Valerio Binasco, il mago Prospero
attori & attrici ateatro
Grandi pannelli creano lo spazio come “monoliti abbandonati”. Nero e rosso ricordano un Goya sbiadito e divenuto informale. L’isola la conosciamo da dentro. Niente azzurro, niente mare. Ariel fa passetti strascicati, come un Sergio Tofano redivivo. Striscia Calibano che deforma corpo e viso, la bocca stretta da lacci sputa a fatica le parole. I naufraghi indossano vestiti da impiegati dei giorni nostri, disordinati dalla tempesta; girano a vuoto, perseguitati dagli insetti. Prospero e Miranda hanno vestiti meno datati, poco curati per lui e con qualche vezzo per lei, da naufraghi divenuti stanziali. Nell’isola si fanno sonni senza sogni. A un certo punto Stefano e Trinculo si coprono di stracci da avanspettacolo, è la sola cosa che brilli. La parte farsesca ha un bello spazio. E’ un ensemble a proporre La tempesta: un dato fermo nel corso dello spettacolo, che nella stringatezza della visione mantiene grazie agli attori un tratto decisamente spettacolare.
Fissiamo Prospero in un’immagine iniziale, che tornerà ancora, a conclusione della sua vicenda. Si piega in ginocchio, distende le braccia e mostra la bacchetta magica diventata un bastone “trovato lungo il fiume”, apparentemente senza potere (alla fine non verrà spezzata ma cadrà dalle mani del suo proprietario). Rimane così per qualche minuto (o solo per secondi?). Non c’è magia ma sacralità: non tanto per la postura, poco statuaria per l’inclinazione un po’ in avanti e verso terra, quanto per la durata. A questo Prospero non piace mettersi al centro del palcoscenico di faccia al pubblico, a tutto tondo. Un’icona pronta a fuggir via, che si è fermata anche per stanchezza. Fa pensare per contrasto a certe immagini con le quali Adelaide Ristori inaugurava le sue interpretazioni: che venivano prima di quello che il personaggio avrebbe detto e fatto e non si dimenticavano.
Leggo nel libretto di sala dell’Arena del Sole le parole di Binasco, da regista oltre che da interprete:
“Il cuore de La tempesta è un dramma sulla fine delle cose. Qual è la lezione per noi oggi? Che c’è solo da comprendere. E comprendere non è perdonare. E’ arrendersi. Alla fine, resterà solo l’eroismo degli arresi. E Prospero, con fatica, si arrende. Anche se, dicono, ha vinto”.
Il suo Prospero è spiccio, rabbioso, senza speranze nell’umanità, e per questo violento. Persino con Miranda, adolescente inselvatichita, alter ego del padre ora padrone ora capace di tenerezze. La voce di Prospero risulta antiretorica, quasi l’attore voglia trattenere la parola shakespeariana perché non diventi canto. Anche per questo forse resta dentro la mente dello spettatore: oltre che per il volto schivo e dolente, segnato da una vecchiaia precoce. L’attore non ancora cinquantenne, dismessi da tempo i panni del “figlio ingiustamente torturato”, accoglie così il disincanto di Prospero.
Di questa Tempesta Binasco è anche traduttore. Il popolare che persegue con il suo ensemble – la Pupular Shakespeare Kompany – si lega a una ricerca profonda sul testo, perché assuma i tratti linguistici della contemporaneità. Uno Shakespeare nel tempo di Fosse. Perché è Fosse, di cui Binasco ha messo in scena mirabilmente quattro testi, l’autore che meglio esprime il nostro tempo: per come diversamente concepisce l’individualità del personaggio, il rapporto fra la parola e il silenzio e quello fra la quotidianità che costruisce la nostra vita e le azioni che ne segnano lo svolgimento fino alla conclusione naturale, nella morte. Fosse come Shakespeare considera tutti “figli di Dio”: accoglie la molteplicità dei sentimenti e non emette giudizi, le cose accadono.
