(100-5) 22/02/06

Perché intanto si discute molto di...
L'editoriale di ateatro 95
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and1
 
Lo spettacolo e i partiti (parte I)
Il teatro nella campagna elettorale 2006
di Anna Chiara Altieri e Mimma Gallina

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and3
 
Il ministro Buttiglione detta le regole per la nuova stagione
Considerazioni a margine
di Franco D’Ippolito

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and4
 
Semplicemente complicato (Parte II)
Un incontro con Luca Ronconi
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and8
 
Al lavoro su Cinema Cielo
Una conversazione con Danio Manfredini
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and23
 
Le recensioni di ateatro: Una visita siciliana di Beniamino Joppolo
In scena a Cascina
di Sara Ficocelli

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and49
 
La polemica tra Cordelli e il CSS
Con un intervento di Franco D'Ippolito
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and43
 
La critica e il sistema teatrale
Una mail a Franco D'Ippolito, una lettera aperta a Franco Cordelli
di Paolo Mazzarelli

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and44
 
Critici e operatori
Una mail a Paolo Mazzarelli
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and46
 
Living with(out) Nam June Paik
Ritratto d'artista
di Silvana Vassallo

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and49
 
Non solo comics: tra fumetto e teatro
Il Festival di Agoulême 2006
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and50
 
Pinter & Beckett sul nuovo "Hystrio" 1.2006
Il sommario del nuovo numero
di Redazione Hystrio

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and70
 
Online il sito di Danny Rose
Da Woody Allen alle Buone Pratiche e oltre
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and71
 
Il Teatro Incivile in DVD
Il party del 30 gennaio a Roma
di Teatro Incivile

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and72
 
Il bando per il X Festival Opera Prima
Il "teatro dello spettatore" nel giugno 2006
di Teatro del Lemming

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and74
 
Memoria e metodo nel lavoro di Sandro Lombardi
Ne discutono Siro Ferrone, Sergio Givone e Giuliano Scabia
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and75
 
Le macchine teatrali della visione: le fiabe di Robert Lepage
The Andersen Project di Robert Lepage-Ex Machina al Barbican Theatre di Londra
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and52
 
Est-etiche multimediali: le arti del nuovo millennio
Un incontro a Chieti
di Associazione MIRA

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and77
 
ateatro & Star Trek: Oliviero Ponte di Pino sull'astronave Enterprise
Una intervista su www.adolgiso.it
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro95.htm#95and78
 

 

Perché intanto si discute molto di...
L'editoriale di ateatro 95
di Redazione ateatro

 

...di tutto!
Beh, i temi da approfondire e su cui accapigliarsi sono fin troppi, nella webzine e nei forum
Tanto per cominciare c’è la campagna elettorale e bisogna leggere e interpretare i programmi dei partiti e delle coalizioni. Li stanno radiografando per ateatro e per “Hystrio” Anna Chiara Altieri e Mimma Gallina: in questa prima puntata si sono concentrate sui programma del centro-sinistra, con interviste esclusive a Vittoria Franco (DS) e Patrizia Bortolini e Stefania Brai (PRC). Una prima annotazione: il problema della cultura è uno dei temi centrali di questa campagna elettorale, in molti programmi tra i primi passi di un futuro governo c’è il reintegro del FUS almeno ai livelli del 2001 (a proposito, l’ultima circolare ministeriale la disseziona per noi Franco D’Ippolito). Sarà certamente interessante verificare, dopo il 9 aprile, l’effettiva pratica delle forze politiche sul fronte della cultura, al di là delle promesse elettorali.
Poi, in ateatro e nei suoi forum, si discute (e non è una novità) sul rapporto tra il teatro e la critica: la scintilla questa volta è una recensione di Franco Cordelli, ne discutono con accanimento Paolo Mazzarelli (la vittima di Cordelli), Franco D’Ippolito e Oliviero Ponte di Pino, ma come sempre potete dire la vostra anche voi.
Si discute molto, naturalmente, sul “Progetto Domani” di Luca Ronconi a Torino: nel prossimo numero contiamo di mettere a punto uno “speciale Progetto Domani” con una riflessione di più ampio respiro sugli spettacoli olimpici. Intanto in questo ateatro 95 Oliviero Ponte di Pino continua ad analizzare il teatro “semplicemente complicato” del maggiore regista italiano, con la seconda puntata del suo ennesimo mappazzo.
Si discute anche (vedi i forum) del futuro del Teatro dell’Arte: la nostra Perfida de Perfidis qualche tempo fa aveva lanciato un “concorso di idee” per la programmazione della gloriosa sala milanese, di proprietà del Comune di Milano e attualmente gestita dal Crt. Quella di Perfida era una provocazione (anche se qualcuno c’è cascato, quando gliel’hanno raccontato Perfida ha quasi avuto un orgasmo, da tanto ha riso). Il concorso di idee non c’è stato, ma pare che il Teatro dell’Arte dalla prossima stagione verrà affidato all’attivissima Triennale, che con la gestione di Davide Rampello ha trovato nuova vitalità.
Ancora, su tnm la preziosa Anna Maria Monteverdi parla dell’ultimo spettacolo di Robert Lepage, mentre Silvana Vassallo ricorda il grandissimo Nam June Paik, uno dei protagonisti dell’arte della seconda metà del Novecento, scomparso da poco. Insomma, c’è molta carne al fuoco, i forum di ateatro sono a disposizione. Se volete dimostrare un Q.I. superiore a quello dell’ex ministro delle riforme istituzionali, è opportuno:
- astenersi da calunnie, soprattutto se palesemente cretine;
- evitare insulti e apologie di reato, soprattutto se anonimi;
- cercare di dare un contributo costruttivo.
Insomma, mica è così difficile, far finta di essere intelligenti...


 


 

Lo spettacolo e i partiti (parte I)
Il teatro nella campagna elettorale 2006
di Anna Chiara Altieri e Mimma Gallina

 

Il teatro al tempo delle elezioni

Non mi ricordo da quando lavoro in teatro un'attenzione così preoccupata all'evoluzione politica da parte di amici e colleghi impegnati nel settore e ambienti connessi. Appena li incontri, ti/si chiedono "cosa succederà", e il consueto "cosa stai facendo?" si tinge di nuovi significati. Dando per scontato che di questi tempi non si fa niente di particolarmente significativo, si passa agli aneddoti ormai di rito sul degrado del sistema (fatterelli significativi e non di rado bipartisan), quindi alle frequenti simpatiche dissertazioni su dove emigrare, non sempre astratte. I più impegnati hanno personali sondaggi da esporre, effettuati in tram o sul taxi, in teatro o nelle aule, verifiche sul campo che di solito preludono a profezie più o meno cupe, mai del tutto rosee.
Non manca qualche richiamo tipo "Non chiederti cosa può fare il paese per te ma tu per lui" (ovvero, rimbocchiamoci le maniche: il punto è come, dove, quando). Rispetto a quello della volontà, è più diffuso un ottimismo un po' fatalista, stile "Ha da passà 'a nuttata". E' una concezione del mondo che ha qualche limite ma anche autorevoli supporter, come Schwejk o quel simpatico ferroviere che – risollevando l'umore a viaggiatori esasperati – ha attaccato un vistoso cartello con la famosa battuta di Eduardo nella biglietteria di una stazione del profondo nord.
Un po' di ottimismo del resto non è forse solo un atteggiamento saggio, ma un dovere civile - di questi tempi.
Fatalisti, ma consapevoli. Così, mentre i teatranti italiani si (s)battono per la sopravvivenza, seguendo con più apprensione del solito le vicende politiche, non sarà inutile dedicare un po' di tempo ad analizzare gli scenari che le forze in campo ipotizzano per il loro futuro.
Con questo servizio www.ateatro.it - in collaborazione con “Hystrio” che ne tirerà le fila nel numero in uscita in aprile - avvia una riflessione documentata a puntate e per approfondimenti progressivi sulle politiche e le proposte degli schieramenti e dei partiti di centro sinistra e di centro destra per lo spettacolo dal vivo, inquadrate nelle linee generali di politica culturale.

Una raccomandazione, un suggerimento, una preghiera

I commenti sul forum - quelli meditati e costruttivi (è possibile esserlo anche mantenendosi critici e chiari) - sono come sempre attesi e graditi. Uno dei limiti – forse delle difficoltà – dei partiti è che tendenzialmente ascoltano rappresentanze istituzionali o lobbies, ritenendo che quella sia la voce del popolo, ovvero di un settore: è anche per questo che in democrazia hanno una precisa funzione i movimenti. www.ateatro.it e “Hystrio” possono costituire nel loro piccolo un tramite per fare arrivare altre voci, ma è difficile trasmetterle ed è difficile che possano essere comprese se si limitano all'invettiva o ne hanno lo stile. Se invece sono motivate e ragionate – forse non in questa fase di campagna elettorale e in cui le posizioni sono delineate ancorché non troppo specifiche, ma nella fase immediatamente successiva – potranno farsi valere e costituire un elemento di confronto.

Tremonti non vi ama

La Casa delle Libertà sta in questi giorni elaborando il programma (avendo deciso che il contratto con gli italiani non è più sufficiente) e non siamo ancora in grado di documentare in maniera esauriente le posizioni del centro destra. Aspettiamo con curiosità. E’ presumibile infatti che anche nello schieramento corrispondente all'attuale maggioranza la politica culturale non possa essere collegata tout court alle ultime azioni di governo: troppo diffuse all'interno le (auto)critiche e gli scontenti, a livello degli operatori più o meno schierati e delle massime cariche burocratiche (che schierate lo erano, almeno al momento delle nomine).
Prima di riferire le linee dell'Unione di Romano Prodi e dei singoli partiti del centro-sinistra, è però opportuno inquadrare la situazione. Ci offre una sintesi efficace Gabriella Carlucci, responsabile spettacolo di Forza Italia: "Tremonti non vi ama" (“Giornale dello spettacolo" del 13/1, che trovare nel forum). Lo avevamo sospettato, ma la consapevolezza e l'impotenza della simpatica soubrette rende la notizia più inquietante.
Una sintesi ancora più efficace della pratica del centrodestra è l'evoluzione del FUS, che non richiede commenti.

Tabella comparativa del FUS

(*)2003200420052006
(**)
2006
(***)
enti lirici242.224.391239.055.000222.124.692184.072.350178.578.866
att.cin.91.193.22071.410.00083.626.13869.300.00067.231.800
prosa89.184.94383.400.00077.493.55564.218.00062.301.468
musica68.059.52770.350.00065.367.76554.169.50052.552.857
danza7.686.5758.700.0008.083.8606.699.0006.449.074
circhi7.683.5357.853.0007.045.9665.838.9105.664.652
f.ministro6.68612.00011.1509.2408.964,24
commiss.83.694400.000371.671308.000298.808
osserv.506.629500.000464.589385.000373.510
tot.506.629.200481.680.000464.589.389385.000.000373.460.000
tot. GDS 506.629.000 481.410.000464.589.660385.000.000373.510.000


(*) Per il 2006 è stata adottata la medesima ripartizione percentuale tra settori degli anni precedenti.

(**) Ipotesi di ripartizione.

(***) Ipotesi di ripartizione ai sensi della legge 156/2005. Interventi in favore dell'Irap e premi di concentrazione alle imprese.

Nell'anno 2005 il Fus è stato integrato dai fondi Lotto per Euro 23.800.000.

La proposta di Legge finanziaria per il 2006 prevede un taglio complessivo del 40% al fondo Lotto per i beni e le attività.

(anche in questo caso dobbiamo l'elaborato al periodico dell'AGIS)



Romano Prodi: cauto, ma non troppo

Il FUS è una gabbia, il FUS va superato e riformato eccetera, ma il calo del FUS resta il punto di partenza (o di arrivo). Ripristinare il bilancio del Ministero del 2001 è del resto la prima proposta concreta dell'Unione. Poi – nel medio/lungo periodo – porsi l'obiettivo di destinare al settore beni e attività culturali l'1% del PIL. (A proposito: la richiesta è stata ripresa dal programma dei DS ma - ricordate? - coincide anche con una delle indicazioni emerse dalle nostre Buone Pratiche a Mira. Evidentemente l'idea girava, ed era abbastanza realistica da essere inserita in un programma di governo.)
Ci avevano preoccupato un po' invece le prime posizioni di Romano Prodi: l'assenza totale perfino della parola cultura nel documento dell’Ulivo per le primarie del 16 ottobre, e il resoconto dell'incontro con qualche selezionata personalità dello spettacolo del 9 novembre:

ROMANO PRODI
La fabbrica del programma - Lo spettacolo deve continuare
Mercoledì 9 Novembre 2005

“[…] La scarsità di mezzi è pesante e sarebbe indispensabile ripristinare il Fus (Fondo unico dello spettacolo) almeno al livello su cui si era assestato prima degli ultimi tagli in Finanziaria. […]
Lo spettacolo non può vivere senza un finanziamento pubblico. Va ripristinato il Fus, come è stato proposto qui oggi, facendo ricorso all’8 per mille o alla pubblicità Rai o al recupero dei biglietti. Una cosa è certa: la cultura andrà messa tra i capitoli del bilancio dello Stato non solo importanti ma produttivi, dove il rapporto costi/benefici sia positivo. Non posso, però, oggi quantificare il valore di questi interventi fino a quando non conosceremo con precisione lo stato dei conti pubblici.”
Il testo integrale su http://www.lafabbricadelprogramma.it/cgi-bin/adon.cgi?act=doc&doc=10743&sid=66


La cautela può sembrare eccessiva, e non trapela un grande entusiasmo (ma forse la qualità dell'incontro sul fronte dello spettacolo – a quanto ci ha detto qualcuno dei partecipanti – non era tale da suscitare entusiasmi).
Ci si poteva aspettare però una consapevolezza più esplicita dei problemi dell'organizzazione e della funzione culturale anche nel libro intervista Prodi/Colombo (Romano Prodi con Furio Colombo, Ci sarà un'Italia. Dialogo sulle elezioni più importanti per la democrazia italiana, Feltrinelli, Milano, gennaio 2006): lo abbiamo scorso con attenzione alla ricerca di riferimenti, di una citazione che sintetizzasse il suo pensiero in proposito; ma non abbiamo trovato niente. Neppure una riga.
Quando sfiora concretamente il tema beni culturali e ambientali e cultura in genere Prodi tende, anche nella prefazione al libro di Giovanna Melandri (Cultura, paesaggio, turismo. Politiche per un NEW DEAL della bellezza italiana, Gremese, Roma, febbraio 2005), a ricondurlo al turismo: la necessità della ripresa e la centralità dell'economia turistica sono infatti un punto cardine dei suoi programmi e comportano la necessità di ricollegare "strategicamente la politica per la cultura con le politiche di riqualificazione del turismo in Italia".
Sarebbe davvero troppo poco. Però ci sembra che la riflessione di Prodi e Colombo sui problemi dell'Italia possa essere ricondotta nel suo complesso alla "questione culturale". Il compito principale e più gravoso di un prossimo governo di centro sinistra sarà forse proprio quello di "rieducare" il paese (in senso quasi mazziniano): far uscire un popolo dal penoso serial televisivo in cui si dibatte ormai da troppi anni.
Dalla cultura giuridica all'equità fiscale, dalla ricostruzione di una funzione internazionale, di un posto in Europa e nel mondo (politico e economico), all'integrazione dei nuovi cittadini extracomunitari, dal problema del degrado delle periferie alla questione dell'informazione. Se tutto questo non riguarda lo specifico dell'organizzazione culturale, riguarda però la funzione culturale. E un po' per essere ottimisti, un po' per non chiuderci nel nostro giardino, riguarda il teatro molto più da vicino di quanto sembri: tutto sta e starà nel declinare questo in politiche precise.

Il programma dell' Unione
(19 pagine dedicate a cultura e informazione)

Anche dal programma dell’Unione ricaviamo l'impressione che la questione culturale corra trasversalmente e vada ben oltre le 19 pagine (sulle complessive 278) dedicate a cultura e informazione (non poche). Di seguito alcuni stralci riferiti in particolare allo spettacolo dal vivo.

DAL PROGRAMMA DELL’UNIONE:
LA RICCHEZZA DELLA CULTURA

La rinascita culturale come strategia per la crescita
Il nostro Paese possiede un’inestimabile ricchezza culturale […]
La cultura è un fattore fondamentale di coesione e di integrazione sociale.
Le attività culturali stimolano l’economia e le attività produttive: il loro indotto aumenta gli scambi, il reddito, l’occupazione. Un indotto non conseguibile con altre attività: la cultura è una fonte unica e irripetibile di sviluppo economico. […]
La cultura è quindi un ambito strategico di investimento pubblico ed un ambito produttivo ad alta tecnologia, con un’ampia gamma di professioni specializzate, e che tiene un serrato dialogo con il territorio.
Le istituzioni culturali non hanno perciò bisogno di un governo statico con finanziamenti a pioggia, ma di una governance dinamica che tenga conto del loro ruolo nello sviluppo del Paese. […]
Lo strumento più proprio per realizzare interventi sistemici è il distretto culturale, che tiene insieme tutti i soggetti che possono fare sistema sul territorio marcandone la fisionomia e la crescita: dal museo alla biblioteca, all’impresa artigiana, all’Università, all’editoria, alla multimedialità, ecc. […]
Reputiamo centrale ed irrinunciabile un forte impegno pubblico […]
Dobbiamo elaborare una nuova concezione di sviluppo, che porti la cultura nell’economia, nella crescita del territorio e della vita della comunità.
Il primo tema sarà il reperimento di risorse pubbliche e private per finanziare l’attività culturale. Riteniamo necessario:
- destinare una quota dell’otto per mille e una quota degli introiti provenienti dalle estrazioni infrasettimanali del lotto alla cultura, attribuendole al bilancio del Ministero per i beni e le attività culturali;
- regolamentare l’attività della società ARCUS S.p.a., garantendo la trasparenza e la corrispondenza delle sue attività con gli obiettivi pubblici del finanziamento per la cultura, col solo indirizzo e controllo del Ministero per i beni e le attività culturali e stabilizzando la destinazione per essa del 5% dei fondi previsti per le infrastrutture (L. 166, meglio nota come “Legge obiettivo”);
- prevedere la destinazione alla produzione di spettacolo e di cinema – principali fornitori di contenuto per televisioni, providers e telecomunicazioni – di una quota degli introiti delle transazioni pubblicitarie delle emittenti televisive nazionali.
Riteniamo poi urgente:
- ristabilire il bilancio complessivo del Ministero per i beni e le attività culturali al livello previsto per il 2001;
- riportare gli stanziamenti del Fondo Unico dello Spettacolo almeno al livello previsto per il 2001 (526,4 milioni di euro complessivi) garantendone la stabilità triennale;
- stabilire l’obiettivo dell’1% del PIL di risorse pubbliche destinate alla cultura nel medio-lungo periodo;
-
aiutare la cultura con incentivi fiscali e tax shelter (scudo fiscale);
- sostenere la domanda di prodotti culturali.
Le altre misure che crediamo necessarie sono:
- tutelare il diritto d’autore soprattutto in rapporto all’innovazione tecnologica;
- regolamentare il mercato del lavoro prevedendo tutele sociali;
- istituire presso il Ministero un Osservatorio della cultura.

Sostenere lo spettacolo dal vivo
[…] Ciò a cui dobbiamo provvedere prima di tutto è una disciplina nazionale di sistema.
Tra i primi obiettivi di tale disciplina c’è quello di ridisegnare le relazioni e le competenze istituzionali e amministrative per il governo del “sistema spettacolo” nel suo complesso, muovendo dal principio generale di garanzia dell’unità e dell’equilibrio degli interventi pubblici destinati alla promozione dell’offerta e della domanda di spettacolo dal vivo. […]

Lo Stato dovrà impegnarsi a ristabilire le risorse finanziarie per lo spettacolo dal vivo, favorendo il finanziamento privato e garantendo l’equilibrio dell’offerta di spettacolo sull’intero territorio nazionale. Le nostre azioni principali in questo senso saranno:
- riportare gli stanziamenti del Fondo Unico dello Spettacolo almeno al livello previsto per il 2001 e garantirne la stabilità triennale;
- attuare norme per la defiscalizzazione totale degli investimenti delle persone fisiche e delle imprese private nei progetti e nelle attività di spettacolo dal vivo;
- perequare gli interventi pubblici tramite interventi di promozione nelle aree e nei territori;
- istituire un sistema di incentivi al consumo di spettacolo dal vivo ( riduzioni del prezzo del biglietto e dei servizi per fasce qualificate di consumatori);
- definire i compiti e il ruolo della società ARCUS, ancora priva del regolamento previsto dalla legge istitutiva, per superare i micro interventi finora affidati a questa società, a favore di interventi strutturali di sistema coerenti con gli indirizzi e le finalità pubbliche della promozione dello spettacolo;
- diffondere la produzione italiana dello spettacolo dal vivo all’estero, riformando l’Ente teatrale italiano (ETI), depurandolo da funzioni improprie e mettendolo in grado di operare in sinergia con analoghe strutture degli stati membri dell’Unione europea;
- stabilire regole di programmazione dello spettacolo dal vivo italiano ed europeo sulle reti televisive e radiofoniche nazionali e accordi per spazi di informazione e promozione dello spettacolo dal vivo;
- dedicare maggiore attenzione alle espressioni artistiche giovanili, compresa la musica italiana contemporanea, e al balletto, oggi trascurato dalle politiche pubbliche. -
Altra priorità della nostra azione sarà la formazione delle professioni e del pubblico.
In tema di formazione, dovremo garantire degli standard minimi per le professioni artistiche e tecniche dello spettacolo, prevedendone la qualificazione permanente.
Dovremo inoltre promuovere e sostenere la costruzione del pubblico del futuro, dotandolo degli strumenti di conoscenza fondamentali a partire dalla scuola pubblica.
A fronte del rilievo assunto dalle professioni creative, artistiche ed intellettuali, dovremo prestare attenzione particolare alla regolamentazione del mercato del lavoro dello spettacolo […]
La riduzione del Fondo Unico dello Spettacolo a 385 milioni di euro per il 2006 e a 300 milioni per il biennio 2007/2008 pone inoltre in primo piano la questione della crisi delle Fondazioni lirico sinfoniche. […] Ad oggi la leale ed equilibrata collaborazione tra pubblico e privato che esso voleva realizzare non si è del tutto compiuta.


Non è stato facile tagliare, ma non potevamo riportare tutto: trovate il programma integrale su http://www.lafabbricadelprogramma.it/r e anche su
http://www.dsonline.it/allegatidef/programma_def_unione31307.pdf

Unione: zoom su Milano

Anche in occasione delle primarie di Milano, in vista delle elezioni amministrative, l’Unione si è presentata con un programma comune. Contrariamente a quanto era avvenuto per le consultazioni che hanno confermato la leadership di Prodi, e anche in questo caso cultura, sviluppo e innovazione avevano uno spazio significativo.
Ci sembra interessante riportarne alcuni passaggi, anche come indicazione sulle possibili chiavi di lettura locale della politica nazionale.

