Aspettando Beckett: il Godot di Pontedera scatena un caso giudiziario

Una conversazione con Roberto Bacci

Pubblicato il 28/12/2005 / di / ateatro n. 092

Il primo “tradimento” che la regia di Roberto Bacci si è concessa nei confronti di Aspettando Godot, l’ultima produzione della Compagnia Laboratorio di Pontedera (lo spettacolo ha debuttato il 21 ottobre al Teatro di Via Manzoni di Pontedera), prende le forme di un albero impiccato: un’infedeltà scenografica che materializza da subito, davanti agli occhi del pubblico, quell’idea di soffocante costrizione, di asfittica agonia che poco dopo raddoppierà la sua forza espressiva attraverso il nodo scorsoio che Lucky porta al collo.
Ma l’immagine di morte evocata dalla lunga corda che scende dal soffitto è come immediatamente stempera dalle movenze allegre del legno, da un suo solitario ritmo di danza che evapora dalle sinuosità dei rami: si tratta indubbiamente di un impiccato, ma di un impiccato vitale, caparbiamente aggrappato alla necessità di non abbandonare l’attesa, alla convinzione che qualcosa può ancora accadere, all’immagine utopica dell’arrivo di una voce portatrice di senso, di verità. E si tratta anche di una potente metafora della stessa pièce e del mondo che Beckett ha imprigionato nel limbo senza tempo né direzione della sua drammaturgia: questo tronco che penzola nel vuoto con disinvoltura e con l’aria divertita di chi è in procinto di assistere a qualcosa che potrebbe anche essere piacevole – ossimoro scenografico che sbeffeggia la propria contraddittorietà – è immagine e riflesso della natura di Aspettando Godot e della sua trama spiraliforme, è la sintesi visiva della prigione invisibile in cui Estragone, Vladimiro, Lucky e Pozzo girano in tondo obbedendo al loro modo di vivere l’attesa. Anche loro sono impiccati che danzano, perché per Beckett chiunque attenda non è che un impiccato che danza.
Il ricordo, le dissonanze che attraversano il tempo e lo spazio, le interferenze che ognuno ha con la percezione di se stesso, sono tutte declinazioni espressive che fuoriescono dalla stessa danza: non c’è dubbio che si tratti di una danza di morte, ma l’attesa della morte è vissuta attraverso un inarrestabile flusso vitale che serve a creare un malinteso con ciò che resta della vita, e che permette all’attesa di rotolare sulla propria inerzia. E questo rotolare, clownistico, burattinesco, continuamente sfasato nei confronti di ciò che il pubblico – spettatore e partecipe di un attesa che in parte è anche la sua, ma della cui assurdità può permettersi il lusso di valutare con maggiore obiettività i contorni – potrebbe o dovrebbe aspettarsi, è divertente, buffo. In presenza della morte, si ride: anche questo è un ossimoro, un ossimoro le cui componenti antitetiche è assolutamente necessario rendere per non snaturare il testo e il pensiero di Beckett. In questa fedeltà sta il secondo “tradimento” di Roberto Bacci: tradimento non a Beckett, beninteso, ma ad un certo modo di rappresentare Beckett, a certi “beckettismi” deleteri che le interpretazioni di Luisa Pasello(Vladimiro) e Silvia Pasello (Estragone), Savino Paparella (Pozzo) e Tazio Torrini (Lucky) – il gruppo si completa con Maria Pasello e Riccardo Mossini, i giovanissimi attori che si alternano nel ruolo del Ragazzo – hanno saputo far evaporare grazie alla loro grande capacità di ricreare nei momenti giusti quella leggerezza scanzonata e quel ritmo da macchietta che in Aspettando Godot hanno il compito di stridere con il baratro esistenziale che incombe sul tutto.
