e pietosamente decide di interrompere quello strazio soffocando il padre con un cuscino, qualcuno tra il pubblico del Teatro Argentina, dove lo spettacolo ha debuttato, protesta e grida “vergogna”, provocando la reazione di quanti da quasi tre ore stanno seguendo con attenzione e anche con divertimento lo spettacolo. Ed è un peccato, perché la tensione che si crea in sala e sul palco incrina l’ultima, bellissima scena: dal fondo entrano lentamente accompagnati da due inservienti, un asino e un bue, che prendono il loro posto ai lati della mangiatoia. Concetta è diventata una mater dolorosa. Sul requiem per Lucariello, sul grottesco presepe della vita e della morte scendono mestamente le luci.

Natale in casa Cupiello (terzo atto)

Natale in casa Cupiello (terzo atto)

A ragione Latella ha parlato, a proposito di Eduardo, di una questione di eredità, non di tradizione. Il suo lavoro ne verifica la contemporaneità applicandone il dispositivo critico alla famiglia e alla società di oggi. E alla stessa arte teatrale: dopo il parricidio Tommasino, tra spirito di libertà e senso di colpa, proverà a fare il “suo” presepe?

«Per ereditare qualcosa bisogna accettare il fatto di non essere più figli ma “orfani”», spiega Latella, «solo quando accetti di essere orfano hai la capacità di ereditare e di capire cosa stai ricevendo. Succede quando smetti di parlare di te stesso e parli dell’altro, provi a esprimerti attraverso l’altro, attraverso colui che ti lascia un’eredità. Se penso al rapporto di Eduardo con la tradizione e allo spostamento dalla tradizione che ha provocato con il suo lavoro, comprendo che noi ereditiamo proprio questo spostamento».




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