UNIONE
Milano, idee per il governo
Linee guida per l’elaborazione di un programma per il cambiamento

[…] Noi vogliamo innanzitutto che Milano sia riconosciuta in tutti i campi capitale dell’innovazione, emblema del futuro. Dalla straordinaria concentrazione di sedi universitarie, passando per la storica vocazione creativa in tutti i campi, per giungere infine alla sua naturale posizione di cerniera con l’Europa, Milano deve rappresentare per l’Italia intera quel punto di riferimento per il futuro che oggi manca. […]
Solo dentro questa cornice, Milano può tornare ad essere una delle grandi città europee ed internazionali della cultura, per la sua tradizione in questo campo, per le numerosissime eccellenze in ognuna delle diverse forme della cultura e dell’arte, per una tendenza positiva alla collaborazione tra impresa privata e ed enti culturali pubblici, per la presenza di realtà associative finora poco valorizzate, per la rete di piccole e medie imprese culturali diffuse e all’avanguardia.
[…] Università e Centri di ricerca, Scuola e Formazione sono certamente nodi strategici del progetto di rilancio per Milano: diritto allo studio, qualità dei servizi, partecipazione di utenti e dei docenti, formazione professionale ed educazione permanente, integrazione degli stranieri sono solo alcuni degli obiettivi prioritari che ci poniamo in questo campo.
Anche per questo è con i giovani di questa città che va sancito un patto di solidarietà, capace di costruire le condizioni per il loro futuro e di sconfiggere l’orizzonte della precarietà. Casa, scuola, cultura, servizi, diritto all’autogestione, spazi ad uso sociale saranno gli elementi di questo patto.
[…] Vogliamo valorizzare le nostre periferie, che non meritano il degrado in cui sono lasciate. Rilanciare attività, lavoro, cultura, spettacolo, sport, significa riportare vita, rapporti sociali, convivialità, sicurezza, fiducia. Significa far rivivere i quartieri popolari, anche attraverso una capillare rete di servizi di prossimità.
(dal volantino di “Cantiere Milano 2006”, l’alleanza tra i partiti dell’Unione in occasione delle primarie di Milano del 29 gennaio scorso)


Sembra essere sullo sviluppo futuro di alcune grandi città (pensiamo in particolare al rilancio di Torino, e di alcuni territori turistici per antica e nuova vocazione) che si gioca la scommessa sulla possibile integrazione nelle politiche culturali di due diverse funzioni (dando per costitutiva quella artistica e creativa): un'antica e primaria funzione sociale (un po' da reinventare certo, ma determinante per i sostenitori di un nuovo welfare) e la funzione di motore economico (spesso citata fra entusiasmo e scetticismo). Ci sembra che sia l'oscillazione fra un polo e l'altro a determinare le differenze di posizione all'interno dello schieramento e da parte dei singoli, differenze non lievi a volte (ma certo non impossibili da ricomporre).


Democratici di Sinistra
Vittoria Franco risponde a www.ateatro.it


In ambito culturale il programma dell'Unione ha nella sostanza recepito le proposte elaborata dai DS, che ci sembra si pongano di fatto – almeno sul terreno dell'elaborazione teorica – come partito guida della coalizione in questo ambito. Proprio perché molto simili a quello comune, non riportiamo stralci da documenti programmatici di questo partito. Le linee guida sono riconducibili ad una concezione della "cultura come tessuto connettivo e propulsore della crescita sociale ed economica del territorio".
Rimandiamo per approfondimenti ai seguenti documenti:

- il programma dei Democratici di Sinistra per la promozione e lo sviluppo della cultura, 25 novembre 2005
- Valore cultura, Giornata di lavoro sui progetti e le politiche di sviluppo per la cultura e per l'economia, 30 novembre 2005, relazione introduttiva di Vittoria Franco

In un'intervista al "Giornale dello Spettacolo" già rilanciata da ateatro, Vittoria Franco, responsabile culturale del partito, sintetizza gli impegni in caso di vittoria elettorale: “[…] Un primo segnale, se vinceremo le elezioni, sarà quello di riportare il Fus 2007 ai livelli del 2001, cioè a circa 527 milioni di euro. Poi ci impegniamo, nell’arco della legislatura, ad investire in cultura l’1% del bilancio statale."(dal "Giornale dello Spettacolo", n. 35 del 16 dicembre 2005)
Sono anticipazioni delle posizioni che farà successivamente proprie l'Unione, anche se manca il successivo accenno ai tempi "medio lunghi" rispetto all'obiettivo all'1%.

Abbiamo chiesto a Vittoria Franco di approfondire alcuni punti per ateatro e “Hystrio”
(e la ringraziamo molto per la disponibilità e rapidità con cui ci ha risposto, anche in considerazione degli incalzanti impegni elettorali).

LA FUNZIONE DELLA CULTURA
Non è solo questione di "indotto" e di settore economicamente strategico: anche in alcuni interventi di esponenti dell'Unione si cade - ci sembra - in questo trabocchetto. Riportare la cultura al centro dell'attenzione politica cosa significa esattamente?

Significa fare della cultura uno dei fattori dello sviluppo del Paese Italia. Non si riesce a immaginare oggi un paese moderno, che sappia riconvertirsi nel processo di trasformazione economica da paese industriale a paese postindustriale, a economia dematerializzata. Come non si riesce a immaginare un paese che voglia contribuire alla strategia di Lisbona che non investa in cultura. Se, infatti, vogliamo essere protagonisti della costruzione della società della conoscenza - e possiamo esserlo giacché disponiamo di notevoli energie intellettuali e creative - dobbiamo investire di più in ricerca, innovazione e cultura. È dimostrato che la creatività si sviluppa solo in un tessuto culturale ricco.

LA QUESTIONE DELLE RISORSE
Mi sembra di cogliere qualche sfumatura non irrilevante fra le cautele iniziali di Prodi - posizioni come quelle espresse da Giovanna Meandri - e le sue. (Per Melandri vedi anche Giornale dello spettacolo n. 2 del 20 gennaio 2006, il testo integrale su http://www.agisweb.it/news/gispe/gispe_1000425174_6934.RTF) Ad esempio: il ritorno al FUS 2001 è un passaggio necessario (senza dimenticare però che i fondi 2001 sono, in termini reali, oltre il 40% in meno rispetto a quelli dell'85), tuttavia fra l'impegno dell' 1% e il "non arretramento" dello Stato di cui parla Melandri (ribadendo parallelamente una sostanziale fiducia nell'intervento privato), mi sembra ci sia una certa differenza. Anche i tempi "medi-lunghi" previsti (documento unione) possono non risultare troppo tranquillizzanti agli operatori dello spettacolo. C'è un'effettiva volontà e un accordo sui modi per rilanciare il settore all'interno di DS e dell'unione?

Il documento dell'Unione è stato elaborato in un tavolo al quale hanno cooperato tutti i partiti dell'Unione. Abbiamo fatto tutti uno sforzo di ricerca per condividere anche le questioni sulle quali potevano inizialmente registrarsi delle differenze. Il documento finale è davvero frutto di uno sforzo comune anche di elaborazione di nuove proposte rispetto a quelle dei partiti. Anche il metodo è importante: ci siamo ascoltati fra di noi e abbiamo ascoltato operatori, associazioni, personalità che esercitano funzioni di direzioni di teatri e agenzie culturali. La prospettiva di dare subito il segnale di un'inversione di tendenza ristabilendo l'ammontare del FUS ai livelli del 2001 e lavorare per raggiungere l'obiettivo dell'1% del PIL nei 5 anni di legislatura, sicuramente ambizioso, è la conseguenza del progetto per il Paese che abbiamo presentato, in cui la cultura è considerata uno dei motori dello sviluppo. Posizioni diverse da quelle contenute nel documento dell'Unione sono legittime, ma rappresentano posizioni personali.

LA RIORGANIZZAZIONE DEL MINISTERO
Confermando la correttezza della costituzione di un Ministero che unificasse SPETTACOLO E BENI CULTURALI, il rilancio del settore passa anche dalla riorganizzazione del dicastero. Si sono fatte anche ipotesi di accorpamento (ad esempio con l'area dell'informazione.) Cosa proponete?

Al Tavolo dell'Unione si è posta soprattutto la questione di come rendere il Ministero una struttura più efficiente, capace di interloquire con strutture periferiche che dispongano di maggiore autonomia, di colmare i circa 7 livelli di separazione a cui lo ha costretto la riforma fatta dal governo di centrodestra, che ne ha fatto una struttura elefantiaca e fine a se stessa.

LA QUESTIONE LEGISLATIVA (settore SPETTACOLO DAL VIVO)
Lei pensa davvero che la bozza "Rositani" sia un punto di partenza accettabile come sembrerebbe da alcuni documenti DS? (risente vistosamente di mediazioni su argomenti significativi e minimi, che potrebbero non essere necessari in una posizione di maggioranza). Non sarebbe allora un riferimento migliore la bozza di legge delle Regioni? E il progetto legge DS costituisce ancora un documento di riferimento? Non sarebbe più semplice, veloce e proficuo "azzerare"?

Siamo convinti che lo spettacolo abbia bisogno di una legge di sistema che risponda alle novità del rinnovellato titolo V della Costituzione. Il come lo vedremo nel momento in cui ci trovassimo a svolgere, come ci auguriamo, funzioni di governo.

LE RIFORME DEI PRECEDENTI GOVERNI DI CENTRO SINISTRA
Su punti come le Fondazioni Liriche, si coglie nei suoi interventi la consapevolezza della imperfezione della riforma fatta a suo tempo. Anche se siamo in campagna elettorale, una riflessione, un'autocritica sui possibili errori dei precedenti governo di centro sinistra forse sarebbe utile: a parte le Fondazioni LS, Lei ne individua altri?

Siamo d'accordo sul fatto che occorre innovare su molti aspetti. Non si tratta di fare autocritiche, ma di prendere atto realisticamente e per il bene dei vari settori di ciò che va corretto, aggiustato o cambiato in termini più radicali. A proposito del cinema, ad esempio, abbiamo fatto una proposta di profonda discontinuità. Per le Fondazioni lirico-sinfoniche, pensiamo che alla legge debbano essere fatte correzioni che ne rafforzino lo spirito positivo, quello di favorire l'intervento dei privati attraverso benefici fiscali che rendano più accettabile anche al medio o al piccolo privato di contribuire alla vita di un teatro che arricchisce il tessuto culturale e sociale della città o del territorio in cui fa impresa o esercita la sua professione.

QUALCHE PUNTO CONCRETO

ETI. Senza nessuna discussione parlamentare o pubblica, il Ministro Urbani ha "riformato" l'ETI. Ci sono idee chiare sulla sua funzione/evoluzione? Cosa pensa dello scioglimento ipotizzato nel progetto legge delle Regioni?
Abbiamo discusso a lungo su questo punto e siamo d'accordo sul fatto che anche qui dobbiamo innovare in modo positivo. Abbiamo deciso però anche di allargare la discussione agli operatori e ai sindacati per elaborare una proposta condivisa.

ARCUS.
Si chiede la trasparenza, non se ne mette in discussione l'esistenza. L'istituzione di ARCUS ha visto l'unanimità in commissione cultura, ma è stato subito chiara l'impossibilità di indirizzarne l'azione. Da dove passa la trasparenza? solo regolamento o altro? ed è un obiettivo necessario, ma sufficiente? Cosa vorreste fare in prospettiva di ARCUS?

La trasparenza è necessaria e i regolamenti attuativi, che ancora non esistono, urgenti per evitare l'arbitrio che finora ha imperato. Arcus può continuare a essere uno strumento attraverso il quale far arrivare risorse alla cultura, ma la condizione deve essere l'unitarietà della gestione in un unico Ministero. Il problema delle risorse sarebbe senza dubbio meno grave se non ci fosse una loro dispersione in una molteplicità incontrollabile di canali, non ultima quella - che noi abbiamo denunciato con forza - di circa 270 milioni di euro previsti nella finanziaria del 2006, a favore di regalie a piccole o grandi istituzioni, che passano attraverso il protagonismo dei singoli parlamentari.

SPOIL-SYSTEM.
Possiamo dirne in teoria tutto il male possibile. In questa fase molti uomini messi in posizioni chiave dal centro destra stanno rivendicando la passione maturata, la funzione "tecnica", l'equidistanza dalla politica (penso ad alti funzionari ministeriali e altro). Come si potrà muovere un nuovo governo su questo terreno? Sarà possibile non cadere in eventuali "clientele" di sinistra? Ovvero: come si realizza in concreto l'affrancamento dell'organizzazione culturale dalla politica di cui parlano anche i documenti dei DS e dell'Unione?

È vero che lo spoil system è stato esercitato - e purtroppo, continua a esserlo ancora in questi scorci di legislatura - in maniera selvaggia da questo governo e da questa maggioranza di centrodestra. La politica deve essere invece il luogo dove si elaborano indirizzi e si esercitano controlli; e certamente questo lo si fa anche attraverso le persone. Il problema vero sono però le forme e i criteri di scelta delle persone: la competenza o la fedeltà verso chi governa al momento? Noi scegliamo le competenze, le professionalità, la capacità di interloquire coi soggetti esterni e fra i vari livelli dell'amministrazione dello Stato.

PRIORITA’.
Al di là dei finanziamenti, è possibile individuare le priorità di una prossima azione di governo nel settore della cultura e dello spettacolo? (il documento dell'Unione è così ampio da risultare vago)

Non mi sembra che il programma dell'Unione sia vago; in molti casi mi sembra fin troppo dettagliato. Anche le priorità sono chiare.
1. Le risorse sono una priorità. Molti dei problemi dello spettacolo derivano, come sappiamo, proprio dai decrescenti finanziamenti che impediscono una seria e lungimirante programmazione, almeno triennale.
2. Individuare canali di reperimento delle risorse nuovi rispetto al passato significa che esse si potranno garantire con maggiori certezze, indipendentemente dalle angoscianti leggi finanziarie.
3. Una legge che favorisca l'intervento dei privati, posto che le risorse pubbliche sono necessarie e insostituibili.
4. Una legge di sistema.
5. Prevedere forme di accompagnamento di una forma di lavoro che è per sua natura "flessibile".


Timori non sempre infondati
(a proposito delle gestioni di centro sinistra del Ministero dei Beni e delle Attività culturali)


Vale la pena di ricordare perché qualche preoccupazione serpeggia fra gli operatori dello spettacolo anche nell'eventualità – che la maggior parte auspica, ne siamo convinti – che vinca il centro sinistra.
I ministri Veltroni, e poi Melandri, sono stati indiscutibilmente molto attivi e siccome a quella politica in parte l’Unione continua a richiamarsi (in particolare e comprensibilmente Giovanna Melandri la rivendica nel libro-programma esplicitamente indirizzato a Prodi sul "new deal della bellezza italiana" citato), vale la pena di ricapitolarne le azioni principali.

La costituzione del Ministero
, che ha riunito Beni e Attività Culturali: una scelta strategica, se pure non sostenuta da adeguati investimenti (e la stessa ex ministro ricorda le sue difficoltà in proposito), per di più in gran parte risucchiati dal Giubileo.
Va detto che anche la tenuta nominale del FUS (un leggero incremento, anzi) non è riuscito a frenare in quegli anni – e forse era inevitabile – la progressiva caduta del suo valore reale (per tutto questo rimandiamo al Rapporto sull'economia della cultura in Italia 1990-2000, Il Mulino, Bologna, 2005, a cura di Carla Bodo e Celestino Spada, che pure sottolinea ripetutamente la maggiore dinamicità della spesa pubblica nella seconda parte del decennio rispetto alla prima).
La riforma degli Enti Lirici con la trasformazione in Fondazioni, della cui imperfezione si è già detto.
Prima ancora la riforma delle Commissioni Consultive (la prima nominata da Veltroni ha avuto un notevole valore simbolico): via gli addetti ai lavori, stop al conflitto di interesse, nomine ministeriali; come questa innovazione – già scricchiolante in partenza – sarebbe stata gestita nell'era Urbani lo abbiamo raccontato su www.ateatro.it.
Le riforme e il rafforzamento dell'INDA e della BIENNALE.
Il varo dei regolamenti triennali per prosa, musica e danza, poi decaduti.
L’elaborazione di progetti di legge – cui i regolamenti preparavano il terreno – rimasti impantanati nel cambio di legislatura.
L'aiuto più rilevante al settore, arrivava però da una riforma fiscale: l'abolizione dell'Imposta Spettacolo (il 5% che gravava su tutti gli incassi).
Va ricordata anche la parziale defiscalizzazione dei contributi privati, l'ultima riforma, rimasta per motivi di tempo senza regolamento attuativo: già imperfetta di partenza verrà molto mal gestita – paradossalmente – proprio dal nuovo governo che inneggia al privato. Il mancato decollo della sponsorizzazione viene dagli analisti imputato anche a questo limite.
Fra i provvedimenti "minori", si dovrebbe ricordare il finanziamento speciale attraverso l'ETI alle aree disagiate, finanziamento decaduto e non rimpiazzato da altro a favore del Sud (se facciamo eccezione per l’INDA e il sostegno - subito consistente - al neonato Stabile Privato di Calabria) ancora con la gestione Melandri. La scelta si nota anche perché, parallelamente, si approvavano disposizioni discutibili a fine legislatura a beneficio di territori ad alta densità di spettacolo; ci riferiamo in particolare al nascente Festival Parma-Reggio (che da solo assorbirà quanto le aree disagiate).
Per le riforme non fatte va ricordato l'ETI, che rimane commissariato durante i governi di centro-sinistra in attesa di essere rilanciato nel quadro della revisione legislativa generale (come ente cardine di gestione della trasformazione del sistema): peccato che il Ministro Urbani ci abbia pensato poi lui, a riformarlo come sappiamo, e senza passare dal Parlamento.

Perché i lamentosissimi teatranti non si considerano soddisfatti di tutto ciò? Perché, al di là delle dichiarazioni di principio del Ministero sulla funzione e funzionalità delle istituzioni, sull'importanza dell'innovazione, sul ruolo delle compagnie, sulla centralità del territorio, eccetera, al di là del fondamentale principio della triennalità e qualche altro punto davvero importante dei regolamenti, nella sostanza – in soldoni – l’impressione più che motivata è stata che si sia lavorato soprattutto a rafforzare, centralizzare e sostenere alcune punte (di eccellenza, forse, come si usava molto dir allora, tanto che il termine ha quasi perso significato), sottovalutando la funzionalità del tessuto teatrale nel suo complesso.
Quel tessuto che avrebbe dovuto reggere – come si è visto – anche in tempi bui e che ha in effetti retto non si sa bene come, ma non si è ancora svegliato dall'incubo Parma/Reggio, che nel frattempo ha preso la faccia del ministro Lunardi. E’ per questo che si possono leggere oggi con sospetto anche i sacrosanti e da tutti condivisibili richiami contro i finanziamenti a pioggia (a favore di chi si eliminerà questa disastrosa pratica?). Perfino l'intelligente strumento dei distretti culturali potrebbe sottrarre allo spettacolo risorse fondamentali per spostarle su beni e paesaggio.
Certo, questi timori forse sono frutto di miopia, ma come www.ateatro.it possiamo e dobbiamo dar loro voce, non potendo certo essere tacciati di corporativismo, e avendo indicato con chiarezza alcune priorità (dalle Buone Pratiche in avanti: invitiamo in particolare a rileggere Raddoppiare la spesa della cultura in 5 anni? su ateatro 92.

Una preoccupazione diversa, ma che vale la pena di riferire, è quella che il Ministero e la politica culturale restino residuali, nonostante le dichiarazioni di principio. Per esempio, Giorgio Van Straten, già presidente AGIS, attualmente presidente di Palaexpo, in un'intervista al Giornale dello Spettacolo.

Se, come si sente dire spesso, l’Unione dovesse vincere le elezioni, cosa potrebbe fare di meglio di quello che fece il centrosinistra nella precedente legislatura, alla fine della quale gli uomini di spettacolo non erano particolarmente soddisfatti?

Farei innanzitutto una distinzione. Credo che nell’esperienza della precedente legislatura ci siano state due fasi differenti: nella prima la delega alle Attività Culturali l’aveva il vicepresidente del consiglio dei ministri e questo fatto, al di là delle caratteristiche personali di Walter Veltroni, aveva, evidentemente, un rilevante peso politico. La scelta della dimensione strategica della spesa nella cultura era testimoniata dalla stessa composizione del governo. Questa scelta è stata sicuramente ridimensionata nella seconda parte dell’esperienza di governo del centrosinistra. E’ stato mantenuto il livello di finanziamento, ma il clima è cambiato. Quando, come presidente dell’Agis, andai a parlare al termine della legislatura con un componente della commissione che si occupava delle riforme costituzionali, manifestando la nostra insoddisfazione per il nuovo e peggiorativo assetto dello spettacolo, mi sentii rispondere: “La formulazione precedente è stata scritta quando c’era Veltroni. Ora non potete più pensare di averne una ad hoc.

In sintesi: chi sarà il Ministro, non è un dettaglio.

Rifondazione Comunista
No alla deresponsabilizzare lo Stato, no alla regionalizzazione del Fus


Rifondazione Comunista non ha espresso elaborazioni recenti in materia né promosso convegni nazionali, anche se il partito si è espresso con chiarezza sulle vicende del FUS. Così l'On. Titti De Simone: “[boccio] la retorica dell’investimento privato, utile a deresponsabilizzare lo Stato, no alla regionalizzazione del Fus, no ad un paese che marcia a diverse velocità, no alla privatizzazione, no al reference system, no alle concentrazioni tra produzione, distribuzione ed esercizio” (dal “Giornale dello Spettacolo”, n. 34, 2 dicembre 2005).
E' però stato particolarmente attivo sui temi del rapporto pubblico/privato e della precarietà del lavoro durante l'intera legislatura: oltre al progetto di legge sullo spettacolo dal vivo del 2/10/2002, va ricordato quello sugli "intermittenti dello spettacolo" del 2005 (reperibili su sito della Camera di deputati/ Partito della RC).

Il documento che riportiamo di seguito, del 2005, è una sintesi, una griglia "guida" della politica culturale, anche a livello regionale.

Proposta di alcuni punti per una griglia di politiche regionali per la cultura

1. Costruzione di momenti e luoghi permanenti di confronto, elaborazione e verifica con l’associazionismo e le forze sociali e culturali presenti sul territorio;
2. trasparenza e rigore nelle nomine negli enti culturali, basate su curricula, professionalità e competenza;
3. politiche economiche per consentire ai giovani e a chi ha basso reddito di poter accedere alla cultura: prezzi economici per cinema, teatri, concerti, libri mostre;
4. costituzione di vere e proprie “case delle culture”: luoghi di incontro, divulgazione, partecipazione, produzione, sperimentazione, approfondimenti ed espressione destinati soprattutto ai giovani;
5. promozione e sostegno di tutte le forme di associazionismo realmente legate al territorio;
6. priorità alla formazione: dalle scuole alle biblioteche, ai centri di sperimentazione, ai laboratori;
7. convenzioni tra le scuole e le istituzioni culturali pubbliche e private (cinema, teatri, gallerie, musei, sale di concerto, biblioteche, eccetera);
8. sostegno economico e incentivi alla produzione culturale realmente autonoma e indipendente;
9. leggi regionali per creare ammortizzatori sociali per i lavoratori dello spettacolo;
10. sostegno ai festival, agli incontri, ai convegni di studio sui problemi della cultura legati al territorio.


A RC abbiamo rivolto le stesse domanda sottoposte ai DS, con qualche variante. Rispondono Patrizia Bortolini, responsabile cultura Milano, e Stefania Brai, responsabile nazionale dipartimento spettacolo, che ringraziamo per la sollecitudine.

LA FUNZIONE DELLA CULTURA. (per il testo della domanda, vedi sopra)

Innanzi tutto dobbiamo tutti renderci conto che la cultura non rappresenta semplicemente un settore strategico, quel che pensa il paese si forma anche attraverso la cultura... detto questo pensiamo che la politica dovrebbe dare strutture, accessi alla produzione, fruizione, strumenti critici ed evitare assolutamente di farne uno strumento da torcere sugli interessi di questa o quella forza di governo. In Italia abbiamo problemi enormi: non si legge, non si va a teatro e il 24% dei giovani non è in grado di interpretare un testo scritto... è su questo che si deve intervenire. La cultura e la conoscenza sono un bene comune, è da questo che si deve ripartire.

Siete pienamente soddisfatti di come l'argomento è trattato nei documenti unitari dell'Unione?

Sì, abbiamo ottenuto che la cultura venga considerata una risorsa e che l’ intervento pubblico sia prioritario. E’ stata una conquista non scontata, è da qui che si riparte, una sterzata a 180 gradi.

LA QUESTIONE DELLE RISORSE. C'è un'effettiva volontà unitaria e un accordo sui modi per rilanciare il settore?