La naturale complicità di Luisa e Silvia Pasello, la loro capacità istintiva di creare l’intesa, contribuiscono a generare tutti quei presupposti che condurrebbero l’azione verso la gag, se la tensione metafisica della scrittura di Samuel Beckett non la costringesse allo scontro con la paralisi, a dover fare i conti con la visione di un’escatologia avviluppata nella sua stessa negazione. E’ proprio dalla natura orfana, incompleta, di questa aspirazione alla comicità che nasce il retrogusto amaro, unico per la sua capacità di moltiplicare all’infinito gli echi del proprio disagio, della risata che affiora dai testi del drammaturgo irlandese. E, comunque sia, si può e si deve ridere, perché anche la mortificazione dello slancio è una forma di vitalità, esattamente come la sopportazione del dolore e della menomazione fisica è una delle ultime certezze possibili, la spia che nonostante tutto si va avanti. Si deve poter ridere perché il riso diventa la forza che amalgama e fa convergere quelle stesse infinite moltiplicazioni: direttrici che arrampicandosi verso una condizione di eterna riproposta del niente che le governa, arrivano a negare ogni possibile individualità, e ad abbracciare un valore universale che costituisce la componente mitica dei clown di Beckett: divinità di un Olimpo non più necessario e in fase di smantellamento che diventa potente e geniale metafora della condizione umana.
Gli ultimi suoni che provengono dalla rituale sospensione dell’attesa, al momento dell’attenuarsi delle luci che prelude alla fine della rappresentazione, sono quelli delle note del brano che Ares Tavolazzi ha scritto per lo spettacolo: una musica dolce, rarefatta, che pare voler consolare con la sua carica onirica l’infantilità irreversibile di chi domani attenderà di nuovo; un andamento di berceuse che sembra invocare il sonno dell’anima: forse un regalo di Godot, ogni volta elargito come sospensione momentanea della pena. Al di là di queste felici trasgressioni (di una terza necessaria e più che legittima “disubbidienza”, relativa alla volontà di Samuel Beckett di non permettere che i ruoli maschili delle sue opere venissero interpretati da attrici, parleremo più diffusamente dopo), quella del regista pontederese è una lettura fedele e rigorosa, drammaturgicamente e filologicamente attentissima a riproporre il carattere e le atmosfere del capolavoro di Beckett.
Un lavoro importante per Roberto Bacci, questo Aspettando Godot: per la prima volta nella sua carriera – anche in questa occasione affiancato da Stefano Geraci per la consulenza drammaturgica – affronta “uno spartito da suonare” (come lui stesso dice nelle note di regia), un’opera teatrale già perfettamente realizzata nella sua completezza letteraria. In precedenza i suoi spettacoli erano sempre nati dalle suggestioni e dalle pagine dei grandi capolavori della letteratura mondiale: una prova di trascrizione e di adattamento per il teatro che offriva ampi spazi di intervento e molteplici possibilità di lettura. Con Beckett, e nell’anno in cui il mondo festeggia i cento anni dalla sua nascita (“Devo confessare che mi è sembrato uno scherzo del destino quando, una volta che ho deciso di mettere in scena Aspettando Godot, me lo hanno fatto notare. Era ormai troppo tardi per tornare indietro”, scrive Bacci), è arrivato per lui e per la Compagnia Laboratorio di Pontedera il momento per una sfida diversa, il cui significato è per la prima volta da ricercare all’interno di un testo già scritto.
Si tratta di un impegno che chiude un ciclo, iniziato anni fa con Oblomov – spettacolo del 1999 tratto dall’omonimo romanzo di Ivan Gonciarov – e continuato attraverso gli incontri con Thomas Mann e La montagna incantata (dalle sue pagine è tratto, nel 2001, lo spettacolo Ciò che resta), e con Dostoevskij (dall’Idiota nasce nel 2003 Il raglio dell’asino).

