Il teatro è non avere paura del buio
Una conversazione con Fagarazzi e Zuffellato
Nelle sue performance e spettacoli, il duo Fagarazzi-Zuffellato – basato a Vicenza – lavora sul confine tra realtà e finzione, rimettendo in discussione le funzioni di attore e spettatore. Per farlo, ha costruito alcuni dispositivi di interazione con il pubblico che utilizza nei suoi lavori. Sono meccanismi di coinvolgimento e partecipazioni, che destabilizzano pratiche percettive e consapevolezza di sé.
Andrea Fagarazzi e I-Chen Zuffellato ripercorrono la loro esperienza in questa chiave, con due voci intrecciate e lucida passione.
La nostra collaborazione è cominciata nel 2005, quando vivevamo e lavoravamo all’estero sopratutto tra Amsterdam e Berlino, con la realizzazione di alcune installazioni di arte visiva in relazione al corpo sottoposto ad una condizione di costrizione.
Nella nostra prima performance, Io lusso (2008), abbiamo voluto esplorare la tematica del lusso come incitamento alla produzione di desideri. “Lussare” significa anche deviare qualcosa dal suo normale corso, così abbiamo provato a invertire il segno pubblicitario: la pubblicità ci offre un’immagine del corpo pulita, levigata, restituisce un’idea di pulizia secondo la quale le persone dovrebbero rifarsi, proiettando una sorta di icona. Ci siamo chiesti: che cosa succede se utilizziamo queste “immagini e slogan” e le facciamo diventare atto performativo, rompendo questa perfezione?
Nella prima parte di Io lusso due telecamere ci riprendono: sezionano il corpo in diretta e lo proiettano due schermi tv. Questa cifra linguistica altera la percezione che lo spettatore ha dei corpi in scena, esaltando ma allo stesso tempo oggettivando e sezionando il corpo in dettagli a volte “inutili”: per esempio quando sulla scena ci mettiamo in bocca alcune pagine di riviste di moda, la ripresa video mostra invece un angolo del bacino, insomma un particolare marginale dell’azione performativa. In questo senso anche lo sguardo dello spettatore viene frammentato e subisce un cortocircuito creando tasselli di immagini che non coincidono più con il segno pubblicitario da cui eravamo partiti, ma proseguono invece nello svolgimento di un’azione performativa fortemente caratterizzata da una “crepa”.
Abbiamo ripreso anche un’idea da format televisivo: a un certo punto le telecamere si girano e inquadrano il pubblico, mentre in sottofondo si sente parte del brano musicale Self Distruction dei Nine Inch Nails:
“i am the voice inside your head and i control you, i am the lover in your bed and i control you, i am the sex that you provide and i control you, i am the hate you try to hide and i control you, i take you where you want to go, i give you all you need to know, i drag you down i use you up”.
In quel momento il pubblico si rivede negli schermi, come parte dello spettacolo, proiettato nell’evento performativo, e questo ne cambia la percezione sia da parte dello spettatore sia da parte del performer, entrambi sono esposti al medesimo tempo e devono sostenere una tensione, è paradossalmente ciò che forse li congiunge di più assieme.
Ci interessava riflettere su un dispositivo che si trova anche al di sopra di noi che lo abbiamo creato, e porre i corpi dei performer e spettatori come parte di uno stesso sistema di mercificazione corporea, come prodotti del lusso, di questo meccanismo del desiderio.
Noi abbiamo una formazione sia atletica che da danzatori professionisti e dunque siamo stati educati all’idea di un corpo funzionale a una forma dinamica. Ci interessava mettere in discussione anche questo aspetto, i nostro stessi corpi come prodotto di una certa visione estetica.