Pensiamo di sì, magari appunto con approcci diversi, ci preoccupa però che nel testo definitivo sia scomparso l’obiettivo fissato da tavolo, l’1% del bilancio dello stato in 24 mesi, cioè a medio termine. L’obiettivo intermedio era una garanzia, noi chiediamo inoltre che una percentuale delle spese per gli armamenti vada spostato alla cultura.

LA RIORGANIZZAZIONE DEL MINISTERO. Anche con riferimento all'ipotesi di accorpare il settore informazione e telecomunicazione. Quale è la vostra posizione in proposito?

Francamente ci lascia perplessi, si tratta di campi specifici, inoltre si rischia di costruire situazioni eccessivamente “organiche”, si dovrebbero magari costruire diversi dipartimenti, un dipartimento legato a cultura e spettacolo ed uno alle attività culturali legate al turismo. Certo la comunicazione televisiva fabbrica cultura, l’informazione è un ambito un po’ diverso.

LA QUESTIONE LEGISLATIVA. La legge del PRC costituisce tuttora un punto di riferimento ideale?

Assolutamente sì. La mediazione Rositani deve essere superata, la nostra legge è il riferimento e ne stiamo elaborando una per la musica. Ma siamo pronti a posizioni maggiormente avanzate.

RIFORME E AUTOCRITICHE.
Anche se siamo in campagna elettorale, una riflessione sui possibili errori del precedente governo di centro sinistra forse sarebbe utile: ne individuate?

Sì, sicuramente, come autocritica, per quanto riguarda i beni culturali avremmo potuto evitare il distinguo che ha poi permesso a Urbani di fare lo scempio che ha fatto. Le critiche riguardano invece le politiche di privatizzazione della cultura, per esempio le fondazioni. Anche la riforma Bassanini al titolo V della Costituzione ha prodotto danni collocando la cultura tra le materie concorrenti: noi riteniamo invece che si debba pensare a una politica nazionale, certo con un intelligente ruolo delle Regioni.

QUALCHE PUNTO CONCRETO. Il PRC è l'unico che batte con precisione sulla questione della precarietà del lavoro nel settore culturale e dello spettacolo. Ma il documento dell'Unione non ne parla in specifico (accorpando probabilmente il settore agli altri ambiti di precarietà). Porterete avanti la vostra proposta sugli intermittenti? Come?

Certo che si! Innanzi tutto costruendo con i lavoratori e le lavoratrici ambiti di pressione, vertenze, dando loro valore e voce, in Italia c’è una situazione molto complessa per quanto riguarda i tipi di contratti, ma per noi è un aspetto fondamentale, il nostro riferimento è il modello francese. Ma non possiamo illuderci: non verrà regalato nulla, dovremo ottenerlo.

ETI e ARCUS.

L’ARCUS per noi andrebbe abolita, in ogni caso sia ARCUS che l’ETI vanno ripensate e ristrutturate. Noi anche su questo vorremmo dare il segnale di un metodo diverso di governare, è per noi punto principale la costituzione di un tavolo di consultazione permanente con gli ambiti di settore.

SPOIL-SYSTEM.

Non enfatizzando lo spoil, non pensiamo che siano utili le “pulizie etniche”, si deve invece dividere la funzione amministrativa dalla programmazione. Deve essere rispettata la professionalità e la competenza, senza lasciare spazio, è ovvio, all’incompatibilità.

PRIORITA’.

Le tre leggi di settore e risorse certe.

MINISTRO. I DS ci terrebbero che il nuovo ministro fosse dei loro. E il PRC? Potete darmi una valutazione sintetica dei precedenti ministeri Veltroni/Melandri? Cosa aveva funzionato e cosa no?

Al di là dei nomi pensiamo che le politiche di privatizzazione avviate siano state un disastro: cultura, scuola, beni culturali. La destra in molti casi si trovò la strada aperta...

MOVIMENTI E RAPPRESENTANZA. Come negli altri campi della società, la cultura e lo spettacolo non si sentono adeguatamente rappresentati dalle organizzazioni tradizionali (AGIS, Sindacato, partiti), quale potrà essere la funzione del PRC in proposito all'interno di un futuro governo?

Noi pensiamo che si debbano portare i movimenti stessi nelle istituzioni, quindi cerchiamo di costruire insieme luoghi, come il laboratorio sul lavoro precario o il tavolo di consultazione, nei quali condividere “con” queste istanze la costruzione di una politica. Noi non vogliamo solo farci carico, ma agire insieme, essere, questo sì, garanti della riapertura di una relazione tra le istanze sociali e le istituzioni, garanti di un riconoscimento verso le competenze professionali.




Italia dei Valori, Margherita e gli altri

Negli ultimi mesi del 2005, ormai alle soglie della campagna elettorale, molto si è discusso intorno ai problemi della cultura e dello spettacolo in particolare, a fronte della grave situazione determinatasi con l’ultima manovra finanziaria, che – con i drastici tagli al Fus e insieme al protrarsi della mancata emanazione di regolamenti amministrativi di riferimento – ha messo a serio rischio la sopravvivenza dell’intero sistema. Pochi i partiti che non si sono pronunciati; numerosi esponenti del centro-sinistra in particolare – in vista delle elezioni politiche del prossimo aprile – si sono espressi sugli orientamenti e i provvedimenti che intenderebbero adottare in caso di vittoria. Le voci sono molteplici e non sempre del tutto omogenee come stiamo vedendo. E anche i tempi dei singoli partiti sono diversi, a fronte di un impegno unanime.

Diversa dagli altri partiti, e per certi versi dissonante, la voce de L’Italia dei valori di Antonio Di Pietro, che ha organizzato il 4 febbraio un convegno, e chiede più pluralismo e più libertà per gli operatori culturali. Riportiamo alcuni stralci del programma.

ITALIA DEI VALORI

Programma cultura

1. CULTURA E FRUIZIONE CULTURALE
Le politiche culturali sono particolarmente esposte alle degenerazioni clientelari e al controllo dei partiti sulle istituzioni e sulle organizzazioni del settore. A ciò si deve aggiungere l’estrema concentrazione delle risorse. […] Tutto ciò ha limitato sistematicamente il pluralismo […]
Le nostre proposte sono le seguenti
• aumento considerevole degli investimenti per la realizzazione di infrastrutture che in Italia sono poche, concentrate e scarsamente accessibili: […]
• separazione delle competenze e affidamento delle responsabilità decisionali ad organismi tecnici indipendenti. […]
• avvio di una competizione di mercato fra gli operatori, con una diversa utilizzazione dei finanziamenti pubblici alle attività culturali erogati tramite un sistema premiante a posteriori in relazione al successo avuto dall’iniziativa tra il pubblico. […]
• incentivazione dell’afflusso di fondi dai privati […]
• maggiore differenziazione nei prezzi dei biglietti d’ingresso a mostre, concerti e quant’altro […]

2. CULTURA E INDUSTRIA CULTURALE
Le industrie culturali hanno attualmente un’influenza enorme sulla formazione della cultura e della mentalità in senso lato e sul modello tradizionale di comunicazione. Sono quasi totalmente globalizzate, orientate quindi verso l’omogeneizzazione e l’imperialismo culturali […]
è necessario incentivare le attività artistiche e culturali di carattere amatoriale e le iniziative in grado di contribuire ad una vera e propria democrazia culturale di base, nella quale la creatività sia patrimonio di tutti. […]
Da http://www.italiadeivalori.it/presentazione/PROGRAMMA.DOC


La Margherita, che ha espresso posizioni molto decise sul finanziamento pubblico e soprattutto è stata particolarmente attiva in Commissione, ha in programma un convegno per il prossimo 23 febbraio a Roma: “Spettacolo e industria culturale nell’era digitale. OLTRE IL FUS, OLTRE L’INCERTEZZA"
http://www.margheritaonline.it/notizie/scheda.php?id_notizie=21752

Ve ne parleremo in una prossima puntata, cercando di mettere a fuoco anche le posizioni degli altri gruppi del centro-sinistra. E poi, naturalmente, anche quelle del centro-destra.


 


 

Il ministro Buttiglione detta le regole per la nuova stagione
Considerazioni a margine
di Franco D’Ippolito

 

Sabato 4 febbraio scorso è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il D.M. del 21 dicembre 2005 con il quale il Ministro Bottiglione ha emanato le regole per l’assegnazione delle sovvenzioni al teatro di prosa per il 2006 e per gli anni a venire, in attesa della legge di indirizzo generale che fissi i criteri e gli ambiti di competenza dello Stato, delle regioni e delle autonomie locali in materia di spettacolo.
Va subito detto che il Decreto ricalca sostanzialmente la normativa precedente (D.M. 27.02.2003) pur introducendo alcune novità che vorremmo evidenziare, cercando di interpretare il pensiero programmatico che le ha determinate. Tali modifiche sono state concordate con le categorie (con i rappresentanti delle associazioni del teatro in seno all’Agis).

Le novità che riguardano tutti i soggetti sono:
- (art.3, comma 9) per gli spettacoli di nuova produzione, venendo meno la previsione di attività triennale, il nuovo decreto prevede che almeno la metà deve essere programmata nell’anno per un minimo di 20 giornate recitative, anziché 30 come era fino al 2005. E’ una delle modifiche che prende atto delle difficoltà del settore e che lo fa nei confronti di tutti i soggetti (e non solo nei confronti di qualcuno, come vedremo per gli stabili pubblici).
- (art.4, comma 2) il nuovo termine per la presentazione delle domande è fissato al 31 ottobre dell’anno antecedente il periodo per il quale si chiede il contributo, con possibilità di integrazione entro il 31 gennaio successivo. Si fa così giustizia di un termine (quel 15 settembre di cui al D.M. 27.02.2003) che tanti problemi aveva creato a molti, vista la vicinanza con la pausa estiva, e si consentono integrazioni e modifiche (che a quanto si sa non hanno limiti sul piano del progetto artistico, ma possono essere solo in diminuzione sul piano delle quantità dell’attività).
- (art.4, comma 3) condizione di ammissibilità al contributo ministeriale resta l’aver svolto attività per almeno tre anni, non più però genericamente ma con i requisiti minimi previsti dalla disciplina di riferimento, mentre non è più equiparata al triennio di attività l’ipotesi di aver come direttore artistico od organizzativo chi avesse ricoperto per almeno due anni tale carica in altri organismi ammessi al contributo. La modifica entrerà in vigore però soltanto dal 1° gennaio 2007 (forse c’è qualche soggetto che nel 2006 sarà riconosciuto in virtù della propria direzione ed indipendentemente dai tre anni di attività svolta). Appare evidente la volontà politica di una maggiore rigidità in entrata dei soggetti ammessi al contributo, che presuppone perciò ancora maggiore rigidità in uscita.
- (art.5, comma 5) le recite prese in considerazione per la quantificazione dei costi di produzione e di ospitalità, oltre a quelle a percentuale, sono quelle il cui compenso fisso non sia superiore non più al cosiddetto foglio paga ministeriale (calcolato sulle paghe e le diarie degli scritturato impegnati) ma a 4.000 euro per le recite in cui sia previsto l’impiego di sei elementi, maggiorato di 600 euro per ogni attore o tecnico impiegato in più e del 15 per cento per ogni singolo debutto. In ogni caso il compenso fisso non può superare 12.000 euro. La modifica, non essendo ricompresa nelle disposizioni transitorie, è di fatto retroattiva ed opera dal 1° gennaio 2006. Peccato che tutto il teatro italiano abbia sottoscritto contratto di ospitalità e tournée per il primo semestre 2006 fin da giugno/settembre scorso e lo abbia fatto affidandosi alle disposizioni del precedente decreto. Perché una simile modifica, che incide in maniera sostanziale su tutti i soggetti finanziati, la si è resa addirittura retroattiva nei fatti, a differenza di altre che invece sono state dichiarate efficaci dal 1° gennaio 2007? Quale è la logica delle disposizioni transitorie? A chi giova un cambio delle regole sostanziali mentre i giocatori e l’arbitro sono già in campo? Sarebbe interessante capire se i rappresentanti delle categorie Agis hanno avallato tale modifica o l’hanno subita inaspettatamente.
- (art.5, comma 6) i costi di ospitalità ai fini della quantificazione del contributo possono nei limiti e con le modalità di cui al comma 5 riferirsi per il 30 per cento (nella precedente normativa il limite era del 25%) anche alle recite di compagnie non sovvenzionate dallo Stato o dalle regione, alle recite di compagnia di danza sovvenzionate ed alle compagnie teatrali e di danza straniere. Mi piacerebbe sapere con quale criterio sia stato esteso anche alle compagnie non sovvenzionate (che non sono tenute a rispettare i parametri quantitativi della normativa ministeriale), ma soprattutto alle compagnie straniere e di danza il limite dei 4.000 euro e via dicendo per l’ammissibilità dei costi di ospitalità. Chiunque faccia teatro ed abbia ospitato una compagnia straniera sa bene che costa di più (non peraltro che per i costi di viaggio, trasporto e di alloggio). Sarà mica questa una malcelata forma di protezionismo teatrale? Basta dirlo, ne prenderemmo atto e ce ne ricorderemmo tutte le volte che si richiederà al teatro italiano di essere europeo ed internazionale. Rispetto al D.M. 27.02.2003 poi si considerano valutabili per la prima volta anche i costi per la gestione della sala e per la promozione e la formazione del pubblico. Ecco il classico “da una tasca te li tolgo e nell’altra te li restituisco”, ma il tutto sembra più rispondere ad una logica particulare che ad una precisa scelta di indirizzo. Non è che si vogliono indurre i circuiti regionali a gestire direttamente le sale?
- (art.6, comma 1, lettera a) si introduce tra gli elementi della valutazione qualitativa la regolarità gestionale-amministrativa, quasi che questa sia un optional della gestione di imprese che ricevono dallo Stato (e dalle regioni e dalle autonomie locali) dal 50 al 60 per cento (e oltre) delle proprie entrate.
- (art.7, comma 7) riconosce la possibilità di una riduzione dell’attività, rispetto al progetto preventivo presentato, non superiore al 15 per cento invece del 10 per cento previsto dalla precedente normativa: un modo per compensare il taglio del FUS per il 2006 e anni seguenti?

Per i soggetti teatrali stabili, le modifiche introdotte riguardano:
- (art.10, comma 2, lettera h) i minimi di recite prodotte richiesti ai teatri stabili (pubblici, privati e di innovazione) in sedi direttamente gestite: almeno il 20 per cento delle recite prodotte per i teatri operanti in città con non più di 250.000 abitanti; almeno il 25 per cento in città fino a 700.000 abitanti; almeno il 35 per cento in città con più di 700.000 abitanti. Si intende certamente rafforzare la nozione di “stabilità”, riferendola però soltanto alla città in cui ha sede il teatro stabile e non più, come era con la precedente normativa, “almeno il 60 per cento dei minimi recitativi previsti in ambito cittadino e regionale”. Questa scelta urbanocentrica mi pare abbia il fiato corto, considerato il calo costante di pubblico e la vitalità invece dei territori (città e paesi d’intorno). I nuovi minimi in sede si applicano però solo dal 1° gennaio 2007, perché in questo caso il Ministro si rende conto che non si possono cambiare le regole mentre si sta giocando la partita (le programmazioni dei teatri). E allora perché non vale lo stesso criterio per il detto art.5, comma 5?
- (art. 10, comma 2, lettera i) nella vecchia normativa a tutti i teatri stabili (pubblici, privati e di innovazione) era riconosciuta una maggiorazione se gli spettacoli di nuovo allestimento prodotti o coprodotti venivano rappresentati in sede per un minimo di 12 giornate recitative a spettacolo, elevate a 24 per i teatri operanti in città con più di 1milione di abitanti. Questo decreto abolisce la maggiorazione ed inserisce fra le caratteristiche della stabilità quei limiti, ma solo per le attività dei teatri stabili pubblici e privati. Da un vantaggio che un teatro stabile poteva decidere di utilizzare o meno, ad una caratteristica necessaria della stabilità. Condivido l’esclusione degli stabili di innovazione da questa norma, ma avrei, coerentemente con l’indirizzo di rafforzare la nozione di “stabilità”, applicato a questi stabili un numero minimo di recite di propria produzione da rappresentare nel proprio territorio provinciale o regionale.
- (art.11, lettera f) vengono ridotti i requisiti minimi recitativi per gli stabili pubblici ad almeno 120 giornate recitative di spettacoli direttamente prodotti e ad almeno 90 per i teatri stabili di minoranze linguistiche o di confine. Se per gli stabili pubblici si tiene in qualche modo conto della “crisi”, perché non lo si è fatto anche per gli stabili privati e di innovazione, (ma anche per le compagnie di giro e per i circuiti) come se per questi la crisi fosse diversa ed avesse diverse conseguenze sul piano produttivo e distributivo?
- (art.11, lettera g) non sono più richieste agli stabili pubblici per l’opera di autore italiano vivente almeno 30 giornate recitative per gli spettacoli prodotti ed almeno 18 per le ospitalità. Diventa sempre più arduo sostenere la nuova drammaturgia italiana se non si impone almeno agli stabili pubblici di farlo concretamente e con una certa rilevanza. Non è detto che il numero minimo di recite sia il modo più giusto, ma sicuramente non lo è un imprecisato ed incondizionato obbligo di produrre o presentare un’opera contemporanea italiana. Mi sorge un dubbio: basterà programmare una serata con una mise en espace per assolvere l’obbligo di sostenere e promuovere la nuova drammaturgia italiana?

Per le compagnie sono introdotte queste novità:
- (art.14, comma 3) le imprese di teatro di innovazione che dispongono, anche temporaneamente di una sede idonea per lo svolgimento di attività di laboratorio possono computare ai fini del raggiungimento dei minimi delle 90 giornate recitative fino a 25 giornate di attività di laboratorio. Nella precedente normativa le giornate di laboratorio valutabili erano 20.
- (art. 14, comma 5) è l’articolo più innovativo del Decreto e prevede la possibilità per le imprese teatrali di innovazione al termine di tre anni consecutivi di attività destinataria di contributo di effettuare solo per un anno il 10% dei minimi recitativi e lavorativi sostituendo la restante parte con attività di laboratorio, scientifica, seminariale e di studio. In questo caso il contributo relativo all’anno di studio è individuato nella misura massima del 50% del contributo assegnato all’impresa il precedente anno. Condivido questa possibilità data alle nuove compagnie di non dover necessariamente ogni anno produrre spettacoli ed effettuare recite soltanto per raggiungere i minimi ministeriali, specie se non la si limiterà ad una sola volta e se sarà finalizzata al riconoscimento ministeriale di nuovi soggetti. Poiché le attività delle compagnie sono già programmate, anche questa norma entrerà in vigore dal 1° gennaio 2007. Chiedo scusa se mi ripeto, ma perché non vale lo stesso criterio per il detto art.5, comma 5 (limite del compenso fisso a recita)?

Una importante modifica è stata introdotta anche per i circuiti regionali (Organismi di promozione e formazione del pubblico):
-
(art.16, comma 2, lettera g) tra i requisiti per l’ammissione al contributo è stato inserito l’obbligo di certificare dal 2006 l’avvenuto pagamento dei compensi alle compagnie ospitate nell’anno precedente che sottoscriveranno dichiarazione liberatoria. Encomiabile preoccupazione a tutela delle compagnie che troppe volte sono costrette dai circuiti ad attendere mesi se non anni il pagamento delle proprie spettanze. Ma, senza voler giustificare alcuni colpevoli ed irragionevoli comportamenti di certi circuiti (non solo meridionali, vista la delicata situazione del neo Circuito Teatrale Piemontese attualmente commissariato dopo poco più di un anno di attività!), chi tutelerà i circuiti? So per esperienza personale che il contributo ministeriale è destinato per intero al pagamento delle spettanze compagnie, mentre le quote dei soci vanno a coprire i costi di gestione dell’ente. Ora se il Ministero pretende che alla data della domanda 2006 le compagnie del 2005 siano state interamente saldate e rilascino regolare liberatoria, è presumibile che si impegni altrettanto affinché per quella data i circuiti abbiano ricevuto l’intero contributo 2005 (o perlomeno l’80 per cento). Purtroppo la realtà è ben diversa, tanto da far pensare ad una norma a dir poco vessatoria (oltre che impossibile praticamente da rispettare) per i circuiti che si vedrebbero costretti, e costringerebbero anche le compagnie, ad accordi “sommersi” e poco trasparenti, pena l’inammissibilità della domanda!

Per quanto riguarda l’ETI vi è la novità (art.20, comma 6) che l’Ente potrà ricevere dal 2006 contributi a titolo di rimborso per le spese relative ai viaggi ed ai trasporti sostenuti dalle compagnie per la promozione di spettacoli italiani all’estero, subentrando così allo stesso Ministero che finora ha concesso direttamente alle compagnie tale sostegno.

In generale, infine, va evidenziato che è del tutto scomparsa anche quella specie di triennalità annuale che era stata salvata (e difesa dalle categorie del teatro italiano non senza errori e contraddizioni) nel 2003, portando a compimento indolore (o non mi sono accorto io di battaglie e di proteste da parte del teatro italiano?) il processo di smantellamento definitivo di quel che si era riuscito ad innovare concretamente con il Regolamento Forlenza (applicato dal 2000 al 2002). La triennalità aveva i suoi limiti, poteva e doveva essere corretta, ma almeno assicurava ai soggetti finanziati di conoscere in ritardo l’entità del proprio contributo (per i tempi della commissione) una volta ogni tre anni e non ogni anno. Oltre al vantaggio (accordo di Basilea permettendo, oggi) di poter farsi anticipare dalle banche il 50 (per qualcuno l’80 e finanche il 100%) all’inizio del secondo e del terzo anno del triennio.
E’ stata invece confermata una norma che ritengo inaccettabile da parte di tutto il teatro italiano: la possibilità per la commissione prosa di azzerare o raddoppiare i costi ammessi a contributo. In poche parole di fare il cavolo che gli pare indipendentemente dall’attività progettata e dalle quantità preventivate (ma allora, in dipendenza di quali requisiti del tutto discrezionali?). Penso che il teatro italiano non possa consegnarsi mani e piedi legati ad una commissione di nomina politica, senza correre il rischio di essere sempre più “al servizio di qualcuno”.

Bisognerebbe fare subito qualcosa per salvare il settore, i lavoratori del teatro, la libertà degli artisti, degli organizzatori e, soprattutto, del pubblico.


 


 

Semplicemente complicato (Parte II)
Un incontro con Luca Ronconi
di Oliviero Ponte di Pino

 

La prima parte di questo testo è stata pubblicata in ateatro. L'intero testo è in corso di pubblicazione nel volume Luca Ronconi. Spettacoli per Torino, Umberto Allemandi Editore.

Tra le affinità va certo segnalato l’interesse per gli elisabettiani, prima ancora di quello – in fondo più banale e tuttavia problematico – per lo stesso Shakespeare, che pure ha frequentato in diverse occasioni. Mentre lavora su Re Lear a Roma nel 1996, riflette così sulle difficoltà di una messinscena shakespeariana in Italia.

Perché Shakespeare è difficile, difficilissimo. Perché non sapevo come farlo. Perché le commedie non sono scritte per compagnie come quelle che si usano fare in Italia: anche le parti minori, anche quelle minime sono importantissime, spesso non si può decidere chi è il protagonista assoluto. Perché è difficilissimo trovare traduzioni utilizzabili. (…) Ci sono tante ragioni per non fare Shakespeare. Certo che è bellissimo.
(intervista di Ugo Volli, “la Repubblica”, 17 maggio 1992)

Anche per quanto riguarda la drammaturgia elisabettiana, l’interesse non nasce tanto dalla presunta attualità dei testi, quanto dalle possibilità di lavoro drammaturgico innescate nelle singole opere, con le loro particolarità. Più che le costanti tematiche, ad affascinarlo negli elisabettiani sono la libertà e l’inventiva formale.