La regalità di Prospero si esercita su sudditi anomali: da Ariel e Calibano fino a Miranda. E’ tutta interiore. C’è un momento in cui si manifesta in modo imprevisto, in un fuori scena: quando Binasco, all’inizio del secondo atto, si rivolge ai giovanissimi studenti nei palchetti. Strano, stando in platea, non mi ero accorta che facessero chiasso. Allora, a chiedere rispetto per il lavoro degli attori è Prospero, da nobile quale è, a prescindere dalla sua scorza. Alla fine dello spettacolo salgo nei camerini: sono semivuoti. Arriva una maschera ad avvertirci: sono scesi tutti per aspettare l’ambulanza che deve trasportare al Pronto soccorso un attore che si è sentito male in scena. Anche questa volta nessuno si è accorto di niente: lo spettacolo è finito, gli attori hanno ringraziato il pubblico per gli applausi e sono corsi via.
Nel cuore della regia ‘leggera’ di Binasco c’è l’attore. “Mi piace molto seguire gli attori”, dice, “cerco di intuire una luce, poi oriento”. “E’ un regista che ama gli attori”, conferma Maria Paiato, da lui diretta ultimamente nell’Intervista di Natalia Ginzburg: “gli occhi acuti, febbrili”, un rapporto intensissimo finché si lavora insieme. Si capisce bene guardando il bel video di Sciancalepore sul Filippo di Alfieri, del 2010: lettura e prove a tavolino, metronomo (per riportare nella recitazione “la musicalità del dire” naturale), esercizi di parola sotto sforzo (per imparare a governare le tensioni e arrivare allo stadio in cui per la fatica si “depensa” e recita tutto il corpo), pazienza e impazienze, momenti in cui tutto è un “gran bordello” e formarsi dello spettacolo, fino alla confidenza autobiografica finale, scappata davvero di bocca, per dire del suo legame con questo testo inconsueto. Si vede l’attore farsi naturalmente regista. Il lavoro è della stessa qualità di quello impiegato per Shakespeare o per Fosse: parola per parola, verso per verso, non puntando alla costruzione di un sottotesto ma attendendo di “acchiappare qualcosa”. Una visione registica che si precisa ascoltando il testo e gli attori e si esplicita in indicazioni concrete, indispensabili.
Valerio Binasco si è diplomato presso la Scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova nel 1988, a ventitre anni. Dieci anni dopo ha vinto il Premio Ubu e il Premio Linea d’ombra per l’interpretazione di Amleto con la regia di Carlo Cecchi. Con Cecchi ha fatto la mitica Trilogia shakespeariana di Palermo, Molière, Beckett, Pinter, Scimone, divenendone infine aiutoregista. Pudiche le testimonianze in proposito, spesso espresse sinteticamente attraverso frasi di Cecchi che condensano elementi di sapere scenico (alle prove, alla domanda “ti arriva?”, Cecchi risponde “arriva quello che parte”).
“Il teatro non si insegna, ma si impara”: così, Binasco ha appreso dal maestro pratiche, come l’uso del metronomo. Di Cecchi loda “la semplicità vertiginosa, spontanea quasi al limite dell’improvvisazione, frutto di uno studio maniacale”: la stessa che cerca lui come attore, regista, pedagogo.
Quello della Popular Shakespeare Kompany è un bellissimo progetto, importante nella situazione attuale del teatro e del paese. Fatto per un pubblico ampio, anche di persone che vanno a teatro per la prima volta e si emozionano “non per le idee ma per gli avvenimenti”. Fatto da professionisti che “contro la depressione sognano una scena salvata dagli attori, e dal pubblico”. “Un teatro povero (non intellettualmente), al servizio delle emozioni, senza armamentari pesanti”. Un amore per Shakespeare assoluto, un rapporto con le sue opere profondo e libero al tempo stesso, sensibile com’è al problema di sentire, esprimere e comunicare teatralmente oggi: dunque, essenzializzando ma senza togliere poesia al testo, solo trasferendola altrove.
Valerio Binasco fa teatro “per essere felice”.
(28 marzo 2014)
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