Abbiamo chiesto a Roberto Bacci di ripercorrere con noi il significato di questo cammino, le scelte artistiche e gli intenti espressivi che lo hanno scandito.

Esiste una domanda che mi sono sempre posto, e che durante tanti anni di lavoro ha dato origine a risposte diverse: si tratta di una domanda fondamentale a cui è indispensabile cercare di rispondere per fare in modo che il teatro non diventi automaticamente il riflesso di altro teatro, e quindi qualcosa di non più vivo, personale, necessario. La domanda, ogni volta, è “perché fare un altro spettacolo… ancora un altro spettacolo”. Per me non è mai stato un automatismo, ho sempre cercato una necessità vera senza la quale per me è impossibile mettermi in una situazione di lavoro che dura mesi. La necessità vera è data dal bisogno di arrivare ogni volta ad un risultato che deve essere sconosciuto, imprevisto. Gli spettacoli di questi ultimi anni portavano con loro altre domande, domande che riguardano tutti: sono quelle semplici domande che non hanno mai trovato risposta: quale sia il senso di un esistenza come la nostra, guidata da un corpo e da una mente come quelli che abbiamo, per molti versi così limitati a quelle stesse circostanze che di volta in volta ci influenzano e ci fanno pensare in maniera distorta, ondivaga; un’esistenza vissuta come in attesa di qualcuno che possa dirci che cosa fare e spiegarci il significato del nostro stesso cammino. I lavori che la Fondazione ha affrontato negli ultimi anni nascono dalla riflessione sulla rinuncia a cercare una risposta, sulla scelta di affidarsi a quelle risposte senza domande che giorno dopo giorno questa cultura e questa civiltà ci forniscono. L’essere umano non è più alla ricerca di qualcosa ma in attesa di qualcosa: di qualcosa che non arriva perché non può arrivare, ma che può solo essere cercata. Perché il senso vero forse sta nella ricerca, più che nell’attesa.

Era naturale che questo percorso arrivasse a Godot…

Sì, perché Godot è l’incontro decisivo tra questa ferita-domanda e la più alta forma (a livello di letteratura teatrale) che Beckett ha saputo esprimere in funzione della riflessione sulla nostra condizione umana.

Un incontro in qualche modo preannunciato dagli spettacoli precedenti…

Gli spettacoli precedenti hanno maturato le condizioni necessarie per l’approdo a Godot. Se pensiamo per esempio all’ignavia di Oblomov, alla sua pigrizia attiva, vediamo come un essere umano continuamente attivo (senza però chiedersi mai che cosa significhi “essere attivo” in questo mondo), finisca per ribellarsi alla sua stessa produzione di cultura vuota di senso e necessità. Lì si cominciavano a porre i problemi di evidenziare i contorni di una contraddizione in cui tutti ci troviamo: il lavoro sugli spettacoli successivi è proseguito in quella direzione. In un certo senso, chi dice che facciamo sempre lo stesso spettacolo ha ragione: è così, perché il nostro lavoro incontra sempre domande universali che attendono ancora una risposta. Se nessuno è mai riuscito a trovarla, significa che probabilmente non c’è: ma nella nostra prigione l’importante è continuare a interrogarsi, interrogarsi con il proprio teatro. Dopo Oblomov e la sua pigrizia vissuta come forma rivoluzionaria ad un imperante “zombismo” è arrivato Ciò che resta… ciò che resta dopo la vita, dopo la morte: anche qui la domanda era la stessa, e si rivelava attraverso l’incontro con la malattia intesa come forma di risveglio. La malattia ti pone al termine dell’esistenza e quindi ti fa ricordare perché hai vissuto, cosa di cui ci dimentichiamo sempre. Solo quando abbiamo un inciampo ci ricordiamo che stiamo camminando. Ciò che resta è proprio l’incarnazione di questo inciampo: Hans Castorp arriva in un sanatorio dove la vita, a contatto con la morte, acquista valore e significato nuovi. Con Il raglio dell’asino abbiamo provato a rispondere a quella domanda riflettendo sul fatto che se esistesse un essere assolutamente buono (Dostoevskij si era ispirato a Cristo e a Don Chusciotte per creare il suo protagonista) il mondo, forse, potrebbe salvarsi. Non più attraverso la consapevolezza ma grazie alla bontà. Anche lì l’azione arriva ad un fallimento, il protagonista non riesce a cambiare la realtà che lo circonda: come Castorp torna in pianura per trovare poi la morte in una trincea, così l’idiota torna in Svizzera nel suo ospedale psichiatrico. Pietroburgo sta alla Montagna Incantata come Myskin sta a Castorp.

Questi tre spettacoli nascevano da tre grandi romanzi, mentre invece questa quarta tappa del vostro percorso si addentra per la prima volta nelle strettoie di uno “spartito già scritto”…

A 56 anni volevo vedere che cosa succedeva a trovarsi di fronte una prospettiva nuova come questa. E questa non è l’unica novità: per la prima volta porterò un mio spettacolo sul palcoscenico di un teatro all’italiana (quello di Santa Croce sull’Arno (Pi), Ndr).