Una sorta di deriva elisabettiana è ancora rintracciabile, mettiamo, nella drammaturgia di Sarah Kane e anche in certe forme di scrittura teatrale che siamo portati a considerare come forme epigonali delle idee sceniche di Artaud, mentre bisognerebbe vedere quante di esse derivano, appunto, dal modello elisabettiano. Però la cosa essenziale è che di violenza, di trasgressione, di eccessi è pieno lo spettacolo nel senso più vasto del termine, dal cinema alla televisione, il che non può non far decadere l’importanza del dramma elisabettiano come modello o simbolo di tutto questo. E la cosa può essere tutt’altro che negativa, perché ci consente una maggior libertà di sguardo nei confronti, non tanto del dramma elisabettiano, quanto di singoli drammi elisabettiani, consentendoci di vederli non più come esempi tipici di un genere così fortemente caratterizzato, ma, appunto, come singoli testi.
(Intervista di Giovanni Raboni, dal programma di sala di Peccato che fosse puttana)

Nel canone ronconiano hanno un ruolo importante anche i tragici greci e Aristofane, frequentati a più riprese, fino alla trilogia Prometeo incatenato-Baccanti-Le rane allestita a Siracusa nell’estate del 2002.

Credo che il ritorno alle origini del teatro, alla necessità originaria del fare teatro che è rappresentata dalla tragedia greca, sia una necessità permanente che presuppone viaggi periodici di riesame e di riconsiderazione, specialmente nei momenti in cui ci si chiede se e quale possa essere ancora la legittimità della rappresentazione teatrale e in rapporto a cosa e in funzione di cosa possa svilupparsi.
(intervista di Maria Grazia Gregori, dal programma di sala di Prometeo incatenato, 2003)

E’ la ragione profonda del periodico confronto con Le Baccanti, a Vienna nel 1973, a Prato nel 1978 e infine a Siracusa. E nelle tre circostanze, i risultati saranno molto differenti: perché si tratta ogni volta di misurare una distanza diversa.

Da sempre sono convinto che nella messinscena dei classici (…) ciò che interessa è da un lato il viaggio alla ricerca dell’oggettività, certo sempre presunta, del testo e dall’altro l’esplorazione del cammino che il testo ha seguito nei secoli per giungere fino a noi. Si tratta di due momenti diametralmente opposti, ma perfettamente complementari: la messinscena di un classico è in fondo un modo per capire chi siamo, confrontandoci radicalmente con ciò che è altro da noi o, se si preferisce, è un modo per scoprirci, misurando la distanza da ciò che ci ha preceduti.
(intervista di Claudio Longhi, dal programma di sala di La vita è sogno, 2000)

Sul versante della drammaturgia italiana, emerge con gli anni, e soprattutto da quando ha la responsabilità di un teatro stabile, il tentativo di creare un canone, andando a recuperare alle scene autori di notevole qualità letteraria ma troppo poco rappresentati: ecco dunque Mirra di Vittorio Alfieri (1988), L’Aminta di Torquato Tasso (1994), Il candelaio di Giordano Bruno (1968 e 2001).

Mirra è stata una scoperta piuttosto sorprendente. Una volta superato il confronto con il verso e con Alfieri, sono venute alla luce relazioni fra i personaggi estremamente simili a quelle che si potrebbero vedere oggi, fra persone in giacca e cravatta o in jeans e scarpette. Non abbiamo usato jeans e scarpette, perché non ce n’era bisogno. Ma era conturbante lo stesso. Si pensa che Mirra sia innamorata del padre, perché se no non sarebbe Mirra. Ricordo bene che già alle prime letture del testo l’elemento di analisi più convincente era il rapporto fisico fra i due genitori. È un rapporto così violento, così forte da far pensare che loro stessi considerino la bambina un oggetto del loro amore, che essa si senta destinataria di questo e che ritenga naturalmente di dover corrispondere. Se è un doppio incesto è molto più accettabile di un incesto mitologico. Almeno nel testo di Alfieri. La stessa esperienza con Fedra [di Racine, 1984, n.d.r.], il primo spettacolo che ho fatto con Anna Maria Guarnieri, con cui avevo recitato come attore da ragazzo. Ho sempre avuto l’impressione che lei avesse in mente una Fedra completamente diversa. La passione, a mio giudizio, fa parte di una persona. La passione ci attraversa, come un sentimento. Recitare la passione non richiede un tipo di recitazione particolarmente ”estroverso”. È una cosa interna. Ho presentato Fedra per ciò che è, la tragedia della reticenza. Niente di “eruttivo”. Lo spettacolo è il risultato di un processo di lavoro. Faccio una cosa per curiosità, per conoscerla. E non, al contrario, la faccio perché la conosco.

Anche autori più frequentati sui palcoscenici italiani, come Goldoni, possono essere oggetto di una reinvenzione “nera”.

Non è vero che tra me e Goldoni non ci siano affinità: non ho affrontato per lungo tempo questo autore unicamente perché le opportunità organizzative non lo richiedevano. La vera divergenza può semmai esistere a proposito di uno stile registico che tende a proporci un Goldoni ballettistico e da commedia dell’arte (che tra l’altro l’autore non amava) e permeato da una vena nostalgica settecentesca.
(intervista di Loredana Lipperini, “Il Secolo XIX”, 19 settembre 1986)

Nel Goldoni ronconiano sono già presenti i grandi temi del teatro borghese.

Prima c’era il Goldoni arguto, vispo, brioso; poi c’è stato il Goldoni “poetico” fra virgolette. Questo testo è invece un tantino più greve, più acido. I personaggi sono tutti spiacevoli, stupidi, avidi, sensuali, egoisti.
(intervista di Paolo Cervone, “Corriere della Sera”, 22 settembre 1986)

Quella di Giovan Battista Andreini – grande comico dell’arte e dunque considerato da storiografi e critici un autore di scarso valore letterario e limitato interesse drammaturgico – è invece una autentica scoperta, il cui merito è tutto suo: Ronconi (che ha lavorato sulla Centaura all’Accademia nel 1972 e nel 2004 a Genova) firma addirittura le prime messinscene in epoca moderna delle Due commedie in commedia (1984) e di Amor nello specchio (1987 all’Accademia e poi 2002).

I testi di Andreini che ho messo in scena hanno creato tutti grande sorpresa, quasi un effetto di scoperta, che secondo me non avrebbe avuto luogo qualche decennio fa. Proprio perché certe discipline e certi procedimenti critici si sono arricchiti, o almeno modificati, rispetto a un certa tradizione ottocentesca (che da noi magari si è prolungata ancora nel ventesimo secolo…), è bene non forzare questi testi in una interpretazione patologica o quale sia, ma lasciar trasparire quasi in filigrana tutto quello che noi sappiamo, o almeno crediamo di sapere. Insomma lasciare che le nostre chiavi di lettura si sovrappongano al testo, e non sforzare l’opera facendola risultare pesante e impropria. (…) Il primo da scartare è il clichè della commedia dell’arte, che in questo caso risulterebbe teatralmente consolatorio, perché andremmo non sull’effetto sorpresa ma su un sicuro gradimento: “Visto che piace sempre, facciamolo una volta di più”. Nel testo sono presenti elementi di commedia dell’arte, ma bisogna sottolineare gli altri aspetti che abbiamo detto [quelli psicologici o patologici], evitando anche gli altri possibili clichè, come anche il melodramma. Per arrivare non al realismo, che è un procedimento stilistico, ma a ristabilire un criterio di verità del testo.
(intervista di Claudio Longhi, dal programma di sala di Amor nello specchio)

Un altro dei grandi filoni della ricerca ronconiana investe la drammaturgia della Mitteleuropa, quella esplorata da Claudio Magris nel Mito absburgico nella letteratura austriaca moderna (Einaudi, Torino, 1963), a cominciare dai prediletti Hugo von Hoffmannsthal e Arthur Schnitzler.

A un primo livello, il più ovvio, egli [Schnitzler] ci porta (insieme con altri) il richiamo del mondo asburgico, splendore e leggerezza di una decadenza che sta per conoscere il crollo. Ma in un primo tempo lo scrittore era noto soprattutto per l’erotismo crepuscolare di Girotondo e della Signorina Elsa. Quando ci si è accostati alle altre sue opere (Doppio sogno è esemplare), si è visto che dietro allo scintillare dell’erotismo c’era qualcosa di pericoloso, inquietante, e neanche tanto crepuscolare. Che l’erotismo così com’era assunto da Schnitzler non era sollecitante, bensì pericoloso. Che nelle sue commedie c’erano più veleni che dolcezze, e che in esse dominava un sotterraneo senso di catastrofe.
(intervista di Renzo Tian, “Il Messaggero”, 5 marzo 1985)

Non a caso, quando assume la direzione dello stabile torinese, il filone mitteleuropeo riemerge con evidenza.

Penso ai cinque, sei anni in cui ho fatto parte del Teatro Stabile di Torino e ne sono stato direttore [1989-1994, n.d.r.] e agli spettacoli fatti in quel periodo, e non a quello che era il mio “programma”, lavorando a Torino. Con il passare del tempo mi sono accorto che sviluppavo una sorta di riesame di ciò che avevo fatto in teatro, toccando alcuni importanti punti di riferimento teatrali del secolo che stava finendo, il Novecento. Naturalmente, fra i miei spettacoli c’erano anche classici, come Shakespeare. Ma mi riferisco a von Hofmannsthal, Kraus, O’Neill, Simone Weil, autori estremamente diversi l’uno dall’altro che però vanno nella stessa direzione di ipotesi di rapporto con il pubblico e di esame della realtà. Affrontano la crisi del personaggio e della crisi delle ideologie in testi con un forte carattere civile, anche se non programmatico, non dichiarato.

Forse quelli torinesi sono gli spettacoli con una valenza più fortemente politica della sua carriera.

E’ una cosa che non dichiarerò mai, perché amo che la cosa si scopra da sé, senza una chiave di lettura a priori. Il tema della crisi degli anni 1914-18 è certamente presente ne Gli ultimi giorni dell’umanità, la cronaca che ne fa Karl Kraus, ma riecheggia anche nella commedia L'uomo difficile di Hofmannsthal, che avevo allestito pochi mesi prima sempre a Torino.

Anche quando lavora sui classici, ne risultano letture fortemente legate all’attualità. Il suo Misura per misura riflette gli anni di Tangentopoli e dell’Aids, con un fortissimo senso della malattia. Nel Ruy Blas di Victor Hugo riecheggia il tema della corruzione. Così come Gli ultimi giorni dell’umanità dialoga con la situazione in Medio Oriente e in Iraq.

Anche in Venezia salva di Simone Weil riecheggia il tema della crisi. Ma non erano questi i motivi per cui ho fatto quegli spettacoli. Tuttavia mi sembra ci fosse una direzione, anche se non programmatica, anzi. Sembrava fossero i testi a chiamarsi l’uno con l’altro, e non una scelta a priori del regista o del direttore. Stava finendo il secolo, mi sembrava naturale buttare un’occhiata a ciò che era stato fatto e scritto. Forse il risultato è stato promiscuo, un polpettone. Ma, teatralmente parlando, è indubbiamente stato un punto di riferimento.

A Torino, rispetto ad altre situazioni, Ronconi lavora meno alla destrutturazione degli elementi costitutivi del teatro. In genere sono spettacoli formalmente meno “avventurosi”.

È vero. Intendevo il lavoro come uno sguardo retrospettivo. Mi sembrava evidente che tali elementi costitutivi cominciassero a essere piuttosto logori e che il “nuovo” potesse essere la possibilità di leggere, e non di scrivere, in un altro modo le stesse cose. Mi sembrava necessario leggere in un altro modo le stesse cose. Il termine “scrittura scenica” – all’epoca molto in voga – spingeva, a mio giudizio, a lasciare l’Amleto o Aspettando Godot esattamente com’erano, inserendo nello spettacolo alcuni segni esteriori ripresi dalla modernità. Si pensava che un modo “nuovo” di presentare uno spettacolo consistesse nel copiare ciò che di nuovo c’era nelle altre discipline: nelle arti figurative o nella musica. Va bene, ma si tratta di un modo di guardare il teatro piuttosto inflazionato. Tutto sommato, ci accorgiamo che tutti gli Amleti, anche gli Amleti più “diversi”, si assomigliano. Probabilmente bisogna cercare cosa c’è di “diverso” dentro l’Amleto.

Forse è ciò che tutti i registi che hanno rappresentato Amleto nel Novecento hanno cercato di fare.

Credo che per fare qualcosa di “moderno” – aggettivo comunque bruttissimo almeno nell’arte – non si debbano rimodernare le cose. Bisognerebbe fabbricare qualcosa che prima non c’era. Non basta girare il cappotto, inserendo i segni della modernità.

Come è prevedibile, Ronconi ha minor dimestichezza con la drammaturgia contemporanea, per la quale non nasconde una certa diffidenza. Troppo spesso la trova vincolata a moduli ottocenteschi, o a modelli estranei al teatro. Con qualche vittima eccellente.

Considero il teatro di Beckett estremamente legato alla letteratura e gli spettacoli tratti dalle sue opere non mi comunicano altro che una sorta di etichetta attraverso cui devono essere letti.

E’ come se la pratica teatrale avesse subito un’evoluzione che la scrittura per le scene non ha saputo assecondare. Un’eccezione, per quanto riguarda la drammaturgia contemporanea e in particolare quella italiana, è l’attenzione per il teatro di Pier Paolo Pasolini, con cui si è misurato di frequente.

Calderón faceva parte di una trilogia che partiva dalla Vita è sogno. Poi, all’inizio degli anni Novanta, ho messo in scena a Torino tre testi – Affabulazione, di nuovo Calderón e Pilade – proprio perché erano passati quasi vent’anni. Nel ’75 avevo lavorato su tre testi in cui la rivolta era al centro, in vari modi – nel testo di Pasolini si parla del ’68, nella Vita è sogno la rivolta diventa un problema metafisico, e La Torre di Hoffmannsthal è a metà tra questi due aspetti. Nel ’90 gli spiriti rivoluzionari si erano abbastanza assopiti, anche nei giovani: così ho voluto lavorare su quei testi per vedere se e come l’eco di situazioni storiche e di temperature non conosciute direttamente potesse essere recuperata attraverso la mediazione teatrale. Devo dire che la risposta è stata positiva, perché i ragazzi si sono veramente appassionati.

Nella teatrografia ronconiana gli autori italiani contemporanei sono molto rari, e gli esiti a volte non del tutto convincenti. Proprio per questo l’attenzione per Pasolini è ancora più significativa.

Contemporaneo non è solamente chi scrive in un determinato periodo, ma chi appartiene alla cultura di quel determinato periodo, in quel determinato paese. Un drammaturgo italiano degli anni Trenta che copia le commedie del boulevard francese non è un drammaturgo italiano, ma un imitatore di cose che hanno una loro contemporaneità nel loro luogo d’origine. Quindi non tutti quelli che scrivono teatro oggi in Italia sono autori italiani contemporanei. Inoltre Pasolini appartiene contemporaneamente al teatro e alla letteratura, e anche questo è un vantaggio: perché è un letterato che in quanto tale condivide il disprezzo dei letterati per il teatro così com’è. Poi, in quanto uomo di teatro scrive testi estremamente importanti, materiali che però hanno la necessità di una mediazione.

Anche Giovanni Raboni, un paio d’anni fa, notava che in Italia i testi teatrali più interessanti, negli ultimi decenni, li hanno scritti dei letterati, non dei drammaturghi professionisti. Anche perché sono più liberi rispetto alle forme e alle convenzioni del teatro. Citava, per esempio, Giovanni Testori e Mario Luzi.

Rosales di Luzi è un testo che mi interessa. Testori, ho pensato di metterlo in scena un paio di volte, La monaca di Monza l’avrei messa in scena volentieri. Ai miei esordi avrei dovuto fare la regia della prima edizione: eravamo un gruppo di attori, i più giovani eravamo Sergio Fantoni, Valentina Fortunato e io. Poi c’era Lilla Brignone, che però aveva la volontà – comprensibile – e l’impegno di farla con Visconti, anche alla fine se non fu un grande risultato. Molti dei testi successivi di Testori sono invece dei monologhi, e io non amo i monologhi.

Però nel teatro di Pasolini i monologhi hanno un ruolo fondamentale, sono quasi la struttura portante del suo teatro…

Ma lo sono anche nel teatro di Shakespeare! Però il teatro di Pasolini è molto spesso autobiografico… Nella sua opera l’io monologante spesso si sdoppia, si triplica, eccetera. Per esempio, già nella prima commedia che ha scritto, Storia interiore, ma anche in Petrolio. Nel suo Pilade, Pilade e Oreste sono due facce della stessa persona: dicono dei monologhi, ma c’è sempre una dialettica e un conflitto tra i due aspetti della stessa personalità. Questo dà spessore e interesse – oltre che ambiguità – ai testi pasoliniani. Anche nel Calderón, non sai mai in quante figure si proietti l’autore.

Ci sono due mondi in cui può essere declinato il rapporto con la biografia. Da un lato lavorare sul rapporto tra l’autore e i suoi personaggi. Ma è anche possibile ricondurre l’opera al vissuto dell’autore, alle sue esperienze e vicissitudini. E intorno alla biografia di Pasolini è sorta una vera e propria mitologia.

Gli aspetti della vita privata di Pasolini appartengono a lui. Non lo dico per delicatezza o per rispetto, ma è sbagliato elevarli a criterio interpretativo. Un’esperienza anche eccessiva è per chi la vive un’esperienza assolutamente normale, naturale. Usare la biografia come criterio interpretativo mi sembra un atteggiamento molto grossolano, sarebbe come leggere La ricerca del tempo perduto per fare la psicoanalisi di Proust. Ma figuriamoci, a chi può interessare?

Un altro dei motivi d’interesse del teatro di Pasolini riguarda la lingua.

Quell’impasto di passionalità e di retorica che c’è nella sua scrittura teatrale, e che ha dato tanto fastidio ai suoi colleghi letterati, è un ottimo materiale per essere messo in voce, per essere somatizzato.

Pasolini scrive le sue tragedie in un arco di tempo molto ristretto e in una fase molto precisa della storia del teatro italiano. La scrittura di Pasolini e le invenzioni teatrali di Ronconi sono due risposte a quella crisi.

In quel momento, per pochissimi anni, il teatro è stato un veicolo interpretativo estremamente forte. Dopo un periodo di crisi e di apparente isterilimento, è come se si fosse aperta una diga. E come sempre, quando si aprono le dighe, vengono distrutte le catapecchie ma anche delle cose pregevoli: aver buttato via tutto non è stata una cosa proficua. Nel caso di Pasolini, l’interesse per il teatro è venuto anche perché in quegli anni, fra il ’65 e il ’70, ci furono delle vere esplosioni.

Sono gli anni in cui arrivano in Italia il Living Theatre e il Teatr Laboratorium di Grotowski, e con Carmelo Bene nasce l’avanguardia teatrale italiana… A questa situazione, Pasolini dà una serie di riposte: quello che scrive sul teatro in ambito giornalistico, naturalmente le sue tragedie, e poi il Manifesto per un nuovo teatro del 1968 e nello stesso anno la regia di Orgia allo Stabile di Torino. Sono risposte molto articolate.

Più che articolate, contraddittorie. Le tragedie di Pasolini sono importanti, e restano. Il Manifesto, riletto con il senno di poi – ma forse anche prevedendolo con il senno di allora – è velleitario. Quella che lui ritiene essere la vera funzione del teatro, non può essere quella che indica lui…

Nel Manifesto Pasolini contrappone il suo teatro di parola da un lato al teatro borghese della chiacchiera, e dall’altro al “teatro dell’urlo”, cioè del gesto e del corpo, delle varie avanguardie. Insomma, per il recupero di una funzione civile, politica del teatro.

Ma su questo siamo tutti d’accordo. Il problema è che pensava che parola e teatralità siano due termini antitetici. Non lo sono. Sono complementari. Questa è l’impasse di quel Manifesto. Tanto è vero che quando ha voluto dare con la messinscena di Orgia un’esemplificazione di quel tipo di teatro, è stato un vero disastro. Non solo un disastro rispetto al pubblico, anche se comprensibilmente quelle élite operaie che lui sperava assistessero allo spettacolo se ne fregavano. Ma è stato un esperimento snobistico, e recepito come tale, senza nessun tipo di comunicazione, uno spettacolo totalmente inerte. Pensare che la sillabazione di un testo – eliminando quella che è la mediazione dell’attore – possa essere sufficiente, pensare che possa esserci una comunicazione diretta dal palcoscenico alla platea, è assurdo. La comunicazione è sempre trasversale, obliqua. Altrimenti ricadi in un didascalismo piattissimo. Certo, lo si può fare, ma non con i testi di Pasolini, che sono pieni di ambiguità e di reticenze.

Anche se per altri aspetti la sua è una scrittura profondamente esibizionistica…

…e allo stesso tempo reticente. E’ il fascino dei suoi testi. E’ impossibile leggerli piattamente. Perché proprio il carattere nascosto, non voluto, di un testo, quello che sfugge all’autore perché grazie a dio è un grande autore, è quella la matrice che genera la rappresentazione.

Dopo la regia di Orgia, Pasolini si disamora del teatro. Anche se a muovere entrambi era forse una consapevolezza comune: che l’ipotesi nazional-popolare, quella da cui erano nati i teatri stabili, non funzionasse più, o almeno non potesse più funzionare allo stesso modo.

In forme diverse, ci siamo abbastanza ritrovati, ma è anche vero che Pasolini rifiutava tutto quello che c’era.

Aveva e voleva avere una funzione provocatoria e pedagogica nei confronti del sistema culturale – e dunque anche teatrale – di quegli anni.

Il problema è che il teatro non lo conosceva, non ci andava. Se invece di pensare al teatro come a un rito borghese, con l’odio che aveva per la borghesia, l’avesse pensato come a un rito aristocratico, come di fatto era, lo avrebbe odiato di meno.

Un altro filo rosso che attraversa l’intera produzione di Ronconi è l’interesse per testi che non sono nati per il teatro: agli inizi l’Orlando furioso, e negli ultimi anni i romanzi di Carlo Emilio Gadda (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana nel 1996), Fëdor Dostoevskij (I fratelli Karamazov nel 1998) e Henry James (Nella gabbia con Annamaria Guarnieri nel 1991, Quel che sapeva Maisie con Mariangela Melato nel 2002), la trasposizione cinematografica di Nabokov per la sua Lolita, sceneggiatura, con un innovativo uso del video (2001), i saggi di Barrow (Infinities, 2002), in una attenzione costante a quella che gli studiosi hanno nel frattempo battezzato “intertestualità”. C’è, dietro a questa scelta, una consapevolezza: qualunque testo può diventare teatro, ma senza necessariamente il filtro delle tradizionali forme teatrali (il personaggio, la rappresentazione, il dialogo e il monologo, il plot e via dicendo). E’ una consapevolezza che può trovare conferma solo nella pratica, nel lavoro sulla scena, con gli attori, e poi nella verifica con il pubblico. Il successo di questi ambiziosi esperimenti fornisce la verifica empirica dell’idea di teatro che Ronconi è andato elaborando negli anni.

Noi siamo abituati a immaginarci il personaggio teatrale come una raffigurazione fedele della persona umana. Questo ha funzionato nei secoli scorsi finché ha avuto un valore di sorpresa e di scoperta, ma quando diventa una codificazione generalizzante, può asfissiare la drammaturgia, anche perché ci accorgiamo che non è vero, che è solo un luogo comune. Qui c’è invece un insieme drammaturgico che non propone dei personaggi ma solo delle figure. E’ una cosa davvero insolita, che permette però di lavorare con gli attori non alla costruzione di personaggi obbligatoriamente antropomorfi: per me è insolito e anche divertente lavorare all’incontro tra una persona vera come è un attore con una figura artificiale come lo sono quelle delle commedie di Andreini.
(intervista con Gianfranco Capitta, dal programma di sala di Amor nello specchio)

Al centro di questo processo è dunque l’attore. Che, soprattutto nell’interpretare testi non teatrali, deve sperimentare nuove possibilità.