Nella seconda parte di Io lusso c’è una telecamera che ci riprende dall’alto mentre indossiamo due sacchetti dorati in testa, lavoriamo in scena immersi in questo abbaglio. Nel momento in cui ci mettiamo addosso il sacchetto entriamo in un’altra dimensione: vediamo solo luce e leggere ombre. Usiamo l’occlusione della vista per sviluppare la costruzione del movimento coreografico, dialogando tra noi con piccoli segnali sonori tipo: “Dove sei?”, “Cosa stai facendo?”.
Anche per la ricerca coreografica abbiamo ragionato sulla trasposizione del senso di “desiderio”, in termini di movimento abbiamo lavorato su un corpo incerto in continua vibrazione, che tenta di trovare una propria perfezione senza mai raggiungerla – il desiderio dura ed è tale fin tanto che esso non si realizza nel suo raggiungimento -, i corpi si stagliano brevemente in posizioni elleniche per crollare subito dopo senza mai trovare appagamento.
La telecamera dall’alto ci riprende e manda negli schermi un’immagine in bianco e nero, che si affianca alla nostra immagine dorata. Quella ripresa ha ricordato ad alcuni spettatori i rapinatori mascherati ripresi dalle telecamere di sorveglianza di una banca, ad altri invece i video dei prigionieri di Guantanamo: dunque immagini con riferimenti totalmente diversi.
Quante più immagini significanti riusciamo a rimandare allo spettatore, quante più immagini produce il lavoro artistico, tanto più questo crea discorso, materiale su cui ragionare. Lo spettatore soggettivamente deve cercare di dare un senso a questa pluralità di materiali.
Alla fine di Io lusso, mettiamo in scena il crollo, il fallimento di un sistema virtuale, annunciamo:
“C’è un problema tecnico, il sistema non funziona”.
Il pubblico ci crede, pensa che ci sia davvero un problema tecnico, è un po’ dispiaciuto ma applaude. A quel punto lo spettacolo continua con I-Chen che è nella posa di crocifissione con stivali in pelle nera tacchi a spillo e slip, mentre sul suo seno viene proiettata ad intermittenza la scritta “Brand” – che in tedesco vuol dire anche fuoco – e mentre lei scende lentamente a terra, in sottofondo si sente il brano What a wonderful world nella versione di Joey Ramone.
In Enimirc il meccanismo di interazione con lo spettatore è più complesso. Il lavoro nasce da una collaborazione tra noi due ideatori, registi e performer, e il trio di videomakers Aqua-micans group. Mentre il pubblico è nel foyer che attende l’inizio dello spettacolo, i due performer rapiscono uno a uno dieci spettatori e li mettono a sedere in teatro, nella prima fila, dove vengono bendati. Questa azione viene ripresa da una telecamera che trasmette l’immagine nel foyer e il pubblico che attende continua a chiedersi se quello che sta vedendo stia succedendo davvero o meno. Poi i 10 spettatori vengono portati sul palco e mascherati, mentre facciamo entrare il resto del pubblico.
Nei primi venti minuti, a questi dieci spettatori in scena vengono date precise istruzioni su quello che devono fare, sulla base di un disegno coreografico e di regia video, entrambi prestabiliti da noi due. Intanto due videomaker montano in diretta le immagini che arrivano da quattro telecamere: una mobile, gestita da un cameraman, le altre fisse, una dall’alto, una frontale e una laterale, più una quinta telecamera a infrarossi per le immagini “notturne”.
Gli spettatori-perfomer non sanno di essere ripresi dalle telecamere, non vedono quello che sta succedendo, e nemmeno le conseguenze dei loro gesti. Invece agli spettatori-testimoni in platea il meccanismo viene svelato in tutte le sue sfaccettature, anche tecniche, come se avessero davanti un set cinematografico. Enimirc non è un percorso sensoriale, è una dimensione mimetica tra perfomer e spettatore, è un meccanismo performativo che utilizza il video come azione per manipolare l’atto performativo stesso e la percezione della realtà, è un meccanismo attraverso il quale viene messa in crisi una relazione prestabilita tra performer e spettatore, è un processo di decostruzione dello sguardo dove tutti sono potenziali vittime, carnefici, giudici o voyer dove i ruoli si ribaltano e si confondono, spesso chi si crede vittima alla fine si scopre carnefice e viceversa.