Come ti sei trovato a lavorare con queste costrizioni nuove?

Il lavoro è più complicato, ma allo stesso tempo fornisce molte più sicurezze rispetto al lavoro sui grandi romanzi: le possibilità che questi ti offrono spesso creano anche molte difficoltà. Lì devi andare a cercare lo spettacolo sperando di trovarlo, qui sai che lo spettacolo ce l’hai davanti di sicuro… anche se devi andare a trovarlo comunque.

Nel 1984 il Teatro di Pontedera ha incontrato la trilogia “Beckett directs Beckett”: un’ospite illustre che attraverso l’interpretazione del Saint Quentin Drama Workshop ha regalato agli spettatori di vedere Aspettando Godot, Finale di partita e L’ultimo nastro di Krapp in una versione supervisionata dallo stesso autore. Come ricordi quel Godot?

Era uno spettacolo estremamente vivo, passionale, ironico. Il vero Beckett è così: c’è una leggerezza che va assolutamente mantenuta. Non a caso Beckett lavorava maggiormente su personaggi da circo che non su personaggi teatrali: non è che avesse un grande amore per il teatro, e neanche gli interessava conoscerlo a fondo. Amava personaggi come Buster Keaton (con cui poi ha anche lavorato) o come Charlie Chaplin, artisti che per comunicare lavoravano su dei cliché. Attraverso quei cliché lui costruiva figure capaci di assumere su di sé tutta una serie di caratteristiche dovute al ruolo, anziché al personaggio. Luisa e Silvia infatti lavorano più sul ruolo che sul personaggio. Non è che sia importante la storia di Estragone o quella di Vladimiro: a nessuno interessa il loro passato o sapere quello che faranno, perché tali domande non sono previste. La cosa straordinaria è che, mancando una logica, la loro storia riesce a dare vita a ruoli eterni. E’quindi la condizione che conta, non la storia, la condizione a cui loro sono condannati, e noi con loro. E’la condizione di qualcuno che aspetta che qualcun altro li punisca o li salvi, di un’attesa continua che dà vita ad una “malattia del domani” che è shakespeariana: è il “domani e domani e domani…” di Macbeth. Devo dire che mi dispiace molto di non poter fare lo spettacolo in inglese, perché in quella lingua il testo ha un ritmo più bello, una musicalità e una sintesi verbale più forti, più cattive. Però faremo il nostro spettacolo in Inghilterra…”

Parliamo del divieto beckettiano rivolto alle attrici che volessero interpretare i suoi ruoli maschili…

Secondo me lui aveva paura delle libertà che scelte del genere possono offrire, e dei rischi a cui è facile andare incontro. Ma nella storia del teatro ci sono state donne che hanno interpretato parti maschili meglio degli uomini: la cosa importante, ovviamente, è la qualità della recitazione. Ci sono stati molti processi a causa di questo divieto: Beckett stesso perse una causa contro una compagnia di attrici olandesi che aveva messo in scena Godot. Franca Valeri mi disse di aver fatto domanda, col Piccolo di Milano, per fare Finale di partita e di non essere riuscita ad ottenere – nonostante l’intervento del Consolato Italiano – il permesso. Anche noi ci aspettiamo qualche disguido, e già ci siamo preparati a sostenerne le conseguenze. La cosa che possiamo portare a nostra discolpa è la qualità del lavoro: se c’è qualità possiamo difenderci. Perché la nostra non è stata una scelta provocatoria o stravagante, ma semplicemente artistica. Abbiamo voluto dare a Beckett quello che avevamo di meglio.

Silvia e Luisa Pasello, Vladimiro ed Estragone nell’Aspettando Godot di Roberto Bacci: qui di seguito si spiega perché il casting dello spettacolo sia finito in tribunale.

I disguidi previsti da Roberto Bacci sono poi puntualmente arrivati: gli eredi di Beckett, nonostante il contratto di rappresentazione sottoscritto con l’Agenzia Teatrale D’Arborio (detentrice dei diritti delle opere di Beckett per l’Italia), decidono di organizzare una contestazione mirata ad interrompere le repliche dello spettacolo. Questo il comunicato che la Fondazione Pontedera Teatro ha scritto per difendere le proprie scelte e il proprio diritto di rappresentare Aspettando Godot.