Il lavoro dell’attore è essenzialmente basato sulla consapevolezza di abitare un territorio aperto in una specie di stato di bilocazione. Uso questo termine per descrivere uno stato di attenzione necessaria all’attore nel momento in cui il suo territorio è ancora una sorta di “terra di nessuno”. In questa terra di nessuno l’attore impara a controllare le ragioni e i meccanismi emotivi del suo personaggio, ma le parole che gli escono dalla bocca sono “dislocate” rispetto alle parole che uscirebbero dalla bocca del personaggio in quella situazione. Le prospettive e le condizioni del percorso sono differenti sia da quelle del teatro di estraniazione che da quelle del teatro di immedesimazione. Non è una semplice oscillazione tra una prima e una terza persona. È la necessità di controllare con continuità, durante lo spettacolo, i propri meccanismi percettivi e quelli del pubblico, in virtù di questa bilocazione. L’attore è tenuto ad avere una soglia di attenzione e una vigilanza estremamente alte perché sa che è impossibile proporre allo spettatore un’identificazione con “due persone” contemporaneamente presenti. Questo processo è basato su un principio di discontinuità molto forte e vivificante che porta l’attore a non appoggiarsi a niente: né al personaggio né alla sua interpretazione del personaggio perché il suo dettato è in parte interno e in parte esterno a quella figura, e quella figura è fluttuante. L’attore, in quella condizione, è il montatore di un film il cui girato è sé stesso. Una forma di scomposizione e ricomposizione, che è un metodo di improvvisazione determinata.

Forse così si possono superare le difficoltà specifiche degli attori italiani, prima tra tutte la mancanza di una autentica tradizione, di una vera e propria lingua (è per questo che Ronconi preferisce gli scrittori, che hanno una lingua propria, ai drammaturghi, che tendono a inventarsi un parlato italiano inesistente); fino ad arrivare alle distorsioni e ai malvezzi del teatranti nostrani.

Il controllo della voce nel canto ha del virtuosismo, dell’effetto brillante. Controllare le sfumature, ecco il difficile. L’attore italiano recita sui clichè. Ogni buon attore ha il suo repertorio di clichè, di effetti personali. Più il suo repertorio è vasto, più i suoi mezzi sono ricchi e più facile è di utilizzare. In Inghilterra, in Francia, in Germania, l’attore e lo spettatore si incontrano su un terreno comune: la lingua. Da noi questo non esiste, no, veramente. Niente – né l’italiano classico, né i dialetti, la cui vitalità è peraltro una leggenda – niente getta un ponte fra la scena e la sala. L’attore italiano lavora su una scrittura seconda, che crea uno scarto, traduce-tradisce il senso dell’opera. E lavora all’interno di questo décalage.
(intervista di Colette Godard, “Théâtre en Europe”, n. 1, gennaio 1984)

Malgrado questi difetti, l’attore è da sempre al centro del progetto di rinnovamento del teatro ronconiano.

Io credo nell’attore: ma penso a un teatro nel quale gli sia data la possibilità non tanto di esibirsi, ma di costruire il proprio lavoro. E’ il solo teatro “stabile” che vorrei fare e metto stabile fra virgolette, dando a questo termine l’accezione di una continuità, di una lunga prospettiva, di lavoro con una stessa compagnia. Perché è dalle lunghe prospettive che nasce il prestigio di un teatro, che è qualcosa di diverso che portare in villeggiatura questo o quel grande regista, questo o quel grande spettacolo. Che fare? In un teatro in cui trionfa l’omologazione fare comunque teatro è una sfida. Io amo le sfide. Allo stesso tempo non dico che se avessi in sorte un teatro mio le cose andrebbero sicuramente meglio. Ma penso che se Strehler avesse (come ha) il suo teatro, se Dario Fo avesse il suo, Guazzotti il suo e così via, si potrebbe sviluppare sul serio un confronto che non c’è. Solo allora – faccio un esempio – l’eventuale confronto fra Fo e Proietti diventerebbe qualcosa di civile per il pubblico perché sarebbe un confronto fra due modi di fare teatro e non fra due attori. Il vero teatro è continuità. L’importante è che ci siano possibilità per creare altre continuità: il che ovviamente non significa creare altri teatri stabili. Significa, invece, ribadire la necessità del confronto: solo così il teatro vive, solo così nasce una vera storia teatrale.
(“Il lavoro del pubblico”, in “Rinascita”, 22 febbraio 1986, poi in Il Patalogo 9, Ubulibri, Milano, 1986)

Quello da cui è tratta questa citazione – uno dei rari interventi pubblici di Ronconi – è una sorta di documento programmatico. Un paio d’anni più tardi, nel 1989, a 56 anni, Luca Ronconi assume la direzione del Teatro Stabile di Torino. Fino a quel momento, malgrado il sostegno di una parte della critica, il suo non è stato un percorso facile. La sua carriera ha scatenato polemiche e sollevato diverse resistenze: il suo stile registico e i moduli recitativi dei suoi attori sbeffeggiati come “ronconese”, i suoi sostenitori nel pubblico e nella critica bollati come “la setta dei ronconiani”. La direzione della Biennale e il Laboratorio di Prato erano incarichi di grande prestigio e responsabilità, e tuttavia marginali rispetto al sistema teatrale italiano, che nei teatri stabili hanno la loro spina dorsale. Quando approda alla direzione dello stabile torinese, non è più giovanissimo; ha alle spalle una serie di spettacoli memorabili e una lunga esperienza di lavoro con altri teatri pubblici (come il Teatro di Genova, l’emiliana Ater, l’umbra Audac) ed ha evidentemente riflettuto a lungo sul ruolo del teatro pubblico. Dopo Torino, nel 1994, passa alla direzione del Teatro di Roma. Nel 1998, dopo la morte di Giorgio Strehler, ne prende il posto come direttore artistico del Piccolo Teatro di Milano (affiancando il direttore Sergio Escobar), fino al 2005.

Quando si parla di un Teatro Stabile, bisogna innanzitutto chiedersi qual è il proprio obiettivo: se lo si vuole scassare o qualificare o ampliare o, invece, circoscrivere. Fra i miei obiettivi, c’era quello di dare la massima qualificazione, sempre. Di rispettare la struttura e il luogo che un’istituzione teatrale cittadina richiede. Ho già smesso di fare il direttore artistico, a Roma e a Milano, proprio perché questo non era più possibile. Ho sempre pensato, e continuo a pensarlo, che un teatro non debba mai identificarsi con la linea personale del suo direttore, anche se il direttore è un regista. Avere una certa vocazione che porta a fare in un determinato momento un determinato spettacolo non è quello che bisogna potenziare. Tanto è vero che, per gli spettacoli torinesi, ho preso la struttura per quella che era. Non ho cambiato nulla, non ho “rivoltato il teatro come un guanto” per farne chissà cosa. Anche a Roma è stato così. Il buono stato di salute cittadino si misura da ciò che c’è. Se fossimo a Parigi, sarebbe inutile fare una seconda Comèdie Française. Se fossimo a Wroclaw, sarebbe inutile fare un museo del Teatro Laboratorio di Grotowski, perché c’è già. Inutile fare una cosa, quando già c’è, buona o cattiva che sia: è già accreditata. Ciò che sto per dire è modesto e riduttivo, ma penso che uno dei guai del nostro teatro è che manchi un “medio di alta qualità”. Manca un teatro medio di alta qualità, per esempio. E se pensiamo a direzioni alternative, c’è stato del grande teatro di ricerca e del pessimo teatro di ricerca. Negli anni in cui ero a Torino, e ancora di più oggi, il teatro di interpretazione era piuttosto abbandonato a sé stesso. Il primo obiettivo che volevo raggiungere a Torino era farlo riemergere e portarlo in una direzione. Se questa eclissi del teatro di interpretazione fosse un fenomeno generalizzato a tutti i paesi del mondo, si potrebbe pensare che sia un fatto storico. Ma è circoscritto all’Italia. In quegli anni, quindi, la funzione naturale di un teatro pubblico mi sembrava quella. È ciò che ho cercato di realizzare.

Tutto questo non può ovviamente prescindere dal destinatario dello spettacolo, ovvero dal pubblico teatrale.

Torno all’idea che è mia da sempre, che non esiste un solo teatro, ma che ne esistono tanti quanti – potenzialmente – possono essere i pubblici e che la vitalità del teatro si misura non soltanto sulla qualità degli spettacoli – che è irrinunciabile – ma anche sulla mobilità dei pubblici, sulla possibilità che esistano diversi modi di fare teatro che, di volta in volta, cercano il loro pubblico. Noi invece abbiamo un’idea generale del pubblico, un’idea quantitativa, veramente generica. (…) Un tempo pensavo – erano gli anni del Laboratorio – che fosse necessario ridefinire quanto avveniva sul palcoscenico. Ora invece mi chiedo: per chi? Perché sono consapevole che fare uno spettacolo in una situazione piuttosto che in un’altra equivale a fare una selezione del pubblico. In un Laboratorio contiamo noi – gli attori, i registi – e qualcuno viene a vedere quello che abbiamo fatto. Ma se si esce da questo cerchio sostanzialmente protetto il discorso è completamente diverso e l’interlocutore sono delle istituzioni teatrali che commissionano uno spettacolo che in qualche modo le rappresenti. E’ la maggior difficoltà, questa: perché ancora una volta sei costretto a porti la domanda del per chi lo fai.
(“Il lavoro del pubblico”, in “Rinascita”, 22 febbraio 1986, poi in Il Patalogo 9, Ubulibri, Milano, 1986)

La terza parte di questo testo in ateatro96.


 


 

Al lavoro su Cinema Cielo
Una conversazione con Danio Manfredini
di Oliviero Ponte di Pino

 

E' di nuovo in tournée Cinema Cielo di Danio Manfredini, e torna nelle librerie Piuma di piombo, la monografia che Lucia Manghi ha dedicato all'autore-attore, edita dal Principe Costante, in una nuova edizione ampliata e aggiornata.
Qui di seguito, la trascrizione di una conversazione con Danio Manfredini, registrata durante le prove dello spettacolo.




Vorrei che ricostruissi il percorso, la strada che ti ha portato allo spettacolo.

Il percorso è questo. Io ho scritto degli appunti per una sceneggiatura, che era invece un po’ il mio pensiero legato al cinema, perché io faccio le cose ma le leggo alla fine, avevo scritto una sceneggiatura ispirata a Nostra signora dei fiori di Jean Genet, molto per quadri. È stato un lavoro che mi ha inseguito per dieci anni, poi se adesso penso che tutto si è ridotto a poche pagine… poi a un certo punto è successo che parallelamente si era mischiata a questa sceneggiatura una sovrapposizione contemporanea che erano invece dei mondi che avevo indagato io, era il mondo legato al cinema a luci rosse, ai marchettari che ci stanno dentro. La sceneggiatura era rimasta così su un doppio piano, da un lato c’era il mondo del cinema, dall’altro c’era il film.
A un certo punto ho fatto quella specie di dramma radiofonico per rai 3 che si chiamava Cinema Cielo che era invece solamente legato al cinema, era un’entrata in tempo reale dentro a un cinema porno, erano dei dialoghi che succedevano lì dentro con gli avventori, c’era anche un’uscita al bar, erano come venti minuti di entrata in questa realtà. Quelli sono stati degli appunti che ho portato dentro al lavoro quando ho deciso che avrei lavorato su un pezzo teatrale, entrava sia quella zona legata al cinema sia Nostra signora dei fiori, questi erano un po’ gli elementi di base, come avrei potuto mettere insieme questa cosa non l’avevo chiaro per niente all’inizio. Poi ho deciso che la sala del cinema sarebbe stata la protagonista del luogo e il che film sarebbe andato in audio come film che stanno guardando gli spettatori, gli spettatori teatrali vedono quindi gli attori/spettatori che guardano questo film di cui però sentono solo l’audio.

Il cinema a luci rosse è soltanto un luogo o è denso di altri rimandi, perché non un bar, o un altro luogo pubblico?

Perché è un cinema a luci rosse e succedono certe cose che non succedono in altri luoghi, ci sono i marchettari, i trans che battono, gli omosessuali che cercano, uomini sposati, gente che va a vedersi il film e che se ne ritorna a casa, ci sono tutta una serie di movimenti in cerca di sesso, è un luogo dove arrivano dei personaggi che sono dichiaratamente alla ricerca di sesso e di amore, altri che nascostamente sono alla ricerca di qualcosa, altri che vanno a vedersi il film e poi vanno a casa, e poi una serie di personaggi di contorno, dalla cassiera al protezionista.
Ė un ritratto di una specie di umanità, della loro azione, della loro condizione e anche di dinamiche che accadono, che hanno dei rimandi con la realtà anche esterna, di un comportamento più riconoscibile legato al fatto di nascondere qualcosa, al fatto di fare dei traffici, le dinamiche che accadono non sono molto diverse dalle dinamiche di una realtà esterna però lì sono messe più in luce.
Il film ha una relazione con quello che accade in sala nel senso che si sovrappone come sfondo sonoro, il film è un film porno, cioè praticamente Nostra signora dei fiori è diventato un film porno... C’è un primo tempo del film che è molto legato all’amore, al personaggio di Divine protagonista del romanzo di Genet, che è la storia di Divine e degli amanti che incontra, e poi nel secondo tempo del film c’è questo epilogo dove tutti i personaggi incontrano un po’ il loro destino: Nostra signora dei fiori viene arrestato e condannato a morte perché era un assassino e Divine muore.
La prima parte è sull’amore e la seconda parte è sulla morte. La sala teatrale ha come sfondo questi tronconi fondamentali, la prima parte nella sala vede tutta una serie di figure che presentano un po’ il mondo nella loro superficie, quindi il tutto è visto un po’ da fuori, queste figure che si muovono in relazioni, nella seconda parte c’è più un tentativo da parte nostra di entrare nell’interiorità non tanto dei personaggi ma della sala. Non è che c’è un lavoro attoriale però è come se i personaggi stessi che hai visto girare nella prima parte nella seconda li vedi sotto una luce comunque più drammatica, in connessione anche con il film, sono sempre autonomi nelle loro azioni della sala però vengono letti un po’ diversamente dai testi e dalle musiche che scorrono sotto.
È un lavoro abbastanza difficile, questa connessione tra l’ascoltare una cosa che puoi anche immaginare e vederne però un’altra.

Si lavora su più canali di percezione.

Sì, perché da un lato ho semplificato abbastanza la struttura del film in quadri, in modo tale che uno se si domanda che cosa sta succedendo nel film lo capisce sempre, è abbastanza facile riconoscere cosa sta succedendo nel film in modo tale che hai un ascolto però non è che ti distrai per capire la storia. Ero partito da una storia molto più dettagliata ma alla fine creavo delle difficoltà di ascolto, mentre il protagonista in questo caso è la sala, dovessi fare un film dovrei invece centrare più sul film.
Quando ho fatto la radio l’attenzione si era focalizzata più sulla sala, il film non c’era, sentivi un po’ di echi di film porno normale, era uno spaccato di un mondo che veniva un po’ indagato, invece qua viene indagato il mondo della sala, quindi il film è in sfondo, però è importante perché sovrappone anche una rumoristica di paesaggio urbano, di campagna, di bar e di locali. Io da dentro ho un po’ la sensazione che i rumori ti fanno leggere quelle figure che vedi nella sala anche sullo sfondo del loro quotidiano, quindi da un lato li vedi lì, ma te li immagini anche un po’ fuori, nel traffico.

Quindi diventa un moltiplicatore della sala.

Sì, non so bene sul piano percettivo cosa succede.

Gli attori non lavorano allora sull’improvvisazione, c’è una partitura precisa.

C’è una partitura rigidissima. Abbiamo lavorato sull’improvvisazione per capire come agiscono i personaggi, il rapporto fisico con cui agiscono, anche perché non è molto naturalistico lo stile, i personaggi si muovono comunque in maniera un po’ artefatta, non sono particolarmente alterati ma hanno un ritmo che non è quotidiano.

Questo sempre nei tuoi lavori, il corpo non ha una espressività quotidiana.

È legato un po’ agli stati d’animo, anche qua il personaggio che entra è sempre portatore di una condizione umana e di uno stato d’animo, è elaborato un po’ come sintesi. Facciamo più figure, più personaggi che entrano, che compongono diversi quadri, è un lavoro d’insieme con un gioco necessario d’incastri. Siamo in quattro ma facciamo più personaggi.

Tu in realtà sei più abituato a lavorare da solo.

Sì, però non faccio fatica a rapportarmi, non è un problema di relazione, ma di tempi e di modi. Fino Al presente avevo bisogno di attraversare una condizione della solitudine della scena che andava un po’ forse a sintetizzare una serie di esperienze che avevano come segnatura proprio la solitudine, poi invece mi è venuta voglia di lavorare con questa serie di persone.

Lo spettatore quindi vi spia.

Lo spettatore spia le presenze, le figure si relazionano tra di loro, guardano davanti ma guardano il film.

Vorrei che parlassi del tuo rapporto con Genet.

Questa storia mi ha inseguito per anni, non so bene perché, e poi se penso adesso a come viene fuori è assurdo, ho scritto tantissimo e alla fine sono dei quadri molto semplici con dei dialoghi molto semplici e con qualche sfilacciatura poetica. Ho tolto moltissimo la parte letteraria, rimane sempre un po’ uno stile che ha a che fare con la letteratura, i testi poetici rimangono, ma sono asciugati moltissimo, rimangono dei dialoghi quotidiani che disegnano le relazioni tra i personaggi, è rimasta una scarnificatura molto semplificata di quello che è il romanzo, che invece è molto complesso.
Del mio rapporto con Genet posso dire che percepisco che è una persona che ha dato uno sguardo su un contesto legato a un mondo di carcerati, barboni, omosessuali, travestiti, comunque di una serie di figure che all’epoca erano molto marginali nella società e li ha guardati in maniera particolare facendoli guardare in maniera particolare, ha creato una fascinazione intorno a questi personaggi, non solo ribrezzo. Non una fascinazione necessariamente compiacente ma un reale riconoscimento di una particolarità di certi esseri che osando certe azioni e certi modi di stare nella vita, pagati con la solitudine e l’isolamento dalla morale comune, sono anche portatori di una condizione umana che è vicina al mito, questa è la sensazione che viene offerta da come agiscono i suoi personaggi nei suoi romanzi. Io qua non sto guardando le persone che agiscono nella sala vicine al mito, forse in qualche momento, ma comunque mi piacerebbe che queste persone venissero guardate su uno sfondo meno di superficie, su uno sfondo più profondo, non necessariamente di coscienza. Forse perché nell’incoscienza sei testimone di un’altra realtà che si può concepire e vivere, e che comunque ha a che fare con una zona più coraggiosa rispetto a una morale che ti tiene dentro a delle regole, a dei sistemi che possono fare anche del male, uscendo da quelle regole però nello stesso tempo sei portatore di un qualcosa che si assume anche il male come conseguenza.

Nell’ultima parte Divine muore, è una morte catartica, salvifica?

Faccio fatica a parlare di quest’ultima parte, abbiamo montato solo un’ora e venti di spettacolo e dobbiamo ancora affrontare la morte di Divine, che è già scritta, si sa anche cosa succede in scena mentre c’è l’audio della morte, però non è ancora lavorata. La sensazione è che comunque questa parte finale di Divine è una sorta di parabola di una figura che è partita da una piccola casa di campagna e si è buttata nella vita, si è trovata in mezzo a ladri assassini prostitute e ha fatto anche lei quella vita, poi quella vita passa e sopravviene la malattia e il vuoto che rimane intorno a lei. A volte ci sono delle vite che passano. Mi viene in mente un mio amico che era omosessuale, viveva una vita alla diavola e poi a cinquant’anni si e ammalato di Aids ed è morto in pochi mesi, ma senza ridondanza, nel suo caso c’era come una difficoltà ad immaginarsi una vita dopo, difficile immaginare di invecchiare.
Non ho la sensazione di una Divine che è disperata per la morte, Divine è disperata perché è un personaggio in cerca d’amore, che qualcosa ha raccattato ma poca roba.

Hai fatto i disegni del lavoro, qual è il tuo rapporto tra il disegno e la scena?

Per me è sempre un rapporto di relazione tra l’opera e l’andare avanti nell’opera, perché quando vedo le scene sono in grado di disegnare, vuol dire che la scena si è sintetizzata in qualche maniera con dei chiari personaggi che agiscono, quando non riesco a disegnare la scena vuol dire che la scena non c’è, allora cerco di disegnare per vedere se nel disegno capisco di più, se una persona deve essere ad esempio sola o con altri personaggi. Nel disegno capisco che deve agire da sola nella sala, la disegno sola e poi non so che cosa agisce, lo scopro solo facendo, però almeno ho capito che deve agire da sola.

Questo è valso per tutti gli spettacoli?

Abbastanza, c’è sempre un momento in cui cerco di disegnare le scene, perché è un processo di chiarezza per me, se mi chiarisco riesco anche a disegnare, è una prova del nove, a volte mi serve vedere tutti i quadri, in questo caso ci sono due quaderni: tutto quello che accade nella sala e tutto quello che accade nel film. I disegni del film sono in bianco e nero, quelli della sala sono a colori. Ho pensato che magari potrei proiettare delle diapositive dei disegni, dei tagli di luce che magari rappresentino i riflessi che la gente riceve dal film, forme indefinite, presenze fantasmatiche che sono invece dei disegni che rimandano dei tratti.
In questo momento sono ancora preoccupato dell’ossatura del lavoro, poi la forma va curata, ma in questo momento non ho ancora scoperto del tutto l’ossatura, ho dei puntelli però formalmente come si combinano bisogna ancora trovarlo.
È un lavoro che richiede una grande precisione e una grande attenzione agli altri in scena, ma non facciamo niente di particolarmente difficile attorialmente, devi essere dentro a un personaggio e a una forma, è più la concezione dell’ossatura che è molto difficile, a volte sbagli il peso degli ingredienti e non vedi più la cosa. È tutto un lavoro di ritorno tra il film e la sala, cercando di capire la dimensione giusta tra quanto ho bisogno di assorbire da un audio e quanto ho bisogno invece di vedere un’azione.

Il lavoro registico qui è molto denso.

Non possiamo permetterci niente fuori posto, il lavoro chiede rigore, abbiamo toccato la densità delle figure che entrano però non ci siamo ancora soffermati perché solo quando avremo il disegno possiamo cominciare ad abitare e vedere le figure che cosa ti portano, mentre ci sei dentro devi capire in che disegno sei.
Anche per Al presente c’è stato un lavoro di regia più precisato rispetto ai lavori precedenti, era un lavoro di regia sull’attore concepito per quadri di passaggio che chiedeva una grande precisione sulle transizioni. Quando lo feci, all’inizio, era visto come una carrellata di matti, poi nel tempo ho capito che i matti erano per me un veicolo per attraversare delle umanità che diventavano sempre più dense e spesse man mano che le attraversavo, perché si caricavano di immaginazione mia o di esperienza mia. All’inizio il disegno crea delle figurine poi ho la speranza che diventino figure.
Man mano che si abita una forma si comincia a stratificare l’esperienza e quello è il senso delle repliche, non è che giudichi i personaggi che attraversi ma puoi cercare dentro a quel disegno che sei di fare comunque esperienza.

Che tipo di personaggi sono questi di Cinema Cielo, è un’umanità dolente?

Più che dolente è un’umanità complessa. Al presente era una realtà di personaggi dolenti perché veniva dal mondo della psichiatria, erano figure coatte dentro a una cronicità e un’ossessione, un incunearsi dentro a una serie di sentimenti che feriscono. Qua i personaggi non hanno quel tipo di spessore perché sono più figure di passaggio e a volte un po’ più schizofreniche, nel senso della negazione di quello che stanno facendo, “sono qua ma non sono qua”, e quindi è più giocato su una umanità più normale.

Anche nel dramma radiofonico non c’era dolore, il lavoro è quindi più su un mondo che su una realtà umana?

