ateatro
(di guerra)
numero 5 - 20 marzo 2001
a cura di Oliviero Ponte di
Pino (in collaborazione con Federica Fracassi)
INDICE
Fare un teatro di guerra
a cura di Federica Fracassi con interventi di
- Federica Fracassi,
- Antonio Caronia,
- Elio De Capitani,
- Biljana Srbljanovic,
- Carla Benedetti,
- Renzo Martinelli,
in occasione delle retro-prospettiva su Mario Martone al Leonka, a cura di Teatroaperto (13-16 marzo 2001)
Questi materiali sono stati pubblicati in Fare un teatro di guerra a cura di Federica Fracassi, scriba studio edizioni, Milano, 2001.
Mortal Combat. Un mail da Berlino
di Attilio Caffarena (con materiali in tedesco)
Imperdibile: Chi non legge questo libro è un . I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, Milano, 1999. |
Fare un teatro di guerra
a cura di Federica Fracassi
"ateatro4" ha ospitato un intervento di Oliviero Ponte di Pino, Per un teatro di guerriglia,
che poi è confluito con gli interventi che seguono (e altri materiali) in un volume
a cura di Federica Fracassi, pubblicato da scriba studio edizioni (info: scribastudio@tin.it).
Un urlo di introduzione
di Federica Fracassi
(...) Vorrei vivere, eppure mi sento circondata da un perenne senso di morte, sempre e ovunque, fin dal momento in cui ho cominciato a vivere questa vita da persona adulta.(...)
(...) In un mondo che prosegue placido per il suo corso senza di me, non so più a che luogo appartengo. Qualcuno deve avermi rubato la mia identità assegnandomi solo un volto, una fisionomia, una smorfia (...)
Tra tutti i contributi che ci sono arrivati scelgo quello di Biljana, l'unica a cui non l'ho chiesto, l'unica che di questo libro non sa nulla.
Biljana ha la mia età. Credo proprio che sia nata nel 1971 come me.
Ha scritto queste frasi perché dilaniata da una guerra vera che ha accompagnato gli anni della sua giovinezza, che ha minato il suo popolo e la sua terra.
Provo un senso di vergogna, di imbarazzo. Sono sacrilega verso chi è colpito da un vero dolore. Sono debole e inopportuna quando penso quanto queste frasi siano anche mie.
E' mio questo senso di impotenza, di non appartenenza. Mio questo volto cancellato.
E come è possibile? Io, una giovane donna figlia della pace e della democrazia, che provo questi sentimenti e questo dolore. Io che sento sulla mia testa il peso del potere. Io, una donna che ha potuto lottare per un lavoro privilegiato e che ama, che ha una casa, il diritto di voto, che può scegliere i suoi abiti, la sua pettinatura e le sue parole. Come è possibile se non offendendo chi non ha più niente, neanche il diritto sul suo corpo, neanche la vicinanza dei suoi cari?
Chiedo scusa per questo groppo nello stomaco. Forse, come dice Pippo Delbono, è il groppo dei viziati, perché chi sta nella guerra vera vorrebbe solo ridere e tornare a danzare. Ma il groppo c'è e mi ha portato a lavorare per gli incontri stupendi che animeranno queste sere, mi ha portato a raccogliere questi scritti.E' ciò su cui abbiamo più riflettuto: essere guerrieri in pace.
Un mio amico ha detto "vado dove già vogliono". Io lo penso tutti i giorni, lo sento in quello che mangio, nei vestiti che mi metto, nelle parole e nelle persone. Vado dove già vogliono.
Forse è questa la mia ferita aperta, quelle mie gambe sempre troppo corte, quelle spalle sempre troppo curve, quel viso sempre troppo antico per poter stare comodo e splendente nel nuovo millennio, in questa futura e sicurissima democrazia.
Sì la mia ferita è aperta, ma in questi anni di teatro l'ho condivisa e mi ha dato molto spesso la forza di danzare. Ho, insieme all'atroce consapevolezza dei giochi sulla mia testa lo sforzo della mia voce, una voce che ha dentro la storia, la geografia, i popoli, gli anni e che sa dei miei suoni, della mia posizione nel mondo. Preservare la propria voce, il proprio discorso nello schiamazzo generale e avere la forza di gridarlo, di mantenerlo è forse già una tale prova di coraggio, una tale conquista.
O forse no.