La nostra provenienza dalla danza ci ha portato anche a una riflessione rispetto al movimento. Con questo meccanismo, facendo compiere una serie di gesti sulla base di precise istruzioni agli spettatori bendati, abbiamo provato a svuotare il gesto da un sovraccarico emotivo e di senso. Togliendo un elemento sensoriale, il gesto viene eseguito in termini di efficienza, e diventa essenziale.
Quando finisce la prima partitura, c’è una sorta di intervallo, in cui ci prendiamo cura delle persone che sono state in scena con noi. Nei venti minuti precedenti, abbiamo sempre avuto grande cura per i dieci spettatori bendati: per noi è essenziale stabilire un rapporto di fiducia e attenzione. E’ molto facile sfruttare il corpo di una persona bendata nelle tue mani, ma non volevamo certo farlo. A quel punto, i dieci spettatori-performer si ritrovano in mezzo al pubblico in platea, gli vengono tolte le maschere e le bende dagli occhi, gli offriamo un bicchiere d’acqua. In cinque-dieci minuti viene prodotto un video di una decina di minuti, attraverso la manipolazione delle immagini degli eventi accaduti poco prima. Lo schermo sul quale viene proiettato il video è la membrana su cui si incontra lo sguardo di tutte le persone coinvolte. Nelle ultime repliche, al filmato abbiamo sovrapposto un testo tratto dallo Straniero di Albert Camus. Ci interessava sottolineare che per noi l’interessante non era l’aspetto tecnico, la ripresa e il montaggio rapidissimo, alcuni spettatori non riuscivano ad andare oltre il virtuosismo del sistema, ma ci interessava dare un altro livello di lettura e di analisi anche ai testimoni, sezionare la percezione e lo sguardo, far capire che non c’è una visione unica ma possono coesistere interpretazioni e punti di vista diversi.
Nel 2010, abbiamo realizzato due lavori diretti singolarmente ma che abbiamo seguito reciprocamente. Andrea ha realizzato un progetto site-specific su invito della coreografa Kitt Johnson, per il Mellemrum Festival di Copenhagen a Nørrebro, il quartiere più multietnico della città, famoso per i violenti scontri tra squatters e polizia che lo infiammarono dagli anni Ottanta sino al 2007.
[Andrea Fagarazzi] “Prima di arrivare a Copenhagen, avevo chiesto di incontrare sette persone, una ad una separatamente e per cinque giorni, dovevano accettare di non ricevere alcuna informazione su di me prima di incontrarmi, se fossi stato un uomo o una donna, o cosa dovevo fare, non dovevano sapere nulla; ho incontrato una barista danese che non parlava l’inglese, uno scrittore di origine irlandese, una giovane groupier con una sua amica, un biologo, un ragazzo di origine indiana e la sua compagna danese gestori di un negozio di souvenirs etnici. Sono partito ponendogli la domanda: “Ti ricordo qualcuno?”, proseguendo il dialogo in base a quello che mi rispondevano. Mi interessava lavorare sulla reciproca percezione di uno sconosciuto, sull’immaginario che viene proiettato, e ho costruito il solo partendo dal materiale raccolto durante questi incontri e che è culminato in una performance presentata alla Casa del Popolo di Nørrebro”.[]
I-Chen ha realizzato tra Bangkok e Kortrijk il progetto Exotica co-prodotto dall’Asef (Asia Europe Foundation), un’indagine sull’esistenza e percezione dell’esotico che si basava su una serie di interviste fatte per strada. Percorrendo a piedi o su spericolati tuk tuk dalle vie più occidentalizzate di Bangkok a Patpong, il centro del turismo sessuale tailandese, abbiamo incontrato sia persone che hanno vissuto fin dall’infanzia la dicotomia tra oriente e occidente ma anche transessuali, transgender e go-go boys. Il progetto si è poi sviluppato in un’installazione composta da 3 schermi video, posizionati in direzioni diverse di modo che lo spettatore non possa mai vederli tutti e tre contemporaneamente e in cui si alternano video delle interviste a immaginari esotici ricostruiti artificialmente. Le riprese video sono state realizzate in collaborazione con un artista tailandese Noraset Vaisayakul, mentre la drammaturgia è stata seguita da Takao Kawaguchi e Jaime Conde Salazar.
