Mondo danzante e moralità coreutica
La Biennale Danza di Virgilio Sieni
Se nella danza contemporanea, come scrive Dominique Dupuy, «la virtù del danzatore non è il virtuosismo tecnico ma l’affinamento, l’esattezza, il senso dato alle cose che si fanno» (La saggezza del danzatore, Mimesis, 2014, p. 17), il Vangelo secondo Matteo di Virgilio Sieni è una toccante pratica di virtù del movimento, di moralità coreutica. Guardiamo le mani scolpite dal tempo delle raccoglitrici di pomodori di Pezze di Greco, impegnate in un rituale quotidiano e laborioso che rilegge il Discorso della montagna dal punto di vista della comunità di fedeli e ne accoglie il lascito nella concretezza di esistenze plasmate in corpi e gesti. Sono quattro, come le Beatitudini del Vangelo di Matteo. Spalancano le braccia a contenere la croce, ritrovano la gestualità benedicente di Cristo, ma è la loro presenza a imporsi allo sguardo dello spettatore, a chiamarlo a sua volta a una presenza mite, a un’esperienza di autenticità: «In questo dialogo tra il tempo delle donne e quello del Vangelo, i pomodori uniti sapientemente a grappolo dalle interpreti, indicano nel saper fare che viene da lontano, nell’attitudine alla trasmissione di una conoscenza, la strada per una diversa tessitura del presente.»
Non è che uno dei 27 quadri coreografici che formano il grande affresco realizzato da Sieni all’interno del nono Festival internazionale di danza contemporanea della Biennale di Venezia. 200 interpreti, in gran parte non professionisti, che con i loro volti, sguardi, gesti hanno attraversato e animato le Tese dell’Arsenale lungo tre ampi cicli di rappresentazioni serali e di verifiche e pratiche diurne aperte al pubblico. Un’opera grandiosa che ha coinvolto persone di ogni età, provenienti da sei regioni d’Italia, in un progetto prima di formazione e trasmissione nei rispettivi territori, poi sviluppato in forma di appunti all’interno (e in dialogo con) gli spazi della Biennale Architettura, infine risolto nella proposta simultanea di nove quadri per volta, in un arco complessivo di dodici ore di rappresentazione.
Negli ampi spazi dell’Arsenale veneziano, complice la musica eseguita dal vivo, lo spettatore si inoltra in un personale itinerario di riscoperta e rilettura del messaggio evangelico, in un’atmosfera di concentrata comunione di sguardi ed emozioni. Alcuni quadri sono affollati, come quello della Crocifissione, con 41 interpreti provenienti da Carpi che moltiplicano, in azioni brulicanti intorno ai fulcri di tensioni contrapposte dei due grandi legni della croce, le pieghe, i contatti, gli scivolamenti, l’allungarsi di colli, braccia, mani. Simbolicamente rinviano alla distinzione della nascente comunità cristiana dalla società del tempo; iconograficamente si conformano esplicitamente al modello del Pontormo. Altri quadri (come l’Annuncio dell’angelo a Giuseppe) sono interpretati da coppie di anziani, attentissimi a cogliere l’origine del gesto, a guidarsi l’un l’altro in territori sconosciuti. Altri ancora sono interpretati da danzatori professionisti, come le due Pietà-Deposizione declinate in modo molto diverso da Nicola Cisternino e Sara Sguotti, che per segmenti ritmici costanti riproducono schemi rappresentativi utilizzati in pittura per rendere il movimento corporeo, e da Jari Baldini e Giulia Mureddu, che si scambiano continuamente i ruoli di deposto e di sostegno, richiamandosi alla Deposizione di San Sepolcro del Rosso Fiorentino.
Il repertorio iconografico che si va ricomponendo sotto i nostri occhi continua ad attingere soprattutto tra Quattro e Cinquecento, come i discepoli dormienti del Mantegna per il Getsemani, gli angeli in cerchio di Piero della Francesca per il Battesimo, o ancora figure pontormiane per la Deposizione al buio interpretata come resistenza alla gravità e perlustrazione dello spazio da un danzatore non vedente. I gesti del presente s’incontrano con la storia di Cristo, con il suo racconto che da duemila anni viene trasmesso e interpretato anche attraverso la pittura. Sono gesti e movimenti che non vengono imposti allo spazio, ma dialogano con esso nella costruzione di un tempo, che è il tempo della vita dentro il tempo dell’arte, e viceversa.