E’ su un mondo, leggi che i personaggi hanno un dramma addosso, però non si comportano in modo drammatico, non si accorgono neanche di essere nel dramma, c’è un tipo di esperienza diversa.
Il senso delle repliche è proprio quello di attraversare lo spettacolo domandandoti come cambi tu e come cambia l’opera, come l’opera matura nel tempo, hai una partitura di compiti eppure ogni giornata è un’esperienza diversa. Bisogna dare il tempo all’opera di svelarsi totalmente e di essere giocata e che anche noi capiamo qual è la ragione che ci ha spinto a lavorare in quest’opera, perché lo capisci solo alla fine, gli spettacoli sono sempre dei compimenti.
Quando ho fatto Al presente volevo chiudere dentro a un’opera l’esperienza fatta dentro la comunità psichiatrica, avevo visto imparato osservato, volevo staccare dalla comunità ma era un’esperienza difficile da dimenticare e non volevo dimenticare, volevo ritrovare tutto quello che ho visto e attraversato come esperienza di vita in un’opera. Ormai facevo fatica ad avere quel tipo di rapporti, nella cronicità sei testimone di un degrado lento e graduale e perenne, sei testimone di lenti declini che si sommano all’età e alla vecchiaia, avevo seguito abbastanza questo dolore e avevo bisogno di staccare, tuttavia non dimenticare. Questo lavoro invece raccoglie tutta una serie di fatti, di incontri e situazioni che mi hanno colpito e mi hanno insegnato qualcosa o che ho imparato a conoscere, c’è la vita di extracomunitari e marchettari con i quali ho stabilito dei rapporti e che sono stati un po’ un’entrata dentro a un modo di vivere la vita. Tuttavia capisco anche che se rimani infognato lì dentro sei rimasto in quell’esperienza, non ti sei aperto ad altro, forse in questo momento ho bisogno di sintetizzare quella fetta di vita per aprirmi ad altro.
Il rapporto tra l’arte e la vita per me è sempre molto diretto, c’è un bisogno di elaborare quello che nella vita hai incamerato anche con dolore, anche pagando dei prezzi, però anche con interesse, con una certa sorpresa delle cose che ti sono venute incontro, l’arte è una forma per comunicare quell’esperienza con l’esterno e permette che quell’esperienza non rimanga una sorta di tracciato autobiografico. Scegli di mettere lì delle questioni che in qualche maniera tutti, nel bene o nel male, hanno passato, o come pensiero o come desiderio o come tematica o come irresolutezza o come dramma o anche come dinamica quotidiana, alla fine scegli di mettere lì una cosa che da un lato è specifica del luogo ma dall’altro è una dinamica messa sotto lente di ingrandimento.
È un modo per sintetizzarla e per condividerla, ma anche per divertirsi.
Nel lavoro c’è anche una vena abbastanza comica, almeno a noi viene da ridere.

Perché il comico?

Ma perché nel comico c’è qualcosa che permette un lieve assorbimento, ci sono delle verità, con il comico impari a giudicare meno, se ti ha fatto ridere giudichi meno, con la risata ti apri a un altro pensiero. Poi è anche molto delicato il processo, perché io non voglio essere provocatorio né scandaloso, non faccio questo lavoro che ha a che fare con un contesto pornografico perché voglio creare scandalo, nella scena noi agiamo pochissimo da quel punto di vista, te lo immagini cosa accade dietro la tenda ma non viene messo l’accento su quello, viene messo l’accento su come le figure si intrecciano, su come si lanciano i messaggi, su come si incontrano, su come entrano in contatto o in conflitto.


 


 

Le recensioni di ateatro: Una visita siciliana di Beniamino Joppolo
In scena a Cascina
di Sara Ficocelli

 

La città del teatro di Cascina (Pi), in collaborazione con la Fondazione Teatro Regina Margherita di Racalmuto (Ag), di cui è presidente onorario Andrea Camilleri, presentano Una visita, atto unico di Beniamino Joppolo, ideato e messo in scena da Antonio Alveario e Alessandro Garzella. Con Serena Barone, Celeste Brancato, Antonietta Carbonetti, Maurizio Scotto e Sergio Seminara.



Lo spettacolo rientra nel progetto di rappresentazione dell’intera triade di opere di Joppolo: I carabinieri, Le acque e La visita. Oltre che drammaturgo, il regista è stato pittore, fondatore insieme a Lucio Fontana del movimento artistico dello Spazialismo ed inventore della corrente filosofica dell’Abumanesimo. E’ siciliano, nativo di Patti, poco conosciuto al grande pubblico. La sua scrittura scenica è irregolare, a tratti aspra e violenta e a tratti visionaria. Come accade in questo spettacolo di appena quarantacinque minuti, che lascia lo spettatore solo con i suoi punti interrogativi. Il testo evoca un mondo distante, la Sicilia più criptica e spirituale, legata ai suoi morti e timorosa di essere contaminata dal presente. Alessandro Garzella spiega che hanno deciso di iniziare la trilogia proprio con Una visita perché “è il più vuoto dei suoi testi, nel senso che bisogna riempirlo”. In effetti, i dialoghi surreali non sempre riescono a penetrare e far capire. Restano numerosi spunti interessanti, vedi la scelta di non dare un nome ai personaggi e giocare sul contrasto tra luce e ombra, vecchio e nuovo. Ma alla fine l’inquietudine viene smorzata dall’ironia e, nel complesso, lo spettacolo si presenta grottesco.
La scena di spalanca agli occhi dello spettatore sui toni cupi dell’attesa: un nucleo familiare, padre, madre e figlia, siede impaziente su tre seggiole, fissando il pavimento con occhi sbarrati. Stanno aspettando una coppia di ospiti e, a quanto pare, si tratta di una visita speciale. La ragazza è molto nervosa e ritocca ossessivamente le ultime imperfezioni della tavola imbandita: stoviglie preziose, tovaglie ricamate a mano, fiori freschi e colorati disposti in un vaso di porcellana. Tutto sembra perfetto, eppure i tre familiari, vestiti di nero da capo a piedi, non hanno l’espressione serena. Quando i due ospiti entrano in casa e varcano la soglia camminando a piccoli passi, lo spettatore capisce che c’è qualcosa che non và. Chi sono questi due strani individui, bassi, goffi e dall’aria capricciosa? Sono i fantasmi dell’album di famiglia e conoscono quella casa a menadito. Hanno già fatto visita ai parenti vivi dieci anni prima, facendosi ricordare per pedanteria ed invadenza. Tra danze sguaiate e insinuazioni maliziose, strattonano i familiari da una parte all’altra della stanza, tra foto sbiadite e stoviglie da cambiare, alla ricerca della memoria perduta. Il girotondo frenetico di una trottola, lanciata per terra dalla ragazza, chiude e simboleggia l’intreccio infinito di vita e morte.



Siamo lontani dal teatro di Pirandello, dove i fantasmi che stanno dentro di noi graffiano l’anima di attori e spettatori (perché, in realtà, più che di spiriti si tratta di anime malate, quelle che a Pirandello e Sciascia tanto piaceva raccontare). Siamo lontani anche dai fantasmi di Eduardo De Filippo, che abitano vecchie case che nessun vuol comprare e danno forma a tutte le ossessioni e le fragilità della Napoli in bianco e nero. Il teatro di Joppolo affronta tematiche simili con risultati diversi, turbando senza troppo emozionare.
Bravi gli attori, in particolare Serena Barone nella parte della Signora. Le scene e i costumi di Rosanna Monti rievocano in modo suggestivo l’atmosfera isolata e accogliente di una piccola casa siciliana. Geniale l’idea di far piovere polvere dentro le colonne laterali, quasi si trattasse di cappe di camino rovesciate, e senza dubbio azzeccata la presentazione degli ospiti, vestiti a festa, ma completamente di nero. I capelli della donna, elettrizzati e fermi in due bizzarre ciocche laterali, regalano all’entrata in scena dei due un sicuro richiamo al miglior Tim Burton. Le luci sono di Giuliano De Martini, il suono di Otto Rankerlott: la sinergia d’arte tra i due dà vita ad un finale curioso, dove i fantasmi sbucano da dietro le quinte con in testa una corona di piccole luci. In sottofondo, La musica antica di Nada, che con voce limpida invita a danzare senza pensare più a niente, se non alle proprie radici.


 


 

La polemica tra Cordelli e il CSS
Con un intervento di Franco D'Ippolito
di Redazione ateatro

 

La recensione di Franco Cordelli a Morte per acqua (spettacolo prodotto dal CSS di Udine) ha aperto una piccola polemica.

Questa la nota di Cordelli sul "Corriere della Sera" del 28 dicembre scorso:

I tagli allo spettacolo e le altre sciagure
di Franco Cordelli

Alcuni giorni fa, recensendo sulle pagine romane del "Corriere della Sera" lo spettacolo Morte per acqua di Paolo Mazzarelli, tratto da La terra desolata di Eliot, chiedevo come fosse possibile che un teatro d'un qualche prestigio come il Css di Udine mandasse in giro per il mondo un simile prodotto, così scadente. In una lunga lettera, il presidente del Css Alberto Bevilacqua opina che «ponendo in relazione la qualità di un'opera d'arte con gli sprechi di denaro pubblico» io abbia quasi giustificato i tagli al Fus, il contributo che il ministero riserva, tra l'altro, al teatro di prosa.
Ebbene, il problema è proprio questo. Se è difficile riconoscere un'opera d'arte, è con ogni evidenza impossibile stabilire a priori che cosa lo sìa. In questo seiiso, Bevilacqua ha ragione. Ma è una parte di ragione, è una ragione facile. Il difficile viene dopo. A Bevilacqua, e ai responsabili dei teatri sovvenzionati, spetta il compito dell'oculatezza, della buona gestione. Morte per acqua non solo non è un'opera d'arte, ma non vi si avvicina neppure un poco. Si può rischiare, è giusto rischiare (Mazzarelli è un giovane regista il quale ha scritto una ancor pìù lunga lettera in cui condanna la mia «violenza» e quello che, secondo lui, è un esercizio di «potere»). E si può sbagliare, questo è possibile. Ma perseverare è diabolico. Chiedevo nell'articolo: non solo lo spettacolo è stato prodotto, è stato anche visto e con ogni evidenza giustificato o addirittura lodato, dal momento che ci si è adoperati per la sua esportazione; e poi: a che titolo un teatro come l'India di Roma ha ospitato uno spettacolo del genere, per quali meriti? Se i tagli al Fus sono una sciagura italiana, sciagura non minore è che del poco che resta si faccia cattivo e lamentevole uso. Al contrario, è proprio nelle difficoltà che le vìttime della politica governativa dovrebbero dare il meglio di sé.

Qui di seguito un intervento di Franco D'Ippolito sulla vicenda. Il forum è ovviamente a disposizione per ulteriori contributi...

LETTERA APERTA a FRANCO CORDELLI

Ho letto la recensione di Franco Cordelli dello spettacolo Morte per acqua di Paolo Mazzarelli e la sua lettera di risposta ad Alberto Bevilacqua. Non voglio assolutamente entrare nel merito della questione artistica, del resto non ho visto lo spettacolo e sarebbe scorretto parlare di qualcosa che non si conosce. Mi preme però, ribadendo l’assoluta legittimità di ogni giudizio critico su un’opera teatrale, provare a rispondere ai quesiti “organizzativi” di Cordelli (come è possibile che il Css di Udine mandi in tournée un prodotto così scadente? non si fanno così sprechi di denaro pubblico e si giustificano i tagli al Fus? a che titolo e per quali meriti il Teatro di Roma ha ospitato uno spettacolo del genere?).
Più e più volte nel corso delle mie lezioni a dei giovani organizzatori teatrali mi sono ritrovato a riflettere con loro su un paradosso del sistema teatrale italiano. Il teatro italiano è evidentemente contrassegnato dalla più ampia incertezza normativa ed economica nel panorama europeo, ma si permette il massimo di dispersione delle risorse artistiche, organizzative ed economiche.
Il paradosso merita una spiegazione. Il sistema teatrale italiano, storicamente, geograficamente e politicamente fondato sul “giro”, funziona attraverso la produzione di uno spettacolo che viene rappresentato in sede (per quelle compagnie che gestiscono un teatro) e venduto in tournée (su un mercato dopato dalla pratica degli scambi e mortificato dai soggetti pubblici della distribuzione). La conseguenza di questo modo di produrre e di distribuire spettacoli è che spettacoli belli non possono essere riproposti in sede più di un tot di repliche a causa degli abbonati (spina dorsale dei teatri di ospitalità italiani) e devono quindi essere tolti dal cartellone e spediti in tournée, mentre magari spettacoli brutti (assolutamente normali in un sistema teatrale normale) restano in cartellone ben oltre il tempo bastevole a decretarne l’insuccesso, solo per esaurire tutti gli abbonati. Allo stesso modo, poiché la maggior parte degli spettacoli vengono distribuiti (e quindi acquistati) prima del debutto, capita che spettacoli brutti debbano completare comunque il giro e continuare a creare pubblico insoddisfatto, mentre spettacoli belli una volta esaurito il “giro di riferimento” (quei teatri che hanno rapporti di scambio con il produttore o relazioni di fiducia con il produttore) devono chiudere, perché non riescono a vendere una replica in più. Le eccezioni (che ci sono e sono importanti) confermano la regola. Parametri ministeriali, rincorsa alla “prima nazionale” e vecchie abitudini artistiche impediscono al nostro teatro di tenere in vita spettacoli belli e, soprattutto, di chiudere spettacoli brutti, non riusciti. Evidentemente è impossibile uscire dall’attuale stato di povertà (in tutti i sensi) del teatro italiano, se non mettiamo mano ai processi produttivi e distributivi: come è possibile pensare di risolvere una crisi adottando gli stessi strumenti che l’hanno determinata?
Cordelli ha ragione quando si lamenta del cattivo e lamentevole uso del poco che è rimasto del finanziamento pubblico al teatro di prosa, ma è davvero convinto che gli artisti e gi organizzatori italiani debbano dare, comunque e sempre, il meglio di sé senza indagare in quali condizioni operano e che, forse, il meglio di sé molti lo danno investendo quel poco che gli resta sulla nuova drammaturgia, sui giovani talenti, sul pubblico che non c’è? Perché il meglio di sé dovrebbe essere quello di fare spettacoli che piacciono a tanti (e fra i tanti a Cordelli) e non lavorare ogni giorno, nella più totale incertezza del futuro di migliaia di lavoratori (prima che artisti), per continuare a sperare che la società abbia ancora bisogno di teatro?
Al di là della polemica (importante perché mette in luce ancora una volta la diatriba fra servizio e valore del teatro), auspico che Cordelli voglia partecipare, con il suo contributo di pensiero, alla riflessione “organizzativa” cui i teatranti sono oggi costretti: come facciamo a continuare a fare teatro?


 


 

La critica e il sistema teatrale
Una mail a Franco D'Ippolito, una lettera aperta a Franco Cordelli
di Paolo Mazzarelli

 

Gentile Franco D'Ippolito
ho letto con interesse la sua nota sulla "polemica" Cordelli-CSS.
Mi permetto di intervenire in quanto parte in causa.
Vi allego, intanto, la mia lettera a cui Cordelli fa cenno nel suo intervento. Non essendo stata pubblicata da nessuna parte può darsi che sia interesse di qualcuno (magari anche solo suo) leggerla, visto che non tratta del valore del mio spettacolo (sul quale chi l'ha visto ha espresso il suo legittimo giudizio, positivo o totalmente negativo...), ma di temi generali in parte vicini a quelli da lei affrontati nella sua risposta.
In particolare io mi soffermo sul ruolo della Critica teatrale in Italia.
E' mia opinione che se la critica, oltre a tutti i poteri di cui già dispone, si autoattribuisce anche quello di esprimere sentenze su chi vada o non vada prodotto, sostenuto, distribuito, ospitato...beh allora siamo messi male.
Non perchè un uomo di teatro come Cordelli non possa avere una sua legittima opinione sul tema, ma semplicemente perchè fa, io credo, un altro lavoro. Se facesse il produttore o il direttore artistico di un teatro come quello di Roma, io credo che qualcuno storcerebbe il naso di fronte a certe sue "recensioni" che assomigliano a delle esecuzioni, ravvisando un conflitto di interessi (lo so, la parola è inflazionata..) non giustificabile.
Se facesse il produttore o il direttore artistico sarebbe anche a conoscenza degli infiniti meccanismi, complessi e a volte squallidi, che stanno dietro la vita di uno spettacolo.
Invece fa il critico teatrale per il maggiore quotidiano italiano. Il suo giudizio è, sia chiaro, autorevole, colto, rispettabile anche nei suoi toni più negativi. Tuttavia io credo che i critici debbano esprimere le loro opinioni (che noi artisti dobbiamo accettare) ricordando che restano appunto opinioni (spesso in totale contrasto tra loro), e senza entrare nel merito delle scelte produttive e gestionali dei teatri e delle stagioni.
a:Perchè non le conoscono
b: Perchè se le conoscono e vogliono occuparsene dovrebbero lasciare il loro lavoro di critici

Quanto al tema principale del suo intervento, sulla necessità di modificare dall'interno i meccanismi produttivi se si vuole ridare aria al teatro...beh, è difficile non essere d'accordo, più difficile è (per me) capire come e in che direzione.
Mi limito a credere che se ognuno facesse il suo lavoro, e se tutti rispettassero il lavoro degli altri, sarebbe già qualcosa. I responsabili del CSS, se vorranno, diranno la loro sul tema, che per me è troppo alieno perchè ne possa avere una opinione degna di essere ascoltata.
con cordialità vi saluto
Paolo Mazzarelli

Milano 20-12-05

Gentile Signor Cordelli,
Lei ha scritto sul “Corriere della sera” del 16 dicembre 2005 qualcosa che mi riguarda.
Dico “qualcosa” perché davvero non so come definirla; avrebbe dovuto essere una recensione (ritengo che Lei sia pagato per scrivere di spettacoli teatrali, attività nella quale è, come qualcuno sa, tra i più stimati e riconosciuti in Italia). Invece, per ragioni che ignoro, Lei non ha scritto una recensione ma ha frettolosamente eseguito un linciaggio, umano, professionale e morale, portato a termine con l’arma del Potere che il suo ruolo di critico del “Corriere” le consegna.
Premetto che non entrerò nel merito del mio spettacolo.
L’unica cosa accettabile nel Suo linciaggio è infatti un giudizio assolutamente, violentemente, totalmente negativo del mio lavoro.
Questo, da un critico, va accettato. Questo giudizio, io, avrei anzi gradito vederlo esposto, e magari argomentato, e lo avrei letto con la curiosità e l’umiltà dovute di fronte ad una delle principali “firme” del teatro italiano.
Ma purtroppo questo giudizio non c’era. Era presupposto, dato per scontato e neppure in fondo dichiarato. Solo alla fine del sopradetto indefinibile articolo, Lei mi ha degnato di due paroline (pornografia intellettuale) per esprimere tutto quello che resta del Suo giudizio sullo spettacolo.
Lei se l’è presa invece, nell’ordine, col Ministero delle Spettacolo, reo di non aver ancora tolto finanziamenti a gente come me, col Teatro di Roma, reo di aver ospitato gente come me, e col CSS di Udine, reo di aver prodotto, e addirittura, “mandato liberamente per il mondo”, gente come me.
Lei ha sostenuto, fra l’altro, che i tagli al FUS sono certo un problema , ma se è per pagare spettacoli come il mio, in fondo, meno male che si taglia, e che si pone un grave problema, di carattere politico (cito) per il fatto che spettacoli come il mio abbiano avuto accesso al Teatro di Roma, mentre tanta gente brava e capace è a spasso.
Lei mi ha così fatto passare, dalle righe del più importante quotidiano italiano, come uno che, in un momento oggettivamente drammatico, ruba il lavoro, invade i teatri e si arricchisce a spese di quelli bravi, che intanto languono.
Ha cioè esposto l’esistenza di un problema (il lavoro di pochi fortunati che hanno i soldi, gli spazi, il potere, rapportato ai molti, a volte più capaci, che non hanno né lavoro, né soldi, né spazi, né potere) che sottoscriverebbero, con rabbia, convinzione, dolore, durezza, tutte le persone intelligenti del teatro italiano.
Infatti, è un problema che sento, e che vivo con difficoltà, anch’io (non sono tra le persone intelligenti?... pazienza, sono certamente tra quelle che non hanno né potere, né soldi, né teatri).
Ora, lei mette me, il mio lavoro, il CSS di Udine tra i bersagli meritori di questa rabbia, dichiarando che Paolo Mazzarelli è uno di quelli che ruba i soldi, gli spazi e il lavoro a chi lo meriterebbe di più, e va quindi semplicemente tolto di mezzo. Considerazione, la sua, molto facile e demagogica, ma anche molto violenta e pericolosa, oggi.
Le faccio sapere un po’ di cose che Lei non sa, Sig. Cordelli.
Da alcuni anni riesco a mantenermi facendo l’attore, e come attore ho avuto la fortuna di incontrare grandi registi e di togliermi qualche soddisfazione. In passato ho svolto svariati mestieri, spesso anche umilianti, ma, di sicuro, non mi sono mai arricchito facendo il regista. I miei attori hanno fatto enormi sacrifici per mangiare (letteralmente) nei mesi di lavoro, e la produzione di tutto il mio spettacolo, alla quale hanno lavorato per due mesi molte persone a paghe assolutamente modeste, è costata quanto mezza scenografia di un musical qualunque, quanto i costumi di una grossa produzione di uno Stabile Potente, quanto la paga di un paio di “attori” del grande fratello per una ospitata in discoteca. Accusare me e i miei attori di essere tra quelli che costituiscono un problema culturale e politico, rubando il lavoro e i soldi agli altri, è vergognoso, perché noi, Sig. Cordelli, facciamo la fame, lavoriamo come pazzi e con enormi sacrifici, forse anche perché non solo non abbiamo Potere, ma abbiamo deciso di non farci proteggere da nessun Potere.
Lei finge di attaccare un Potere, essendo evidentemente Lei Stesso parte del Potere, e se la prende, con demagogia e violenza degna di un Borghezio qualunque, con chi solo a costo di enormi sacrifici continua a respirare, e ha osato mettere il naso, un giorno, nella stanza del Potere.
Forse, infatti, la cosa che le ha dato tanto fastidio, è che tale scempio (il mio spettacolo) sia approdato al Teatro India di Roma. Nientemeno. Lei si chiede come questo sia stato possibile.
Lei lo sa sicuramente meglio di me, perché io quelle stanze non le frequento, ma mi trova d’accordo se voleva dire (scusi, ma devo ipotizzare in mancanza di tesi argomentate) che dovrebbero essere i direttori artistici (o i loro delegati) e non altri a vedere, e a scegliere, gli spettacoli delle stagioni teatrali.
Sono d’accordo, sottoscrivo.
Lei, che è critico, dovrebbe essere quindi il primo a tacere sul tema. Purtroppo in Italia i direttori artistici fanno spesso i registi, i critici fanno spesso i direttori artistici, e…gli attori, disoccupati, fanno spesso i critici, a casa loro, aizzati nella loro rabbia da articoli come il suo.
Vede, finora la critica era stata molto dolce con me (perfino lei parlò bene di me in due occasioni) e devo forse anche a qualche critica se ho “rubato” ad altri il lavoro (i due spettacoli di cui sono regista girano, sì, a differenza di tanti altri, nei teatri italiani, certo con difficoltà, ma in maniera più che dignitosa); questo non mi impedisce però di pensare che la critica sia uno dei (numerosi) cancri del nostro teatro.
Non per colpa dei critici in sé, sia chiaro, ma per il Potere loro conferito dall’esterno, che si è spinto ben oltre quello, originario, di esprimere una legittima, colta, rispettabile, autorevole opinione.
Oso credere infatti che questo sia il ruolo dei critici, e che sia un ruolo utile, forse fondamentale, importante e degno del massimo rispetto, anche quando le opinioni espresse siano le più negative.
Se Lei avesse svolto questo ruolo, che ritengo sia il Suo, io avrei confrontato la Sua critica del tutto negativa, con altre critiche più o meno positive che il mio spettacolo ha ricevuto, e soprattutto con la reazione del pubblico, e ne sarei uscito arricchito (e magari messo in crisi).
Ma questo ruolo Lei non lo ha svolto. Se Lei mi fa quindi notare che centinaia di persone svolgerebbero il mio lavoro di regista meglio di me e sarebbero, loro sì, degni del Teatro di Roma e in generale di esistere in questo lavoro, le potrei rispondere che non centinaia , ma milioni di persone saprebbero esprimere un giudizio su uno spettacolo in maniera più argomentata, rispettosa, colta e civile di quanto abbia saputo fare Lei sul suo giornale, e tutti sarebbero senz’altro felici di ricevere lo stipendio che Lei riceve, e di essere seduti alla Sua scrivania di critico del Corriere della Sera.
Mi faccia il piacere di prendersela coi Potenti, se vuole scrivere un articolo sul Potere, e lasci in pace chi fa (con risultati certamente, doverosamente discutibili) il proprio lavoro.
Lei lamenta che la cultura in Italia sia chiusa in poche sterili mani. Giusto. Le apra Lei per primo e le renda meno sterili.
La saluto, e aspetto con ansia di leggere la Sua prossima stroncatura, sperando sia la stroncatura di uno spettacolo, o magari un articolo sul teatro, di quelli Suuoi che tante volte ho letto con grande interesse, e non un volgare atto di Potere contro degli uomini e dei lavoratori.
Con stima
Paolo Mazzarelli


 


 

Critici e operatori
Una mail a Paolo Mazzarelli
di Oliviero Ponte di Pino

 

Caro Paolo,
non ci siamo.
Non ho visto il tuo spettacolo, che può essere il più bello o il più brutto della stagione, ma non è questo il punto.
Tu scrivi che i critici non devono

entrare nel merito delle scelte produttive e gestionali dei teatri e delle stagioni.
a: Perché non le conoscono
b: Perché se le conoscono e vogliono occuparsene dovrebbero lasciare il loro lavoro di critici.