Lascio voi e me con questa incertezza, che mi sembra un bel regalo. Da giorni sogno di uscire per strada e di trovare tra gli altri cartelli elettorali la faccia di uno che mi urli: " Lo spazio del dubbio è tuo diritto. Garantirtelo è mio dovere."
La guerra dei possibili
di Antonio Caronia
Dice Mario Martone che "si avverte sempre meno la 'necessità' del teatro." Può essere. Stiamo entrando nel postfordismo, cioè in una fase del capitalismo in cui non solo sono sovvertite e rivoluzionate le relazioni tra le varie "necessità", ma anche il rapporto fra "necessità" e "possibilità". Il regime disciplinare dei corpi di cui ci parlò Foucault, e che al culmine della fase industriale si incentrò intorno alla fabbrica come metafora della società, ma anche alla fabbrica come luogo separato in cui si produce valore, sta rapidamente svanendo, per lasciar posto a un regime in cui il valore si produce in ogni angolo del globo e in ogni momento della giornata, e quindi non occorre più una "disciplina" specifica del corpo. I corpi, ormai, sono "valorizzati" dal capitale sempre e ovunque, tanto quelli dei bambini che cuciono palloni da football e scarpe da tennis in India e in Thailandia, quanto quelli dei giovanotti dell'occidente che si dividono tra lavori precari, disoccupazione, muretti e discoteche. Possono quindi essere indifferentemente schiavi o liberi, i corpi, selvaggi o ritualizzati, semiotizzati o muti, addirittura materiali o immateriali. Tanto, è la loro secrezione linguistica che produce valore. Non era pensabile che un cambiamento così profondo dei corpi e del rapporto fra produzione linguistica e produzione di merci rimanesse senza conseguenze sugli statuti e sulle pratiche della produzione culturale, anche di quella che tradizionalmente sta fuori (o mezza dentro e mezza fuori) dalla dimensione "industriale". Mi pare che il film di Martone Teatro di guerra parli anche di questo. Martone è partito dal teatro, è arrivato al cinema, è tornato al teatro. Negli anni Ottanta spettatori distratti e confusi come me poterono equivocare e ascrivere il suo lavoro al cosiddetto "postmoderno". Mi ricredetti quando vidi Morte di un matematico napoletano, che mi commosse per le immagini vive, sottratte alla malinconia, di una città che amo disperatamente e che non mi ha mai ricambiato, e per il riaffiorare di una storia che aveva colpito - quando era molto più recente di oggi - un giovane studente di matematica che nei primi anni Sessanta faceva un difficile apprendistato politico e umano. Martone ha un senso molto acuto del conflitto: sembra sempre che i suoi personaggi vogliano evitarlo, ed esso si impone loro con una necessità, questa sì, ineludibile. La necessità, in questa fine accelerata del moderno che diventa, forse non post- ma iper-moderno, non è più la Ananke dei greci classici, non è un fato, un destino che si impone all'uomo come una storia già scritta, un copione già recitato: al contrario è una dimensione - lo ripeto, ineludibile - che nasce da un'eccessiva ricchezza delle alternative, da un'ipertrofia dei possibili.
In questa condizione il teatro non può ritrovare la sua necessità se non si confronta sino in fondo, dolorosamente, con la sua paradossale superfluità: con la drammaticità di un'azione che non può realizzarsi come finzione se non producendo un'esperienza viva e sanguinante. Mi sembra che dallo schermo cinematografico di Teatro di guerra esca anche questo: e quindi ha visto giusto, mi sembra, Teatro Aperto, nell'appropriarsi di quel titolo leggendolo come un genitivo soggettivo e non solo oggettivo. La guerra non è solo un possibile contenuto del teatro, è la sua forma. Il teatro che ci interessa (che interessa lo spettatore distratto ma inquieto che è in ciascuno di noi) è un teatro che nella giungla dei possibili contemporanei, nella loro indifferenza ed equivalenza proposta dalla nuova legge del valore postfordista, ritrova il conflitto, percorre - magari con ironia, ma con la coscienza di un terremotato - un cammino di lotta, la lotta per la dignità e l'espressione dei corpi. Una lotta che si combatte, in modi diversi, tanto in Chiapas quanto nelle periferie d'Europa. Non mi sembra un caso che gran parte di questo teatro nasca dentro, intorno, accanto, ai centri sociali. Pur con tutta la rigidità - a volte - di un linguaggio desueto, di una pratica che fatica a tenere il passo con le trasformazioni della società, i centri sociali sono da vent'anni in Italia una delle poche esperienze di sperimentazione di un'alterità che cerca una via d'uscita all'impasse dell'indifferenza e dell'arrembaggio pesantemente suggeriti dalle nuove costellazioni del potere politico, economico, mediatico. Il carattere politico del teatro dei e nei centri sociali non sta perciò (come possono pensare gli spettatori solo distratti e non inquieti) nella proposizione roboante e grottesca delle parole d'ordine di un volantino, ma nella sua capacità di leggere le trasformazioni dell'individuo nella società e della società nell'individuo. Di raccontare delle storie che nella pratica di una messa in scena pensata e vissuta suggeriscano e stimolino il superamento della "rappresentazione". Di denunciare la guerra come una pratica di oppressione dei forti sui deboli, e di rilanciarla come la resistenza dei deboli contro i forti: sapendo che c'è anche una forza dei deboli, e che questa forza sta nella capacità di sottrarre le relazioni fra gli umani all'indifferenza e all'indeterminazione, e di farle vivere nell'allegra fatica della creazione collettiva.
