Un atleta cross cultural del cuore

Quel che ci lascia Mandiaye N’Diaye

Pubblicato il 15/06/2014 / di / ateatro n. 150

L’eredità che Mandiaye N’Diaye consegna a quanti hanno conosciuto la sua arte e la sua umanità sta già tutta nel nome scelto per la sua impresa più ambiziosa, quel Takku Ligey Théâtre fondato nel villaggio natale di Diol Kadd quando l’attore delle Albe decise di tornare in Senegal dopo i successi internazionali con il gruppo afro-romagnolo. Takku Ligey in wolof significa darsi da fare insieme – ma qui l’esortazione fiduciosa si coniugava con il fare teatro. Nel gesto controcorrente di Mandiaye era infatti implicita, potente, la fede nel teatro quale specchio della vita sociale che non può essere disgiunta dalla vita interiore dell’essere umano; la fede nel teatro come generatore di relazioni, cuore pulsante di ogni sperimentazione, alchimia che consente di affrontare da una prospettiva diversa le difficoltà quotidiane, ma nello stesso tempo come possibile esperienza, accadere sapienziale, evento catartico.

Senza alcun apparato ideologico e senza rinunciare alla bellezza dell’arte della scena «come modo per indagare l’animo umano e come strumento attraverso cui l’uomo parla di sé e del mondo», Mandiaye ha mostrato la possibilità di trasformare profondamente, attraverso il teatro, lo stato delle cose e le relazioni tra gli uomini, delineando un orizzonte di senso e una concreta possibilità di crescita per una comunità a rischio di estinzione o condannata a una marginalità residuale. Il ventennale meticciato culturale delle Albe trovava allora, attraverso la sua anima nera, un percorso coerente di crescita verso le origini ancestrali del teatro e dell’uomo. Per i giovani senegalesi significava soprattutto la scoperta di un’opportunità di restare a vivere al villaggio in qualità di coltiv-attori, come ironicamente si autodefinirono, lavorando come agricoltori e dedicandosi al teatro – dalle semplici narrazioni sceniche all’allestimento degli spettacoli da proporre anche in Europa – per contribuire alla rinascita del villaggio all’interno di un progetto coraggioso riassunto nelle tre T di Terra, Teatro e Turismo responsabile.

Mandiaye N’Diaye.

Come a Ravenna nel 1989, quando – mentendo a Ermanna Montanari e Marco Martinelli – si era dichiarato attore ed era salito sul palco con Mor Awa Niang e El Hadji Niang – le scatenate Albe nere – a Diol Kadd nel 2006 Mandiaye ha inventato ancora una volta il teatro, risanando la frattura che in Occidente separa l’attore artifex e l’attore pontifex, perché è stato artista capace di trasformare le menti e i corpi di attori e spettatori, maestro impegnato a trasmettere le tecniche di un’arte antica, e insieme costruttore di ponti tra gli esseri umani, tra i continenti, tra le lingue, tra le culture. Un cantore dell’andata e ritorno dei miti, un performer degli sguardi incrociati – nel suo, che si era fatto profondo e saggio, ho rivisto un guizzo della giovanile furbizia quando ho avvicinato i suoi misurati interventi nel riallestimento di Nessuno può coprire l’ombra con i ragazzi di Diol Kadd all’essenzialità dei lavori di Peter Brook. Un atleta cross cultural del cuore che, mentre si sentiva in dovere di portare all’Africa qualcosa della fortunata esperienza che gli era capitato di vivere nel “primo mondo”, ci donava ogni volta ben più di quanto avesse mai ricevuto.




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