Per quanto riguarda il punto a., non è semplicemente vero, almeno non lo è per molti critici che agli aspetti gestionali e organizzativi del teatro si interessano da tempo. Per esempio, da sempre una delle ipotesi di lavoro di www.ateatro.it è proprio quella che l’economia dello spettacolo dal vivo (compreso il sistema dei finanziamenti e i meccanismi della circuitazione degli spettacoli) abbia un ruolo centrale e determini molte delle scelte estetiche dei nostri teatranti: tutto il lavoro sulle Buone Pratiche va in questa direzione. Dunque la critica non solo può, ma deve occuparsi delle scelte produttive e gestionali dei teatri che frequenta.
Per quanto riguarda il punto b., mi pare tradisca una grossa confusione: se io so qualcosa sul sistema teatrale e gestionale, se ho un’opinione su di esso e su certe scelte, come critico ho il dovere (e non solo il diritto) di esprimerle e sottoporle al pubblico dibattito, nei modi opportuni (ma qui non stiamo discutendo del bon ton di Cordelli).
Se non è abbastanza chiaro, basta applicare il tuo metodo alla politica: sarebbero legittimati a discuterne solo politici professionisti e amministratori; tutti gli altri - dai giornalisti ai semplici cittadini, passando per i rpofessori universitari - dovrebbero semplicemente starsene zitti. Oppure entrare in politica. Magari fidandosi degli input - certamente oggettivi - delle televisioni e dell’informazione istituzionale.
La democrazia, mi pare, è un’altra cosa. Può nascere solo dal confronto aperto delle idee.
Di più, in un sistema come quello teatrale retto da oligarchie auto-riferite, la discussione sui meccanismi che lo governano è il primo necessario passo per uscire dalla progressiva sclerosi in cui sta sprofondando.
Mi rendo conto che l’irritazione per un attacco come quello di Cordelli (e per le sue eventuali conseguenze) possa inferocire le sue vittime, e tuttavia mi pare che non giustifichi quella che diventerebbe una forma di censura tecnocratica.
Per rispondere a Cordelli, bisogna muoversi su un piano diverso.

Ovviamente se qualcuno ha qualcosa da obiettare, precisare, aggiungere, il forum è a disposizione.

Cordialmente

Oliviero Ponte di Pino


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Living with(out) Nam June Paik
Ritratto d'artista
di Silvana Vassallo

 



Nam June Paik, conferenza stampa per Good Morning Mr. Orwell, dicembre 1983. Kitchen Gallery, New York (foto di Lorenzo Bianda).

Alla notizia della morte di Nam June Paik, avvenuta poche settimane fa, mi è venuto in mente il suo bellissimo video Living with the Living Theatre (1989), dedicato all’artista di teatro e suo amico Julian Beck, fondatore assieme a Judith Malina del Living Theatre, una delle massime espressioni di teatro politico contemporaneo.
Realizzato a pochi anni dalla scomparsa di Julian Beck Living with the Living Theatre è un video “in memoria di” e allo stesso tempo “sulla memoria” - personale, storica, culturale -, sui suoi complessi meccanismi associativi e le sue stratificazioni, rese utilizzando le più innovative tecniche di montaggio elettronico, di cui Paik è stato indiscusso pioniere. Il video è un documentario non convenzionale, simile ad altri realizzati da Paik e che hanno aperto la strada a un nuovo genere, il cosiddetto “documentario di creazione”, basato su una mescolanza di generi diversi e su una programmatica assunzione del punto di vista soggettivo dell’autore. Giocato sul duplice registro della documentazione storica e del coinvolgimento personale ed emotivo, Living with the Living Theatre combina interviste a familiari e amici di Julian Beck, con materiale d’archivio tratto da spettacoli e performance del Living Theatre, e flussi di immagini e suoni elettronici evocativi di stati d’animo e di un particolare clima culturale - quello degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, un’epoca caratterizzata da grandi fermenti in campo artistico e sociale, a cui sia Julian Beck che Nam June Paik hanno apportato un contribuito fondamentale con le loro opere e la loro costante ricerca sperimentale.
Il tema della “memoria vivente”, dell’artista che continua a vivere attraverso le sue opere, oltre che nella memoria di chi lo ha conosciuto, percorre come un filo rosso Living with the Living Theatre ed è quanto mai appropriato, ora, pensando a Paik stesso che sicuramente passerà alla storia come il “padre” della videoarte, che ha fornito un impulso determinante allo sviluppo delle arti elettroniche.
Nato a Seul nel 1932, Paik aveva studiato storia dell’arte e composizione musicale all’Università di Tokyo, laureandosi con una tesi su Schönberg. Aveva poi proseguito la sua formazione in Germania, dove era entrato in contatto con artisti e musicisti d’avanguardia, come John Cage, Karlheinz Stockausen e Joseph Beyus, diventando uno degli esponenti di spicco di Fluxus, il movimento neodadaista transnazionale, dal carattere multimediale e interdisciplinare, animato da uno spirito provocatorio e dissacrante, promotore di una processualità artistica fluida, volta alla realizzazione di eventi, performance, happening più che di oggetti. E’ in questo contesto che nel 1963 Paik presenta alla Galerie Parnass di Wuppertal Exposition of Music-Electronic Television, un evento Fluxus passato alla storia come la data d’inizio della videoarte: in un percorso espositivo che comprendeva pianoforti “preparati”, oggetti passibili di sonorità come pentole e chiavi, un manichino femminile disarticolato in una vasca da bagno e una testa di toro grondante sangue, erano presenti anche tredici televisori, il cui segnale era stato manomesso in vari modi alterando le immagini delle comuni trasmissioni televisive. Altri artisti del movimento Fluxus, come Wolf Vostell, avevano già utilizzato il televisore in varie installazioni per il suo valore simbolico, come oggetto-feticcio della comunicazione massificata, ma nella mostra di Paik, per la prima volta, oltre all’intento di decostruzione critica, viene adombrata la possibilità di piegare il mezzo televisivo a un uso artistico, investigandone le potenzialità come sorgente di immagini luminose in costante metamorfosi.



Nam June Paik Exposition of Music-Electronic Television, 1963. Galerie Parnass di Wuppertal.

Paik è stato anche il primo artista a confrontarsi con la “diretta” e a produrre un video utilizzando il primo modello di telecamera portatile della Sony, il portapack, entrato in commercio nel 1965: si tratta del video Cafè Gogò, Bleecker Street, realizzato a New York riprendendo dal finestrino di un taxi un momento del traffico della Fifth Avenue il giorno della visita del papa Paolo VI; il video venne riproposto la sera stessa, subito modificato, in un ritrovo artistico del Greenwich Village. Nel 1970, in collaborazione con l’ingegnere giapponese Ahuya Abe, Paik realizza di uno dei primi videosintetizzatori a colori, l’Abe-Paik Synthetizer, che consentiva di generare e/o modificare istantaneamente - agendo sulle componenti elettroniche - qualsiasi forma, colore e suono e di mixarli insieme. Instancabile sperimentatore, Paik ha investigato il territorio delle arti elettroniche nelle sue molteplici forme con uno stile inconfondibile, che deve molto alla sua formazione musicale e a una mescolanza di influssi provenienti dall’incontro tra cultura orientale e occidentale: “Penso di comprendere il tempo meglio degli artisti del video che provengono dalla pittura e dalla scultura. La musica è manipolazione del tempo… Come i pittori comprendono lo spazio astratto, così io comprendo il tempo astratto”, ha dichiarato Paik.
Nelle sue opere musica e immagini si fondono con grande sapienza, idiosincraticamente aperte a una vasta gamma di “tonalità” diverse, oscillante tra una sorta minimalismo zen e una straripante e spettacolare esplosione di effetti speciali giocosamente anarchici. Al filone minimalista-contemplativo appartengono opere come Zen for TV (1963), un televisore posto verticalmente il cui monitor è attraversato al centro da un’unica striscia luminosa, e TV Budda (dell’opera esistono varie versioni), installazione composta dalla statua di un Budda situata di fronte a un monitor, il quale può essere completamente svuotato, o contenere una candela accesa, oppure riflettere l’immagine del Budda stesso. Di impatto completamente diverso sono le monumentali videoinstallazioni che assemblano una miriade di schermi attraversati da forme di luce colorata in incessante movimento, come la torre di oltre mille monitor costruita per le olimpiadi di Seoul (1998) o gli ambienti di Electronic Super Highways allestiti nel Padiglione Tedesco alla Biennale di Venezia del 1993.



Nam June Paik, Tv Buddha, 1989. Karlsruhe, Media Museum Zkm.



Nam June Paik, The more the better, Installation for 1003 monitor, 1988. Giochi olimpici di Seoul.

Non c’e ambito dell’espressività artistica coniugata con le tecnologie e i modelli della comunicazione mediatica (magari per stravolgerli) che non sia stato investigato da Paik: memorabili le performance a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta in collaborazione con la violoncellista d’avanguardia Charlotte Moorman, trasformata in una videoscultura vivente rivestita di monitor (tra cui Opera Sextronique, TV Bra for Living Sculpture e TV Cello); pionieristiche le sue trasmissioni via satellite degli anni Ottanta Good Morning Mr. Orwell, Bye Bye Kipling, Wrap around the World: tentativi, in anticipo sui tempi, di favorire la comunicazione globale e lo scambio tra culture diverse.
Sono opere fondamentali per la reinvenzione del linguaggio televisivo anche i suoi videotape, spesso omaggi a artisti d’avanguardia suoi amici e colleghi (tra cui: Beatles Electronique, 1966-69; Global Groove, 1973; A Tribute to John Cage, 1976; Guadalcanal Requiem, 1977; Allan 'n' Allen's Complaint, 1982; Merce by Merce By Paik, 1978; Living with the Living Theatre, 1989), diventati oramai delle opere di culto nell’ambito della videoarte per aver radicalmente sovvertito la sintassi convenzionale del video, liberando le potenzialità dell’immagine elettronica, caratterizzata dall’essere un flusso di energia luminosa in costante mutamento, duttile, malleabile, disponibile alla metamorfosi. Veri e propri collage elettronici composti da immagini e suoni di natura e provenienza diversa, che si sovrappongono, si frammentano, si contrappongono secondo un andamento ritmico sincopato, ora lento ora velocissimo, i video di Paik hanno aperto la strada a gran parte delle sperimentazioni successive.



Charlotte Moorman performing Paik's Concerto for TV Cello and Videotapes, 1971. Galleria Bonino, New York, November 23, 1971. © The Estate of Peter Moore/VAGA, NYC. Collection of Barbara Wise, New York.



Nam June Paik Global groove, video stills 1973.

Impegno, determinazione, ironia, irriverenza, passione e allo stesso tempo capacità di distacco (retaggio della cultura orientale) hanno contraddistinto il suo atteggiamento nei confronti dell’arte e dell’operare artistico, un atteggiamento che forse si può sintetizzare in una dichiarazione rilasciata in un’intervista nel 1978; alla domanda dell’intervistatore che gli chiedeva se ritenesse che le sue opere avrebbero goduto di una popolarità di massa Paik rispose: “Non me ne importa proprio niente. A me, piacciono. Se alla gente piacciono sono affari loro. Ecco perché tutti i lunedì dormo fino all’una, per far vedere al mondo che sono indipendente. Sono pigro. Dico a tutti di non telefonarmi di lunedì”.

Le citazioni di Paik sono tratte da Video, vidiota e videologia di Gregory Battock e Paul Schimmel, in Rosanna Albertini e Sandra Lischi (a cura di), Metamorfosi della visione, ETS Editrice, Pisa, 1985.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Non solo comics: tra fumetto e teatro
Il Festival di Agoulême 2006
di Anna Maria Monteverdi

 

Angoulême come è noto, ospita da 33 anni la più importante manifestazione europea di fumetti, anzi per dirla con i francesi, di bande dessinée (o semplicemente come acronimo BD).



Che la Francia abbia un'attenzione speciale per questo genere - arte sequenziale, letteratura disegnata - ingiustamente definito “micro-populaire” lo dicono le cifre: la BD rappresenta il 6% del mercato del libro con 32,5 milioni di fumetti venduti nel 2005 e più di duemila novità pubblicate in un anno - dati ricavati dall'annuario del fumetto.
Angoulême è un evento di portata europea che riesce a non ridursi a un carnaio di persone in fila per il biglietto ma diventa produttore di cultura e di divertimento, sia per i visitatori sia per la popolazione che lo ospita. Come riescono i cugini d’oltralpe in questo miracolo? Tanto per cominciare la mostra-mercato non è concepita come una macchina per fare soldi (a spese di standisti e visitatori), confinata in uno spazio ai margini della città, ma è posizionata nel centro abitato, in una serie di padiglioni dislocati nelle vie e nelle piazze (perfino nel cortile del municipio!) Una formula semplice e intelligente, urbanisticamente sostenibile grazie a un ben architettato percorso cittadino di eventi, incontri, forum e mostre internazionali, con eventi di qualità. I visitatori si muovono nella città e la vivono.
In secondo luogo, l’evento è concepito come un’occasione di arricchimento culturale. Non sciamano per fortuna le orde barbariche di Lucca Comics, un vero baraccone dove gadget e giochi di ruolo offuscano quasi completamente i comics, con i tendoni a costante rischio di allagamento e i Cosplay che ingombrano il festival coi loro vestiti da Dragon Boy, Witch e Uomo Ragno e le loro esibizioni talvolta anche canore, completamente idiote. Angoulême è talmente ben organizzato e progettato che potrebbe effettivamente essere preso come modello anche per i festival teatrali nostrani.



Ma cosa c'entrano i fumetti con il teatro?
Martone li aveva messi dentro uno spettacolo epocale (Tango glaciale) emblematico di quella nuova spettacolarità anni Ottanta ben orientata verso il rock, i mass media e i fumetti, appunto.



Un bozzetto per Tango glaciale di Falso Movimento.

L'epoca era quella di riviste come “Frigidaire”, “Valvoline”, “Eternauta”, “Orient Express” e della generazione di Tanino Liberatore con il personaggio di Ranxerox e di Andrea Pazienza con Zanardi e Pompeo.



La scenografia di Tanino Liberatore per Sulla strada dei Magazzini (1982).

Il fumetto elettronico è protagonista della storia artistica dei GMM (i fiorentini Giovanotti Mondano Meccanici), dei loro concerti-spettacolo e dei loro video (fino al recente Gino the Chicken).



Antonio Glessi ha disegnato la prima computer strip della storia del fumetto su “Frigidaire” nel 1984; Giacomo Verde iniziava la sua carriera tecnoteatrale con uno spettacolo ispirato a un fumetto di Metal Hurlant. Enki Bilal negli anni Novanta ha realizzato i disegni per le scene, i costumi e le affiche di Balletti d'Opera (Romeo e Giulietta) e spettacoli di prosa (Hamlet).



L’affiche di Bilal per il balletto Romeo e Giulietta al Teatro di Lione.

Copi, autore teatrale e disegnatore franco-argentino (famoso per i fumetti della Donna Seduta) è tra i più rappresentati in questi anni (di recente da Teatro Arsenale-Egum Teatro; e negli scorsi anni da Tonino Conte/Teatro della Tosse, Teatri di Vita, Elio De Capitani e Cherif).
Recentemente in Italia sono stati messi in scena Pompeo di Pazienza con Stefano Benni, mentre la Compagnia del Tratto ha allestito la storia di Gaijin illustrata da Onofrio Catacchio.



Anche La ballata del Corazza, racconto open source di Wu Ming 2 illustrato sempre da Catacchio, ha avuto una riduzione teatrale a opera della compagnia trentina Finisterrae Teatri, musicata dai componenti di Quadrivium. Del resto Goffredo Fofi nell'introduzione al volume di Paolo Ruffini e Stefania Chinzari Nuova Scena Italiana metteva in luce la parallela piena maturità in Italia sia del teatro dell'ultima generazione che del nuovo fumetto d'autore, citando Mattotti, Igort e la Ghermandi.
Il Teatro dell'Archivolto di Genova ha ideato inoltre, a cura di Giorgio Gallione, un festival dedicato ai Fumetti a Teatro, con reading e incontri su Manara, Pratt e Pazienza, mentre i Teatri Possibili in collaborazione con La scuola del fumetto di Milano sta realizzando un'originale collana a fumetti per ragazzi ispirata a testi teatrali, C'era una volta Shakespeare, anche se a dire la verità analoga impresa la sta conducendo anche la casa editrice inglese Can of Worms, che ha pubblicato La dodicesima notte e Otello nella collana Cartoon Shakespeare, illustrata da Oscar Zarate e John Howard.



La copertina dell’Otello a fumetti.

Anche Eduardo è stato messo a fumetti da Daniele Bigliardo, edito da Elledì 91Campana.



Eduardocomics: Natale in casa Cupiello.

I fumetti sono recentemente tornati prepotentemente in auge in Italia, diventando un vero e proprio fenomeno editoriale, come è possibile dedurre dalle numerose pubblicazioni antologiche, racconti a fumetti (la collana Alta Fedeltà edita da Mondadori; ci si cimenta persino Paolo Crepet...), riedizioni di Ranxerox e recupero vintage di fumetti storici allegati ai giornali nazionali.
Per quanto nell'editoria a fumetti sia la Francia a spopolare (con un numero di case editrici davvero impressionante), l'Italia sta tenendo benissimo il passo con firme come Camuncoli, Catacchio, Igort, Mattotti, Palumbo, Otto Gabos.
Angoulême è una vetrina del nuovo e del meglio: nuovi formati o recupero di vecchi (la graphic novel alla Eisner, fumetti che utilizzano anche provini fotografici e mix di disegni e immagini trattate in modalità digitali), autori di spicco (Wolinski, l'italiano Gipi che ha sbancato quanto a premi con il suo Note per una storia di guerra pubblicato in francese per la prestigiosa Actes Sud, ed Enki Bilal, regista anche di un film molto discusso, Immortel ad vitam tratto dalla sua trilogia di Nikopol).
Il festival ha coinvolto anche la locale Accademia di Belle Arti, promosso giovani talenti con concorsi speciali Choco Credds, creato spazi espositivi e surprise party per i più piccoli, presentato case editrici alternative e offerto spazi di “casting” per presentare i progetti.
Tra le manifestazioni, una mostra di fumetti finlandese collocata al teatro nazionale, con disegnatori giovani e giovanissimi che utilizzano colori acidi e ambientano le storie in imbiancati paesaggi nordici.

Il cuore pulsante del festival è però l'Hotel de Ville, il Municipio, trasformato per l'occasione in caffé degli artisti, luogo di incontro molto accogliente e sempre aperto dove ci si può sedere su divani in velluto e intrattenersi con i giornalisti di tutto il mondo, disegnatori, nuovi autori, scambiare idee, fare amicizia.
Ho una dedica di un disegnatore di Nuova Delhi e ho conosciuto decine di editori francesi e belgi che stanno pubblicando volumi straordinariamente belli come storie, come disegni e come grafica. Cito fra tutte La 5e Couche che ha un catalogo rifatto sulla grafica dei foglietti di montaggio mobili IKEA e una rivista con testi illustrati a fumetti.
L'atmosfera è talmente piacevole che si rinuncia anche a molti dei numerosi dibattiti sul fumetto (ce ne sono per tutti i gusti: l'editoria indipendente; fumetto e Internet, fumetto e video giochi; le scuole di disegno, le Accademie) per passare il tempo al concerto organizzato da Le Soleil, o per incontrare l'amico disegnatore di Bolzano anche lui approdato qua, nonostante la neve.



Angouleme quest'anno ha anche guardato al lato teatrale del fumetto: ha infatti coinvolto come partner il Teatro Nazionale, che per l'occasione ha ospitato non solo mostre di disegnatori ma anche eventi speciali: concerti-spettacolo di disegni e proiezioni di lungometraggi. Nel teatro, collocato esattamente davanti agli stand dell'editoria francese, aveva luogo ogni sera un concerto illustrato in diretta da un team di disegnatori che si passavano il testimone della matita (o del pennarello) per creare una storia che veniva poi composta sullo schermo centrale in forma di tavola. Una storia divertente di un topo che scappa e che fugge da varie mani nemiche per poi approdare a quelle confortanti del disegnatore che lo usa come modello. Evento semplice ma di impatto che ha richiamato (anche perché gratuito) una folla inimmaginabile dentro il Teatro (circa 1200 persone per ciascuna serata).
In programma anche un cortometraggio comico diretto da una delle più interessanti realtà editoriali francesi (tra quelle medio-piccole) Les Requins Marteaux, dal titolo Entre 4 Planches, ironico delirio sul tema del “diritto d'autore”, evento prodotto completamente dal Festival. Si trattava di una folle storia raccontata in modo volutamente sgangherato e in bianco e nero, di un autore che si arricchisce rubando un'idea per una storia a fumetti a un poveraccio conosciuto dentro un bagno pubblico. La rivolta degli “oggetti” amici del povero fumettista contro l'uomo senza scrupoli sarà terribile: la fotocopiatrice lo inseguirà dappertutto! Ci sembra un segnale importante che il Festival abbia dato a una realtà artistica emergente il supporto per realizzare un progetto originale.

Personalmente torno a casa con:



1. il volume appena edito in Europa dalle edizioni ça et là del mio autore preferito (conosciuto al Leoncavallo al festival dell'underground), l'americano Peter Kuper, capofila di un filone che in Italia vede come protagonista il prof. Bad Trip, nonché illustratore per la Shake nel 1992 del Pasto nudo di Burroughs;
2. Blasphème au paradis di Rémi e Utopia porcina di Bathori, edito da Les Requins Marteau;



3. un albo cartonato della collana Aire Libre edito dalla Dupuis che è un documentario di tematica sociale, un réportage tra fotografie e fumetto della missione di Medici Senza Frontiere in Pakistan (contenente anche un DVD);
4. l'ultimo album di Baru sulla storia di un boxeur e il fumetto della Vertige di un nuovo disegnatore indiano;
5. un'antologia di corti di animazione dell'Atelier Zorobabel.

Ho poi raccolto tutto il raccoglibile sulla piccola editoria comics francese e sulle riviste che spesso mescolano cultura fumettistica e tematiche politiche (una ventina); segnalo tra le altre “La Lunette”, che ha dedicato un numero speciale all'Italia degli anni Settanta con un ritratto di Cesare Battisti.