COMUNICATO STAMPA
16/10/05

VA IN SCENA IL BECKETT ILLEGITTIMAMENTE PROIBITO

Lo spettacolo della Compagnia Laboratorio di Pontedera Aspettando Godot di Samuel Beckett, diretto da Roberto Bacci e prodotto dalla Fondazione Pontedera Teatro, in scena al Teatro di Via Manzoni di Pontedera dal 21 ottobre al 27 novembre 2005, rischia di non potere essere più rappresentato a causa di una contestazione del cast da parte degli eredi di Beckett, nonostante sia stato sottoscritto un contratto di rappresentazione con l’Agenzia Teatrale D’Arborio.

A tre settimane dal debutto, l’Agenzia Teatrale D’Arborio, che detiene i diritti delle opere di Beckett per l’Italia, tramite la SIAE si oppone all’interpretazione dei personaggi maschili Vladimiro ed Estragone da parte di due donne, Luisa Pasello e Silvia Pasello (gli altri due personaggi della commedia, Pozzo e Lucky, sono interpretati rispettivamente da Savino Paparella e Tazio Torrini).
Ieri, martedì 15 novembre, la SIAE ha fatto pervenire alla Fondazione Pontedera Teatro una diffida che vorrebbe bloccare le prossime repliche dello spettacolo. Ma la Fondazione Pontedera Teatro non riconosce alla SIAE il diritto di interrompere lo spettacolo, in quanto il contratto con l’Agenzia D’Arborio non è stato in alcun modo inadempiuto dalla stessa Fondazione.
Pontedera Teatro, ritenendo il contratto valido a tutti gli effetti, ha perciò deciso di non accogliere la diffida e di proseguire le rappresentazioni, esercitando un suo legittimo diritto. Inoltre, si sottolinea il fatto che i diritti morali dell’opera, come riconosciuto dalla SIAE stessa, non sono tutelabili se non da eredi diretti dell’autore e non indiretti.

Il Teatro è deciso a cercare una soluzione e a difendere i propri diritti e le proprie ragioni artistiche. Infatti, il testo è stato utilizzato integralmente e messo in scena fedelmente, seguendo le indicazioni di regia di Beckett fin nei minimi particolari. I personaggi di Vladimiro ed Estragone restano maschili in tutto e per tutto. Non c’è nessun elemento nella scelta interpretativa, nella regia, nei costumi, nel trucco, nella recitazione degli attori, fino ai particolari più minuti, che faccia riferimento al cambiamento dei personaggi, come si può evincere dalla visione dello spettacolo. Questo è il motivo per cui la compagnia ha ritenuto di potere utilizzare le due attrici liberamente, non avendo sotto questo aspetto nessun espresso impedimento contrattuale.
Del resto sappiamo, come risulta dalla storia del teatro, che ci sono stati altri illustri allestimenti, per altro mai contestati, con la presenza di attrici nei ruoli di Vladimiro ed Estragone.
Nella pratica del teatro è sempre stata consuetudine che le donne possano avere accesso a ruoli maschili e viceversa. Un teatro che ha più di trent’anni di storia sulle spalle, riconosciuto e apprezzato sia in Italia che all’estero, difende anche la propria autonomia artistica. Ci sono peraltro già stati moltissimi precedenti relativi all’opera di Beckett. In questo caso quello che conta è la sostanziale fedeltà all’opera di Beckett ed è in questo senso che la Fondazione Pontedera Teatro ritiene di non avere tradito le aspettative dell’autore.
Sinora nessuno degli eredi di Beckett, nonostante i precedenti inviti, ha assistito allo spettacolo. La Fondazione Pontedera Teatro si auspica che possano venire a Pontedera a vedere il lavoro al più presto per verificarne la qualità artistica e la coerenza con l’opera di Beckett.