The Dark House Project parte dalla riflessione sul buio in termini sia fisici sia metaforici, sviluppata come tematica e come dispositivo. Fin’ora l’abbiamo attuato sopratutto durante le serate di musica techno organizzate da The Frag a Padova. Sia l’installazione sia la raccolta materiale sono ancora in divenire. Abbiamo costruito una spirale nera che l’unico ospite percorre nell’oscurità con l’aiuto di una pila.
Alla fine di questo piccolo labirinto c’è un letto inclinato, sul quale l’ospite viene invitato a sdraiarsi. Alle pareti sono appese immagini legate alle storie di persone che hanno già partecipato all’evento. L’ospite sceglie una di queste immagini e uno di noi due gli racconta la storia collegata a quell’immagine. Poi si spegne la luce e partiamo da alcune domande:
“Hai paura del buio?”
“Ricordi una tua esperienza in cui c’era poca luce?”
“Come percepisci la città di notte?”
Terminata questa fase, all’ospite viene chiesto di uscire da solo ripercorrendo la spirale con l’ausilio di una pila. Lungo il labirinto si trovano delle scritte-citazioni estratte dai racconti raccolti in precedenza.
Nello scegliere il labirinto e le immagini per l’installazione, c’è una dichiarata intenzione di creare un cortocircuito di significati: da una parte il richiamo all’immaginario del buio e dei mostri del periodo infantile, e dall’altra le storie e riflessioni sul buio fatte in età adulta che si allacciano a rivalutazioni più ampie rispetto alla paura o meno del futuro, le diverse percezioni del pericolo, la fascinazione per l’indefinito, le tipologie di aggregazione sociale, le politiche di gestione degli spazi nelle città durante la notte. The Dark House Project si definisce progressivamente e in base a una raccolta di storie dalle persone che hanno finora incontrato il progetto e continua a svilupparsi attraverso più fasi di ricerca, assume le connotazioni di un evento che intende riutilizzare alcuni codici della vita notturna: luoghi e modalità di aggregazione, la performatività e l’estetica della musica elettronica, le dinamiche della collettività.
Con HEAVEnEVER, prima che lo spettatore entri in sala riceve un bigliettino da completare nel quale c’è scritto:
“Nel mio paradiso artificiale c’è…”
Alcune risposte vengono utilizzate all’interno della performance come materiale sonoro:
“Nel paradiso artificiale sono stati inseriti…”
Eccetera.
Questo avviene in una scena in cui dai laptot proiettiamo sullo schermo tre rivisitazioni de L’origine du monde di Gustave Courbet: la censura di Facebook allo stesso quadro; L’origine de la guerre di Orlan, dove c’è una pene al posto della vagina; e Origine di Zoran Naskovsky, dove sul sesso c’è la mano di lei. Questa scena dello spettacolo riprende la nevrosi dell’atto sessuale come metafora della ricerca convulsiva di felicità e benessere.
Durante lo spettacolo dichiariamo la nascita dello STATO DI HEAVEnEVER avvenuta il 27 agosto 2013. Per diventare cittadini dello stato bisogna farne richiesta proponendo un’azione o un’intera scena da aggiungere alla performance HEAVEnEVER. Tutti i punti della costituzione possono essere letti sul sito HEAVEnEVER.
Tag: Fagarazzi&Zuffellato (2), Il teatro è un dispositivo (28)
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