Milano, marzo 2001
Un mail & altro
di Elio De Capitani
Ecco un po' di materiali. In tutto il mio lavoro la guerra è presente come un'ossessione. Non lo avevo notato fino ad oggi.
Il mio sogno di una notte d'estate del 1988 iniziava con la pulizia etnica delle amazzoni,a sipario alzato di solo un metro, si vedevano gambe di soldati e di donne uccise con un colpo alla nuca. Titania veniva catturata e trasformata, porta nuda davanti a Teseo e imprigionata in un vestito a tubo che le teneva prigioniere le mani. Le mettevano con mano ferma del rossetto sulle labbra, estraevano una mano dal vestito e la davano a Teseo.
"Ti ho conquistata con la spada, ma in altri modi ora..."
Non era un Sogno, era un incubo. E tutto proseguiva nella violenza, anche i rapporti tra i ragazzi era violenti, il sesso era stupro. Fu molto discusso quel taglio, ma nessuno si accorse che prediceva quanto da lì a poco sarebbe accaduto.
Poi ci sono stati i Turcs, di cui non trovo il testo che ho scritto nel '95 per il programma di sala, che mi pareva molto bello e parlava, ovviamente di guerra, di profughi.
Ma ti mando anche il pezzo di apertura della stagione, dove puoi cavare qualcosa che allarga il senso della vostra idea sui teatri di guerra.
C'eravate anche voi quando l'ho letta.
"Il teatro è la nostra arte e l'arte è il solo strumento che avevamo, e ancora oggi abbiamo, per dare un senso e un progetto alla nostra vita in questa città, che ci pone ogni giorno di fronte al conflitto, permanente e irrisolto, tra cittadinanza, dissidenza e indifferenza.
I nostri primi teatri sono stati i centri sociali, la nostra prima sede, fino all'autunno del 1979, il vecchio Leoncavallo occupato. Rappresentavamo una generazione che costruiva un'alternativa in modo concreto, partendodalla vita, dall'arte e dalla comunicazione. I nostri spettacoli erano feste, la musica era il veicolo più importante.
Operiamo ancora oggi in una zona di confine, riempiendo lo spazio che solitamente separa un luogo alternativo da un'istituzione culturale della città, senza arrivare mai a comporre questa nostra identità complessa e contraddittoria, in una realtà stabilita una volta per tutte, coscienti di quanto sia stato difficile mantenere la sfida di questa doppia identità tragli anni settanta e gli anni novanta del secolo scorso. E quanto lo sia ancora di più oggi. "
Fai quel che vuoi, di questa roba. Sono belli tutti gli inizi e ne mancano alcuni... sempre la guerra.
Ciao.
... APPUNTI
(Amleto 1999)
Inizio le prove di Amleto per la quinta volta. Aerei della Nato stanno bombardando Serbia e Kossovo. Partono da basi italiane. La lacerazione del mio animo è profonda: perchè non riesco a considerare un intero popolo come il nemico e tutti abbiamo imparato, anche in questi cinquantanni di "pace", che la guerra ha un prezzo che non paga il tiranno nel suo palazzo, ma chi è inerme. Ma non sono più capace di accettare l'indifferenza di fronte alle stragi e alle pulizie etniche. Penso: per secoli le stragi sono accadute nel silenzio, ma anche il massacro ustascia che l'ostinata memoria degli ebrei croati a portato a processo in questi giorni a Zagabria. A tutto quello che è accaduto in Bosnia e in Croatia in questi anni , si è riusciti in qualche modo a porre un rimedio, Sarajevo non è più assediata. Allora...