Aspettando Godot ha debuttato al Teatro di Via Manzoni di Pontedera il 21 ottobre 2005 all’interno della rassegna “Pontedera Produce Teatro”, ricevendo il consenso del pubblico e della critica. Nei primi mesi del 2006 lo spettacolo sarà ospitato in stagione da altri teatri italiani.
In questo spettacolo sono state investite risorse umane e finanziare e sarebbe molto grave doverlo interrompere. Per le repliche al Teatro di Via Manzoni ci sono già decine di persone prenotate.
La Fondazione Pontedera Teatro, nella consapevolezza di esercitare un incontestabile diritto, non intende annullare le rappresentazioni, certa di vedere riconosciuto anche per il futuro il proprio legittimo diritto a mettere in scena lo spettacolo con gli interpreti attuali.

Il 2 dicembre il Tribunale di Roma ha emesso una sentenza al riguardo. Qui di seguiti il comunicato stampa di Pontedera Teatro.

Fondazione Pontedera Teatro
COMUNICATO STAMPA
2/12/05

La Fondazione Pontedera Teatro ha vinto il ricorso presentato con procedura d’urgenza il 29 novembre nei confronti della SIAE e dell’Agenzia Teatrale D’Arborio al fine di potere continuare a rappresentare lo spettacolo Aspettando Godot di Samuel Beckett, nell’allestimento di Roberto Bacci.

L’Agenzia Teatrale D’Arborio, che detiene i diritti delle opere di Beckett per l’Italia, e la SACD, la società degli autori francese, dietro pressioni degli eredi di Beckett, avevano chiesto alla SIAE di bloccare lo spettacolo perché i personaggi di Vladimiro ed Estragone erano interpretati da due donne, Luisa e Silvia Pasello, adducendo la supposta contrarietà dell’autore ad avere donne nei panni di personaggi maschili e viceversa, nonostante i molti precedenti relativi ad Aspettando Godot e ad altre opere di Beckett, interpretate da attori di sesso diverso da quello dei personaggi, sia in Italia che all’estero.

Lo spettacolo prodotto dalla Fondazione Pontedera Teatro è stato presentato in prima assoluta al Teatro di Via Manzoni di Pontedera (PI) dal 21 ottobre al 27 novembre 2005, ricevendo grandi consensi di critica e di pubblico e facendo registrare il tutto esaurito per 28 repliche.
La prima diffida della SIAE è arrivata dopo 3 settimane di repliche, il 16 novembre, una seconda il 21 novembre. Poiché nel contratto stipulato con l’Agenzia D’Arborio non vi era espresso divieto di utilizzare attori di sesso femminile, la Fondazione Pontedera Teatro, ritenendo il contratto valido a tutti gli effetti, ha deciso di continuare a presentare lo spettacolo nella propria sede sino al 27 novembre, assumendosi tutti i rischi del caso. Ma senza l’autorizzazione della SIAE sarebbe stato impossibile rappresentare le successive repliche, previste sia a Pontedera che in altre città italiane nella stagioni teatrali 2005/2006 e 2006/2007.
La sentenza con cui oggi 2 dicembre 2005 il Tribunale di Roma ordina alla SIAE di rilasciare alla Fondazione Pontedera Teatro il permesso generale di rappresentazione, sblocca lo spettacolo (anche se per motivi organizzativi non è possibile effettuare all’ultimo minuto la data prevista per questa sera al Teatro Verdi di Santa Croce, che ri-programmerà lo spettacolo appena possibile).

La Fondazione Pontedera Teatro esprime soddisfazione per questo primo esito giudiziario. “Speriamo che si tratti di una sentenza che riapra le porte ad una visione più dialettica di Beckett” si augura Roberto Bacci. “Questa prima vittoria non appartiene solo a noi ma assume un valore culturale più generale e riapre un antico dibattito intorno ai problemi legati ai diritti d’autore. Per noi è anche un modo di festeggiare il centenario di Beckett, che ricorre nel 2006. La risposta a chi ci ha costretto a ricorrere alla giudizia ordinaria la daremo in teatro, attraverso lo spettacolo”.
Esprime soddisfazione anche il Presidente della Fondazione Pontedera Teatro, Antonio Chelli: “E’ un primo riconoscimento dei nostri diritti. Resta aperta una discussione più culturale sul giudizio di merito, che affronteremo in futuro, magari lontano dai tribunali”.
La Fondazione Pontedera Teatro desidera ringraziare pubblicamente l’Avv. Frittelli per lo straordinario impegno profuso e per l’amore che ha dimostrato nei confronti del teatro.

