La memoria del futuro

L'intervento alle Buone Pratiche del Teatro 2014

Pubblicato il 24/03/2014 / di / ateatro n. #BP2014 , 149

Sono nella sala dell’ergoterapia dell’istituto Golgi di Abbiategrasso. Un po’ alla volta volontari e ausiliari accompagnano gli anziani che partecipano al laboratorio teatrale. Il gruppo è composto da 14 donne e 4 uomini. Età media 85 anni. La maggior parte di loro soffre di demenza senile. Alcuni di Alzheimer nella fase d’esordio. Quasi tutti sono in carrozzina. Qualcuno invece si sposta con il treppiedi e chi si sposta con il treppiedi di solito arriva al laboratorio da solo. Tra questi Berta, che, appena entra nella stanza, mi saluta con un energico applauso. Berta mi saluta sempre con un applauso fatta eccezione di quando muore qualcuno della compagnia. In quel caso dice il nome della persona morta senza aggiungere altro. Berta è un omone di ottantadue anni. Le sue enormi orecchie a sventola, il faccione e le borse che coprono i suoi occhi verdi gli danno un’espressione da bambino ritardato. Noi lo chiamiamo il “Budda dei tontoloni”. E’ entrato nell’Istituto a sei anni. Prima della guerra il Golgi, oltre a essere una casa di cura, era anche un orfanotrofio. E al Golgi ha lavorato come materassaio. Berta non sa leggere. Le battute che deve recitare bisogna dirgliele. Lui sembra che non ascolti, che abbia la testa da un’altra parte. Non ti guarda, o almeno sembra che non ti guarda, ma poi, dopo una ventina di secondi, le ripete. Gli chiedo “Berta dove ti piacerebbe andare oggi?”. “A Venezia” risponde con il suo vocione.
Intanto arriva la dottoressa che partecipa al laboratorio. Gli anziani sono onorati della sua presenza. Ma non sempre questa donna, amata dagli ospiti del Golgi perché sa essere timida e affettuosa come una bambina e autorevole come una madre, riesce ad esserci. La sua presenza dipende dalla urgenze che, in un ospedale geriatrico sono purtroppo la norma. Oltre a lei, nel gruppo ci sono tre ausiliari e sei volontari. La loro presenza è fondamentale. Sono loro che si prendono cura di accompagnare gli anziani al laboratorio ogni mercoledì mattina alle dieci. E per farlo iniziano alle nove del mattino. Per questi anziani ogni spostamento è un viaggio. Ormai hanno quasi terminato il giro. Mancano all’appello solo Teresina e Rosa. La prima è una Medusa dai capelli ricci, alta non più di un metro e quaranta. L’artrite la costringe a tenere sempre la testa rivolta verso il basso. Per guardare in faccia Teresina, a cui è rimasto solo un simpatico dente in bocca, bisogna mettersi in ginocchio. La seconda, Rosa, è un donnone golosa di caramelle. Quando recita vuole sempre che qualcuno le tenga la mano. Il loro ritardo dipende quasi sempre dalle urgenze della vescica.
Sono tre anni che lavoro al Golgi. Abbiamo prodotto tre spettacoli. Uno all’anno. Agli anziani piace fare teatro. Li tiene occupati e a loro piace qualsiasi cosa li tenga occupati. Ma l’atmosfera è triste. Come gli spettacoli. Non per gli argomenti trattati, ma perché ciò che si vede è triste. Uomini e donne che hanno trascorso una vita a lavorare, qui ci sono persone che un tempo sono state operai, contadini, commercianti, gente che ha costruito un futuro, e ora si ritrovano il corpo e la mente scavati dal tempo. Io provo a fargli ricordare la loro vita nella convinzione che ricordare faccia bene a loro e a chi l’ascolta. Loro a tratti ricordano. Sono orgogliosi delle loro esistenze. Forse perché raccontano solo ciò di cui sono orgogliosi. Ma quasi istantaneamente cancellano anche questi orgogliosi ricordi e con pazienza bisogna ripartire daccapo. Per ogni ripartenza infinite coccole perché nessuna si senta offeso e inadatto nel non ricordare ciò che un attimo prima aveva ricordato.
Arrivano anche Teresina e Rosa. Ora il gruppo è al completo chiedo se hanno voglia di accompagnare Berta a Venezia. Gli va. Ma come? In treno, in auto, con il pulmino dell’istituto, in nave, mi suggeriscono. In nave. Ci andremo in nave. “E cosa faremo a Venezia?” chiedo. Si andrà sul ponte dei sospiri, mi rispondono, e a Piazza San Marco a dare da mangiare ai piccioni e farsi una bella fotografia. Proviamo a mettere in scena il viaggio a Venezia.
Ritorno la settimana successiva. Berta non mi saluta con un applauso e non mi dice nemmeno il nome di una persona deceduta. Con il suo tono da caverna e rallentato mi chiede “Andiamo a Venezia?”. Si ritorna a Venezia. Quasi tutti ricordano abbastanza bene i movimenti e le frasi dette la settimana precedente. Allora iniziamo a popolare il viaggio di cose da fare. Che facciamo in nave? Dormiamo. Giochiamo a carte. Diciamo barzellette. Cantiamo. Andiamo in bagno. Mangiamo. Facciamo fisioterapia. Mettiamo in scena tutte queste azioni. E la settimana successiva le ricordano tutte. Così per la prima volta non portiamo in scena uno spettacolo sui ricordi ma sul desiderio. Il desiderio di andare a Venezia. Lo spettacolo diverte loro, il pubblico e me. Non ci sono lacrime. Non c’è tristezza. C’è tenerezza e soprattutto tanta energia. Voglia di esserci.
Allo spettacolo successivo lavoro con la stessa tecnica. Porto in scena un desiderio. Qualcosa di non ancora accaduto. E dopo un paio di anni mi diventa chiaro che gli anziani con cui lavoro preferiscono ricordare il futuro, le cose che andranno fatte domani, piuttosto che quelle fatte nel passato. Le cose fatte ieri sono morte per queste persone e loro vogliono vivere, non ricordare la morte. Vivere nonostante i cateteri, le carrozzine, gli affanni, le gambe che non ce la fanno più a sorreggerti. Vogliono vivere. Per questo sono disponibili a mandare a memoria il futuro. La memoria del futuro è ricordarti di ciò che dovrai fare domani.
Berta, dopo qualche anno passa dai treppiedi alla carrozzina. Del suo passato ricorda che ha lavorato come materassaio e poco altro, ma ricorda benissimo che dovrà per lo spettacolo vestirsi elegante e andare a mangiare in un bel ristorante con Teresina. E a carnevale, travestirsi da donna.
Allo spettacolo successivo le gambe di Berta sono nere. Ha il catetere. Non ricorda più nulla del suo passato, ma ricorda dove siederà il primario allo spettacolo. In seconda fila. E ricorda anche che una volta giunto sulla cima del Monte Rosa dovrà cantare la canzone degli alpini anche se lui non è mai stato un alpino. “Sul cappello, sul cappello che noi portiamo, c’è una lunga, lunga, lunga penna nera”. Ricorda tutto ciò che dovrà fare Berta. E alla sua morte ho chiesto che venisse scritto questo epitaffio sulla sua tomba.

“Qui giace Giuseppe Berta, detto il Budda dei tontoloni che alla fine della sua vita ricordava solo il futuro.”




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