Abbiamo imparato anche a non farci più ingannare dalla memoria corta - ciò che accade oggi è figlio di storie antiche: gli assassini spietati di oggi, ieri sono state vittime inermi. La memoria è un groviglio, quale passione ci può aiutare a capire? Quando si è orfani delle ideologie, il mondo ci appare in tutta la sua inerzia di mali che non piegano mai al bene: giardino abbandonato dove trionfano le erbacce più comuni (...)
edc
(Il senno di poi)
"Il momento più alto della trilogia è sicuramente l'acme delle Eumenidi, quando Atena ististuisce la prima assemblea democratica della storia. Nessuna vicenda, nessuna morte, nessuna angoscia delle tragedie dà una commozione più profonda e più assoluta di questa pagina".
(Pasolini, Orestiade, Nota del traduttore)
OGGI ATENA E' VOLATA A BELGRADO. Abbiamo tutti provato una grande emozione catartica proprio ieri: quella che ci ha dato il popolo serbo che, con le sue sole mani, ha distrutto la trappola in cui il dittatore li aveva cacciati. Rinascendo all'ammirazione del mondo per averlo fatto senza spargimento di sangue. Usando tra le tante armi pacifiche, un'arma speciale dell'intelligenza: l'ironia. C'è da sperare bene, se una democrazia ha, alle sue radici, una rivolta che non perde il buonumore, neppure nel momento della tragedia.
Un evento così gioioso, ci fa vivere dentro la storia finalmente non solo per le sconfitte, ma anche per significative vittorie della ragionevolezza. La commozione per la catarsi finale delle Eumenidi, che abbiamo appena terminato di portare in scena si mescola dunque a quella della storia attuale e ne fa riverberare la luce con un diverso accento.
Nelle Eumenidi, non è solo l'istituzione del tribunale che ci emoziona e ci fa riflettere. E' il dopo: il faticoso tentativo di Atena di non far scatenare le forze arcaiche delle Erinni contro la città. Fatica con cui dovrà far i conti il neo-presidente Koustunica. Anche lui dovrà redimere le Erinni e portarle al bene: non rimuovere certi elementi dell'orgoglio nazionale che si erano costituiti in maledizioni del popolo serbo, ma traformali in benedizioni, in forze di pace. E favorire questo stesso accadimento in Kosovo e in Montenegro.
Avevamo dedicato la prima tappa degli Appunti alle Coefore, alla compulsione orribile della vendetta, ancora più orribile per Oreste, costretto dalle norme e da un dio a vendicare suo padre uccidendo la madre. Vedere operante il meccanismo del compianto funebre del morto come generatore di sterminio, era un filtro antico dare luce nuova agli anni attuali: una sorta di crisi del cordoglio nei Balcani, risalente ad altre epoche storiche, che trovava una nuova esplosione. Perché non aveva trovato quella giustizia che da pace ai morti e restituisce senso alla memoria. Ci siamo riferiti ai Balcani non per attualizzare Eschilo ma per capirlo meglio. E capire assieme all'Orestiade anche agli anni attuali. Solo così si riesce a rendere vivi i classici: illuminandoli col presente per esserne illuminati a nostra volta.
Per questo le nostre Coefore erano ambientate in una arcaicità contemporanea, contadina: ma appunto più balcanica che mediterranea, anche se l'eco del sud, di tradizioni nostre, aveva segnato la rappresenentazione del canto funebre e del rito. Ora vengono le Eumenidi, auspicio di nuove istituzioni che superino quelle vecchie: sia per la democrazia nella serbia che per il tribunale per il crimini di guerra: di nuovi tribunali abbiamo bisogno, permanenti, accettati e riconosciuti da tutta la comunità internazionale. Se guardiamo al presente però, possiamo bene immaginare quanto fragili, quanto contraddittori saranno gli equilibri che man mano si raggiungeranno: la guerra, il conflitto esplode, la pace, la ricostruzione del tessuto civile nelle relazioni è lenta e richiede molte parole molta sapienza, molto logos, per dirla coi greci (...)
edc
Monza, 6 ottobre 2000
(Un circo di bambini)
Per Biljana Srbljanovic il tragico è comico nella sua Jugoslavia, paese di cui si è sempre sentita cittadina, come abbiamo letto nel suo Diario da Belgrado, sofferto ma al tempo stesso mai cupo, spedito ogni giorno, per tutta la durata dei bombardamenti Nato, via -mail a Repubblica. E tornato recentemente per il racconto in diretta della caduta di Milosevic ai lettori del giornale italiano.