Riportiamo qui sotto alcuni stralci della sentenza emessa dal Giudice Iofrida per conto del Tribunale ordinario di Roma, Sez. IX, Sezione Specializzata in materia di Proprietà industriale ed intellettuale.

La sentenza vera e propria:

In accoglimento del ricorso, ex art. 700 c.p.c., presentato ante causam, in data 29/11/2005, dalla Fondazione Pontedera Teatro, in persona del presidente e legale rappresentante p.t., nei confronti della SIAE Società Italiana Autori ed Editori, e della Ditta Paola D’Arborio Sirovich di Paola Perilli, rappresentante in Italia dei diritti di utilizzazione economica dell’opera di Samuel Beckett, nel contraddittorio delle parti:

(il giudice) ordina alla resistente SIAE di rilasciare alla ricorrente Fondazione Pontedera Teatro il contratto di permesso generale per lo spettacolo e rappresentazione del testo “Aspettando Godot” di Samuel Beckett, per le stagioni teatrali 2005/2006 e 2006/2007, oggetto del contratto di rappresentazione del 20/4/2005, ed autorizza la ricorrente alla rappresentazione della suddetta opera, nelle more del rilascio del descritto permesso generale di rappresentazione.

Qui di seguito alcuni stralci che motivano la sentenza:

– Il concessionario di un contratto di rappresentazione è obbligato, verso il concedente (l’autore o altro soggetto cessionario o successore dell’autore), ex. art. 138 L.A. a rappresentare l’opera “senza apporvi aggiunte, tagli o variazioni non consentite dall’autore” e “a non mutare, senza gravi motivi, i principali interpreti dell’opera” e detto obbligo costituisce un’esplicazione del diritto all’integrità dell’opera, di cui all’Art. 18 L.A., come diritto esclusivo di natura patrimoniale esercitatile anche da un cessionario dell’autore, ed all’Art. 20 L.A., come diritto morale dell’autore, di natura personale e non trasferibile;

– nella fattispecie, non vi è stata né un’inadempienza contrattuale da parte della Fondazione Pontedera Teatro, non essendo state effettuate alterazioni del testo “Aspettando Godot” (come dedotto, documentato, con diverse recensioni allo spettacolo, e neppure contestato dai resistenti) ed essendo stata la sostituzione di due degli attori inizialmente indicati, con due attrici di sesso femminile, che interpretano comunque sempre i ruoli maschili (con trucco ed abiti corrispondenti, vedasi fotografie prodotte dalla ricorrente) creati dall’autore, sia necessitata dalla indisponibilità degli stessi sia consentita in fase contrattuale, per quanto sopra detto, né una lesione dell’integrità dell’opera, di cui all’art. 18 L.A., che può non essere influenzata dalla sola recitazione di attrici di sesso femminile, in vesti e personaggi maschili, né è allo stato configurabile una possibile lesione anche del diritto, personalissimo (riservato dunque all’autore o al suo successore), morale d’autore di cui all’Art. 20 L.A., in quanto detto diritto non è assoluto ma riceve tutela solo rispetto a qualsiasi “deformazione, mutilazione o modificazione” o altri atti “a danno dell’opera stessa”, che “possano essere di pregiudizio all’onore e alla reputazione” dell’autore, vale a dire che possano modificare la percezione della personalità dell’autore e della sua opera presso il pubblico, il che non può rinvenirsi nella sola sostituzione di alcuni attori con alcune attrici, senza tagli o aggiunte al copione o modifiche alle indicazioni di scena o alterazione dei personaggi interpretati;

– (…) la ricorrente è una Fondazione che svolge un’attività culturale e non imprenditoriale e la sospensione delle rappresentazioni teatrali, oggetto dell’accordo del 20/4/2005, relativo a due stagioni teatrali, potrebbe seriamente comprometterne la stessa sopravvivenza (conseguendo la perdita del contributo statale conferitole).

Andrea_Lanini

2005-12-03T00:00:00




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