L’idea che tutto il mondo possa danzare e che la danza possa leggere il mondo intero attraversa anche le altre sezioni del Festival. Così nel progetto di creazione e formazione Vita Nova, i giovanissimi danzatori, tra i 10 e i 15 anni, si sono misurati – con esiti di altissimo livello – con creazioni inedite composte appositamente per loro. Tacita muta di Adriana Borriello cerca di cogliere, in uno spazio-tempo che è ancora ludico, un rito di passaggio attraverso i suoni e i silenzi del corpo. Ma soprattutto i due interpreti della Stanza del fauno di Sieni (Serena Carella e Giordano Signorile) hanno stupito per precisione, sincronia, affiatamento dentro una partitura felice quanto impegnativa, fatta di duetti millimetrici, di passaggi delicati dalle allusioni mitologiche al confronto giocoso.
Anche L’incontro di María Muñoz e Raffaella Giordano, nella sezione Aperto, esplora la via del corpo e danza sul limite «fra l’esterno di una natura pacifica e l’interno di buia materia in divenire». Le due interpreti, così differenti e così totalmente disponibili a questo discorso pronunciabile soltanto con le parole del corpo, si avventurano in uno spazio pieno di ombre, un bosco fitto di fischi, richiami, svolazzi, fogliame smosso. «Tu sei molte cose e non sempre bisogna dirle», scandisce la voce interiore. «Io non capisco tutta la tua lingua, e neanche la mia.» Sono i corpi a custodire i gesti. Entrano ed escono dal quadrato bianco dello spazio scenico, entrano ed escono «nel posto dell’altro». Con i vestiti e il fondale, bianco su bianco, creano viluppi lattescenti, grumi, fagotti di stracci. Dal fondale nascono vele, cieli nel vento, gabbiani.
«Possiamo chiamarle le cose segrete», dice ancora la voce, mentre lo spettacolo si chiarisce anche come una riflessione sulla creazione coreografica, sulla danza quale attraversamento di sé e offerta all’altro. Procedendo per dilatazioni e accenni, scorci di atmosfere che appena colte vengono abbandonate, il lavoro si sofferma sui dubbi della realizzazione artistica, «la difficoltà costante di essere osservati», la coabitazione nella scena, emozioni e membra e oggetti da «trasportare e portare e lasciare». Uno studio sullo spazio, sulla relazione, sul rapporto con lo spazio che è spazio della creazione, dell’interrogazione: «La pregunta es siempre la misma: ¿Y ahora qué hacemos?» Le due interpreti sono perciò sempre insieme e da sole nello stesso tempo. Anche quando, un corpo sopra l’altro, danno vita a composizioni instabili, franose. Uno spettacolo a tratti commovente, che cerca di cogliere «la parte incerta della vita», in un tempo sospeso come quello del disco che nel finale continua a girare a vuoto, a grattare l’ultimo solco polveroso.
Mondo danzante è anche Bound, lo spettacolo con cui la Biennale ha reso omaggio a Steve Paxton, cui è stato assegnato il Leone d’oro alla carriera. Una performance creata dal coreografo statunitense nel 1982 per Spaziozero a Roma. Da una replica videoregistrata l’anno seguente al Kitchen di New York, Paxton ha ora ricostruito per Jurij Konjar questa serie di vignette danzate che si possono leggere anche come una striscia di episodi diseguali, dove pezzi di virtuosismo (come gli strepitosi volteggi sulle note di Funiculì funiculà) si alternano ad «annotazioni di danza» e a frammenti di teatro-danza che suscitano impressioni attualissime sul tema dei limiti e dei confini. Come quel filo teso in diagonale al quale infine il performer s’aggancia per attraversare lo spazio scenico e la distanza che lo separa dallo sguardo dello spettatore.
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