 


 

Pinter & Beckett sul nuovo "Hystrio" 1.2006
Il sommario del nuovo numero
di Redazione Hystrio

 

E’ uscito in questi giorni l’atteso numero di gennaio-marzo 2006 della rivista Hystrio, trimestrale di teatro e spettacolo al suo diciannovesimo anno di pubblicazione.
Al suo interno, due importanti sezioni: il dossier “Samuel Beckett”, un bilancio della sua fortuna in Italia dal ’54 a oggi nel centenario della nascita, a cura di Roberta Arcelloni (interventi di Luca Scarlini, Massimo Marino, Laura Peja, Laura Caretti, Carla Pollastrelli, Francesco Tei e Fabio Francione) e lo speciale “Harold Pinter”, drammaturgia, impegno politico e fortuna in Italia del Premio Nobel per la letteratura 2005, a cura di Roberto Canziani.
In questo numero, inoltre, proseguono i ritratti di drammaturghi italiani contemporanei (Vittorio Franceschi, di Massimo Marino) e di giovani gruppi emergenti (Compagnia Teatrale Dionisi di Milano, di Giulia Calligaro).
Dall’estero: novità da Buenos Aires/Festival Internazionale di Teatro (di Lorenzo Donati), San Pietroburgo (di Roberta Arcelloni), Wroclaw/Festival Dialog (di Mimma Gallina), Parigi/Festival d’Automne (di Filippo Bruschi) e le recensioni degli spettacoli stranieri presentati in Italia.
E ancora: un ritratto di Julian Beck a vent’anni dalla morte (di Gary Brackett e Amma Maria Monteverdi) e del duo praghese Voskovec e Weirich (di Fulvio Capparella), Buone Pratiche/2 a Mira (di Claudia Cannella), Teatranti al cinema (di Fabrizio Caleffi), Teatro e web (di Marco Andreoli), la danza a Ferrara e Torino (di Andrea Nanni e Domenico Rigotti), le lettere di Nemirovic-Dancenko pubblicate in Russia (di Fausto Malcovati), le marionette della Khakassia a Trento (di Remo Melloni), La questione teatrale: l’allegria di Arlecchino per fare la rivoluzione (di Ugo Ronfani), addio a Giuseppe Patroni Griffi e Ileana Ghione (di Domenico Rigotti).
E per finire: oltre 60 recensioni di prosa, lirica e danza, Kitsch Hamlet, di Saverio La Ruina (testo segnalato al Premio Ugo Betti 2005), segnalazioni di libri e un ricco notiziario sull’attualità teatrale.

Ma la vera novità è che a Hystrio ci si può abbonare anche on-line: consultate il nostro sito www.hystrio.it!!!

Hystrio è in vendita nelle librerie specializzate, universitarie e Feltrinelli al costo di euro 9. Abbonamento: euro 30 annuali da versare sul c.c.p. n. 40692204 intestato a Hystrio – Associazione per la diffusione della cultura teatrale, via Volturno 44, 20124 Milano oppure con pagamento online sul sito www.hystrio.it.
Per informazioni tel. 02.40073256, fax 02.45409483, e-mail hystrio@fastwebnet.it, www.hystrio.it


 


 

Online il sito di Danny Rose
Da Woody Allen alle Buone Pratiche e oltre
di Redazione ateatro

 

E' online il sito dei nostri amici Danny Rose, con i quali abbiamo collaborato (e continueremo a collaborare) per le Buone Pratiche.
Intanto, se non sapete chi sono i Danny Rose...

Un gruppo di amici, seduti attorno al tavolo di un ristorante, si scambia ricordi, battute, confidenze. Passano le ore e le bottiglie si svuotano, qualcuno - uno chiunque di loro – inizia a raccontare la storia di un vecchio conoscente, le cui tracce sembrano perdersi nel mito. E’ la storia di Danny Rose.
Danny Rose, impresario di Broadway, nato dal genio di Woody Allen, un personaggio alla ricerca di personaggi, di casi umani, di artisti stravaganti. Persone prima che artisti, a cui dare fiducia. Ecco, Danny Rose dà fiducia, impiega il proprio tempo ad ascoltare, consigliare, aiutare coloro che hanno qualcosa da dire, cerca di tirare fuori ciò che vi è di buono, cerca di dare spazio a ciò che, come scriveva Calvino, in mezzo all’inferno non è inferno.
E’ così che nasce la Danny Rose, da cinque persone, da cinque amici che vogliono dare fiducia, dare delle possibilità a quelle situzioni, a quelle persone, ai quei luoghi che meritano di essere ascoltati.


Inutile sottolineare che il nuovo teatro è da sempre anche nuova organizzazione: vuol dire forme produttive diverse, vuol dire invenzione di altre economie, vuol dire lavoro sul pubblico e sul territorio...
Allora in bocca al lupo!


 


 

Il Teatro Incivile in DVD
Il party del 30 gennaio a Roma
di Teatro Incivile

 

TEATRO AMBRA JOVINELLI, 30 GENNAIO 2006 ore 21.00
PARTY DI TEATRO IN/CIVILE
Ingresso libero

Graffi d’autore per un teatro provocatorio, s/comodo, non assuefatto: sono cinque + uno i nomi che animeranno la scena a sorpresa di questa sera: Ascanio Celestini, Mario Perrotta, Emma Dante, Davide Enia, Giuliana Musso, Armando Punzo. Tutti insieme appassionatamente sul palco capovolgendo le prospettive, calzando imprevedibili ruoli, cogliendovi alla sprovvista.
Un party allegro e stralunato per presentare protagonisti e dvd di “Teatro InCivile”, una collana ideata da Rossella Battisti e Mario Perrotta in edicola con l’Unità a partire dal 1 febbraio a 8,90 euro oltre al prezzo del giornale.

LA COLLANA
-Ascanio Celestini Fabbrica
-Mario Perrotta Italiani cìncali! parte prima: minatori in Belgio
-Emma Dante ‘mPalermu
-Davide Enia maggio ‘43
-Giuliana Musso Nati in casa
-Armando Punzo I Pescecani, ovvero quel che resta di Bertolt Brecht

Sei spettacoli scelti per un ritratto d’Italia non convenzionale, libera traiettoria che ricostruisce un’invisibile ossatura del Paese e ne riscopre identità nascoste o rimosse tra passato e presente. Dagli operai “mitologici” di Ascanio Celestini a Mario Perrotta, postino-testimone delle vicende dei minatori italiani in Belgio, dal profondo sud visionario di Emma Dante e quello della memoria raccontato da Davide Enia alle atmosfere nebbiose dell’est dove si muovono le levatrici di un tempo evocate da Giuliana Musso. Fino agli strepitosi detenuti-attori della Compagnia della Fortezza da vent’anni diretta da Armando Punzo in uno sfrenato Kabarett, scelto come documento-jolly e briciolo di speranza da gettare alle generazioni future.
Sei dvd, realizzati su misura, con registrazioni dal vivo degli spettacoli a Pordenone e a Udine per la regia di Marco Rossitti, con extra e interviste agli autori. E sei copertine riprodotte da ritratti ad olio di Mariagrazia Solano,altro tratto distintivo di una collana che vuole proporsi come progetto collettivo, “segno/sogno” di un teatro “antibabelico”, che sa ritrovarsi al di là di poetiche e personalità autonome e diverse.
“Teatro InCivile” nasce in collaborazione con l’Unità, Assoprosa Pordenone, Università di Udine (laurea specialistica in Linguaggi e Tecnologie dei Nuovi Media, Pordenone), Teatro Club Udine.


 


 

Il bando per il X Festival Opera Prima
Il "teatro dello spettatore" nel giugno 2006
di Teatro del Lemming

 

Il TEATRO DEL LEMMING organizzerà a Rovigo nel giugno 2006 la X° edizione del FESTIVAL OPERA PRIMA.

Di fronte a condizioni politiche ed economiche sempre più allarmanti, davanti alla stagnazione degradadante del teatro italiano e a Festival estivi ridotti ormai a mere e inutili vetrine, OPERA PRIMA, dopo quattro anni di forzato silenzio, sente la necessità di riprendere ad esistere.

Il FESTIVAL OPERA PRIMA lancia così oggi ai gruppi italiani un appello alla costruzione di un progetto comune: proponendosi, nello spirito che ha sempre caratterizzato il nostro Festival, come un luogo di incontro e confronto con gli artisti, come un laboratorio aperto di idee e pratiche teatrali innovative.

Per Opera Prima non intendiamo, infatti, l’opera di esordio o lo spettacolo per la prima volta realizzato da un gruppo necessariamente di giovanissima costituzione.
Ogni evento teatrale è per noi Opera Prima quando pratica:

L’AUTONOMIA DEL LINGUAGGIO SCENICO DAL TESTO TEATRALE
LA RIDEFINIZIONE DELLO SPAZIO SCENICO
LA RIFORMULAZIONE DELLA PRESENZA E DELLO SGUARDO DELLO SPETTATORE
UN LEGAME CHE UNISCE GLI ATTORI AL PROGETTO DEL GRUPPO
UN PROCESSO DI LAVORO CHE CONSENTA UNA REALE RICERCA TEATRALE

Si vuole qui tentare una ricognizione nel sottosuolo del teatro italiano alla ricerca di chi sperimenta una nuova relazione con lo spettatore teatrale.
Intendiamo, infatti, per TEATRO DELLO SPETTATORE il paradigma di un’Opera Prima, e cioè tutto quel teatro che continua ad interrogarsi sullo statuto teatrale rilevando oggi la sua necessità nel riformulare un nuovo patto e una nuova relazione con lo spettatore.
Se essere spettatori è divenuta metafora perfetta della nostra comune condizione di cittadini, sempre più passivi rispetto alle infinite forme della comunicazione di massa e impotenti rispetto a qualunque fatto che accade nel mondo, lo spettatore teatrale può essere, al contrario, esempio concreto di un ritorno ad una diversa e attiva forma di partecipazione, poiché il teatro può proporsi, innanzitutto, nella sua natura di esperienza condivisa: in direzione di uno sguardo e di una presenza non più voyeuristica ma partecipata.

A questi teatri il Festival vuole offrirsi come momento di riflessione e di costruzione di un progetto comune. Per partecipare occorre inviare entro il 31 marzo 2006:

- materiale sul progetto teatrale che si intende presentare;
- curriculum delle attività del gruppo;

Gli spettacoli, direttamente visionati dalla direzione artistica, saranno scelti in base alla congruenza col progetto del Festival.

Il materiale deve essere spedito alla segreteria del Festival, al seguente indirizzo:

Festival Opera Prima
Teatro del Lemming
Torre Pighin – via Pighin 22
45100 Rovigo


 


 

Memoria e metodo nel lavoro di Sandro Lombardi
Ne discutono Siro Ferrone, Sergio Givone e Giuliano Scabia
di Redazione ateatro

 

E.T.I. Teatro della Pergola
Università degli Studi di Firenze
Scuola Dottorale di Storia del Teatro


Martedì 28 febbraio 2006 alle ore 15,30
Presso il Saloncino della Pergola
Siro Ferrone, Sergio Givone, Sandro Lombardi, Giuliano Scabia

MEMORIE E METODO IN GLI ANNI FELICI DI SANDRO LOMBARDI

Ad un anno circa dalla pubblicazione degli Anni felici di Sandro Lombardi (Garzanti), l’autore, in compagnia di uno storico del teatro (Siro Ferrone), di uno studioso di estetica (Sergio Givone) e di un drammaturgo-attore (Giuliano Scabia), ne ripercorrono le pagine, discutendo in particolare i temi relativi alla fase storica del teatro di ricerca negli ultimi 40 anni, il tema della memoria e della mnemotecnica nel lavoro specifico dell’attore, le suggestioni relative alle interferenze fra il teatro e le altre arti della rappresentazione (letteratura, pittura, cinema...).
Si tratterà anche di una riflessione attorno al concetto di un libro sul teatro scritto dall’interno dell’esperienza di un suo protagonista, e non dal punto di vista di uno storico o di un critico.
Se da un lato Gli anni felici si inserisce nella tradizione dei libri di memorie scritti dagli attori, dall’altro se ne distacca nella misura in cui non si limita alla dimensione aneddotica, allargando lo sguardo – in una sorta di “zibaldone” che mescola memoria e teoria, rievocazione di tempi e ambienti e analisi della costruzione del ruolo – su quello che può essere oggi l’elaborazione di una teoria “in fieri” della condizione e della funzione dell’attore all’interno del lavoro teatrale.
Questo incontro non si rivolge unicamente agli studenti della Scuola Dottorale di Storia dello Spettacolo, ma a tutti gli appassionati di teatro.


 


 

Le macchine teatrali della visione: le fiabe di Robert Lepage
The Andersen Project di Robert Lepage-Ex Machina al Barbican Theatre di Londra
di Anna Maria Monteverdi

 

Andersen Project, quinto solo-show diretto e interpretato dall'eclettico artista teatrale e cinematografico canadese Robert Lepage insieme alla sua struttura multimediale Ex Machina, è stato commissionato dalla Fondazione Andersen di Copenhagen per le celebrazioni del bicentenario della nascita dello scrittore danese. Una scena dal gusto antico abitata da video-fondali proiettati su un panorama meccanico pneumatico, con piattaforme mobili e ingranaggi mossi a mano nel sottopalco e a piano palco, conferma l'attenzione di Lepage per un teatro che forzi la tradizione per farla assomigliare alla modernità.



La Trama
Frederic Lapointe, un canadese che scrive testi per canzoni rock è stato scelto dell'organizzatore dell'Opera Garnier di Parigi per scrivere il libretto di un'opera per ragazzi ispirata alla fiaba di Andersen, La Driade, storia di una ninfa abitante dentro la cavità di un albero, che rinuncia all'immortalità per andare a visitare per un giorno Parigi. Il terzo personaggio è un giovane immigrato marocchino Rashid, graffitista che lavora come cassiere in un locale porno.



Frederic arriva a Parigi pieno di speranze ma rimarrà deluso, l'organizzatore è abbandonato dalla moglie mentre Rashid gira libero per i metro a disegnare con lo spray. Entra in scena anche Hans Christian Andersen in persona, con il suo cappello a tuba, la sua passione per i viaggi e il suo turbolento amore non consumato per Jenny Lind. Il manager, frequentatore assiduo di peep show, una sera giocando con la lampada, racconta alla figlia la fiaba dell'Ombra di Andersen, storia inquietante dell'ombra che acquista potere e forza sull'uomo arrivando a distruggerlo. Dietro questa storia si nasconde la vera trama dello spettacolo, che mette in risalto le zone oscure dei personaggi, i loro turbamenti sessuali, i loro desideri, le loro aspirazioni artistiche represse, così come dietro la storia della Driade si nasconde il tema del risveglio alla sessualità e la sua prigionia diventa quella di Andersen rispetto alla rurale e conservatrice Danimarca (e forse anche quella di Lepage dentro l'enclave del protezionismo linguistico e culturale del Québec).



Come in altri solo show di Lepage (Les aguilles et l'opium, La face cachée de la lune) i personaggi vivono il dramma dell'insoddisfazione, dell'inappagamento e della tensione romantica verso un amore o una fama che non si realizza. In sostanza, “Human beings who have hope and desires are always punished”. I solo show di Lepage sono il luogo per eccellenza per raccontare la solitudine umana, ma anche l'incomunicabilità, la separazione, l'incatenamento a principi morali. Il drammatico percorso autoanalitico dalla rottura alla crisi al ricongiungimento passa per il telefono: i suoi personaggi sono un'umanità che vaga disperata con un telefono sempre in mano. Il contrasto tra i personaggi è quello tra Romanticismo e Modernismo, emblematicamente rappresentato dall'Expo di Parigi che Andersen visita nel 1867 - data questa anche della morte di Baudelaire che aveva dedicato proprio alla modernità il saggio Il pittore della vita moderna-. Come ricorda Lepage stesso:L’Esposizione Universale del 1867 è la fine del Romanticismo parigino e l’inizio del Modernismo. E nel modernismo Andersen vede racconti di fate, macchine incredibili, un mondo maschile di machos, un universo realista, matematico, fondato su cose molto concrete (...). Mi rimproverano il Romanticismo, sia nella mia vita privata sia in quella professionale. Ma questi sono temi che tornano spesso nei miei spettacoli, il fatto che individui romantici si trovino in un mondo molto concreto dove c’è poco spazio per la poesia, per l’eccesso, per le passioni”.



Prevale ancora una volta in Andersen Project la figura dell'artista indipendente, libero dagli imperativi del mercato dell'arte. Ovvero, l'altra faccia di Lepage stesso. Ritorna la tematica già presente in altri spettacoli, da Vinci a Busker's opera: l'artista afferma la propria libertà solo quando ha il coraggio di uscire dalla “cornice” dello show business.



La scena come un bulbo oculare
Lepage crea una scena avente vari livelli di profondità: un'enorme cornice serve come basamento per nascondere ciò che appare e fuoriesce - libero da coperture - dal sottopalco o dai lati del palco, grazie a trabocchetti e armature mobili. In epoche antiche come è noto, le salite e le discese erano comandate da un argano con montanti e pulegge. Non è escluso che Lepage abbia guardato proprio a questa tradizione della scenotecnica antica e che l'azione di scorrimento in orizzontale delle piattaforme su binari dal sottopalco e al piano possa essere stato effettuata con corde a mano (come già accadeva per La face cachée de la lune). Due binari paralleli infatti servono per il trasporto da un lato all'altro del palco, di oggetti, persone e ambienti (manichino, albero, marionetta, cavallino di legno, cabine telefoniche che diventano cabine per peep show) grazie a servi di scena vestiti di nero e pedane.
A un ulteriore livello di profondità si colloca una scena davvero originale: un raffinato panorama arretrabile concavo, bianco e abbagliante e che si eleva di circa 30° permettendo all'attore un brevissimo percorso in verticale, quanto basta per stare immerso dentro alcuni ambienti visivi proiettati, tra cui uno scalone interamente realizzato in 3D, il paesaggio di un treno in corsa e il muro della fermata del metro Les invalides dove Rashid-Lepage spruzza colore formando disegni e scritte realizzati in realtà, dal tecnico tramite Photoshop.



Questa struttura non è altro che una cavità vagamente somigliante a una chiglia di una nave o a un bulbo oculare e le proiezioni frontali sulla sua superficie, pur colpendo il corpo dell'attore vengono annullate da una luce bianca ancora più potente (generando così una doppia ombra...). Ma come cancellare ogni traccia di giunture e ottenere un efficace effetto di sfondamento prospettico all'orizzonte e soprattutto di interazione tra corpo e immagine? L'unico modo per dare vita a un prototipo di scena del genere senza utilizzare dispositivi invasivi è un sistema di panorama meccanico pneumatico che letteralmente aspira la stoffa in lycra o spandex che riveste la struttura facendola aderire alle pareti. Il sistema pneumatico permette non solo l'aspirazione ma anche la fuoriuscita d'aria, facendo diventare la cavità, da concava a convessa, e mostrandosi di fatto come una sorta di cornea oculare sopra la quale le immagini si deformano variamente o acquistano spessore e corpo. Quando la tela si espande verso l'esterno la struttura genera un effetto molto simile alle installazioni di Tony Oursler. Questa scena ha inoltre, un velario accessorio che permette ulteriori proiezioni e incrostazioni di immagini provenienti da una webcam.
La domanda è: perché Lepage ricorre a un simile marchingegno pneumatico il cui modello è possibile trovare sui manuale di scenotecnica?
La risposta si ha solo conoscendo in generale il suo teatro e la motivazione particolare che sta dietro a questo spettacolo: il suo image-based work come è stato definito si regge su un rapporto delicato e confidenziale e soprattutto “artigianale” tra corpo dell'attore, macchina e immagine, ogni volta studiato in modo diverso: probabilmente lo spettacolo più vicino a questo Andersen Project è Les aguilles et l'opium, in cui un attore era appeso sopra uno schermo a lavagna in spandex su cui erano proiettate immagini. Ma se la driade è incatenata all'albero, Lepage non è mai stato incatenato alla tecnologia, più semplicemente forza e piega la tecnica teatrale più antica e tradizionale ad arrivare agli stessi risultati, come per il set mobile di Elsinore e per la scena trasformista di La face cachée de la lune. Non sfugge a Lepage il dettaglio che la data del 1867 in cui Andersen arriva a Parigi è anche un anno cruciale per le invenzioni tecniche e per il perfezionamento di quelle già esistenti, dalla stampa alla fotografia al motore a scoppio. E' l'anno del Canada diventato dominio del Commonwelth britannico, della seconda rivoluzione industriale e soprattutto della Grande Esposizione Universale di Parigi allestita pieno Secondo Impero napoleonico, in cui domina la fotografia anche grazie al successo delle cosiddette macchine ottiche per visioni stereoscopiche adatte alla percezione del rilievo, in sostanza l'antica progenitrice delle immagini 3D. Léon e Lévy sono infatti gli autori di ottantaquattro viste stereoscopiche per l'Expo, informazione sufficiente forse a giustificare in questo spettacolo la presenza quanto mai insolita nel suo teatro di una particolare macchina scenica di visione che simula appunto la profondità delle immagini. Così Lepage per rappresentare un mondo all'inizio della modernità rinuncia deliberatamente ad interagire con sistemi meccanico-protesici o ottici di rilevamento del movimento e del corpo nello spazio, o con dispositivi di visione polarizzata, per affermare che in fondo, non è la sperimentazione tecnologica più spinta a fare nuovo il teatro, ma un perfetto equilibrio tra contemporaneità tecnologica e sapere tecnico antico. Questione di punti di vista.


 


 

Est-etiche multimediali: le arti del nuovo millennio
Un incontro a Chieti
di Associazione MIRA

 

L’Associazione MIRA presenta:
EST-ETICHE MULTIMEDIALI
Lezione sulle arti del nuovo millennio


Interverranno:

Andrea Balzola
(drammaturgo – Docente di Drammaturgia multimediale all'Accademia di Brera)

Anna Maria Monteverdi
(studiosa di teatro e nuovi media – Docente di Teatro multimediale all’Università di Pisa)

Luigi Colagreco
(saggista e compositore – Presidente dell’Associazione Mira)

Qual è l’impatto delle nuove tecnologie digitali sulle diverse arti, sul ruolo e la funzione dell’artista e del pubblico, oltre che sulle moderne teorie estetiche e della comunicazione, e quindi sui temi etici ad esse collegati? Il processo di digitalizzazione dei dati, a partire da uno standard condiviso da creatori, utenti e macchine, non porta solo a una integrazione tecnica senza precedenti tra i vari media (libri, giornali, cinema, televisione, radiofonia, Web, eccetera), ma permette e suggerisce anche una contaminazione estetica tra le varie forme espressive. Le inedite possibilità offerte dalla tecnologia rilanciano l’interazione creativa tra le diverse arti cercata da molte utopie estetiche moderne, da Wagner alle avanguardie storiche, dalle performance intermediali o transmediali alle varie declinazioni dell’arte elettronica.

Nel corso dell’incontro verrà presentato il volume Le arti multimediali digitali, curato da A. Balzola e
A. M. Monteverdi, edito da Garzanti nel 2004.

DOMENICA 12 FEBBRAIO ORE 18.00
LIBRERIA DE LUCA – Via De Lollis, 12 - CHIETI

Ingresso libero

Evento finanziato dall’Università degli Studi “G. D’Annunzio”
e patrocinato dal Comune e dalla Provincia di Chieti




Associazione MIRA Piazza Roccaraso, 20 – 66100 CHIETI - tel. 0871 565237 - 328 4367341 www.associazionemira.it


 


 

ateatro & Star Trek: Oliviero Ponte di Pino sull'astronave Enterprise
Una intervista su www.adolgiso.it
di Redazione ateatro

 

Se proprio ci tenete a leggerla, questa intervista a cura di ARdamnd Adolgiso, dove si parla di grammatica klingon, piercing, Blade Runner e Iva Zanicchi (& Sangiovese), cliccate qui.


 



Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
copyright Oliviero Ponte di Pino 2001, 2002

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