E mentre leggevamo le sue corrispondenze, un suo lavoro girava l'Europa, allestito da diverse compagnie e registi: Giochi di famiglia. Il successo di quello spettacolo era tutto nella forza della sua scrittura - surreale e realistica al tempo stesso - capace di cogliere in due pagine la realtà drammatica di un interno di famiglia con bombe e di restituirla, facendoci per di più ridere a crepapelle della stupidità stessa della tragedia ma anche, e contemporaneamente, riflettere su alcune cose essenziali.
La stupidità uccide e non va sottovalutata o trascurata soprattutto quando è solo un seme che si spande sornione tra la gente. Dobbiamo ricordare questa lezione e non scherzare col fuoco: Giochi di famiglia ci riguarda da vicino. E non solo per solidarietà o qualche altro buon sentimento, ma perché, parlando di Serbia, Biljana parla anche di Europa, Austria e Carinzia, di RDF e di ex-RDT, ma soprattutto per noi di Italia. E anche di Padania, in un certo senso . E così le nostre risate ci fanno anche un poco venire la pelle d'oca.
Perché vediamo all'opera un germe che più volte abbiamo visto all'opera anche qui da noi, sebbene non abbia prodotto - e non è detto che produca - risultati devastanti. La politica, soprattutto a destra - torna alla demagogia, all'equivoco che rappresentare il sentimento della gente comune significa accondiscendere follemente alle sue reazioni più pericolosamente istintuali, cancellando secoli di pensiero e di civiltà in nome altri pensieri e civiltà. Cancellare una parte della storia, in nome di una visione manichea e unilaterale: un errore che fece anche una parte della sinistra, in anni passati. La mia esperienza ha reso indelebile quel terrore per le chiacchiere da bar che fanno nascere l'uovo del serpente: le parole, all'inizio fanfarone, ma poi tragicamente seguite da azioni follemente conseguenti: ancora oggi tremo nel sentire la parola coerenza. Immagino che molte persone abbiano, nella ex-Jugoslavia, un'esperienza analoga alla nostra ma moltiplicata per mille.
Biljana, con una bellissima intuizione, ha scelto un circo crudele di bambini per raccontare in scena la disperazione, il cinismo, l'indifferenza, l'opportunismo spietato, la sottomissione, il pregiudizio, il nuovo razzismo e la trasformazione della vicinanza in distanza abissale - come quella che separa, o speriamo separava, Belgrado da Zagabria, per non dire dall'Europa - la terribile cecità di molti nel mezzo di tutto questo infinito disastro sociale, civile, umano. E il comodo fraintendimento che travisa tutto il nuovo che sboccia catalogandolo come tradimento, manovra del nemico, in omaggio all'ideologia dell'accerchiamento, corollario indispensabile di ogni nazionalismo, o ideologismo, che accumula sconfitte su sconfitte.
La culla di questo disastro diventa quindi non l'istituzione, lo Stato, la politica, ma la vita della gente comune, la famiglia vista nei giochi di bambini che Biljana inventa grotteschi, surreali e immaginari e al tempo stesso reali, più che reali, fatti della stessa materia che dà al sogno e alla poesia la forza di incarnare la realtà attraverso le misteriose forme artificiali dell'esperienza artistica.
(...) Se non riparte dalla ricostruzione delle coscienze, invece che avvilire sempre più il livello di consapevolezza della gente, questo paese prenderà una brutta china, e una parte grossa del suo popolo, pur minoritaria, non potrà identificarsi più non solo nel governo ma anche nella politica. Non solo per qualunquismo, come è sempre stato. Ma per coscienza civile, come rischia di essere in futuro. Si aprirà un destino di dissidenza che può minare le basi della convivenza civile riducendo all'esclusione dalla comunità una parte importante della sua cultura. Questo rischiamo.
Il circo crudele dei bambini di Biljana Srblijanovic ci fa da monito, senza moralismi o compiacimenti. Ed è un circo che può trasferisi anche qui, non dimentichiamolo quando sentiamo strillare parole violente sperando che restino tali.
edc
(21.11.2000)
L'identità smarrita
di Biljana Srbljanovic
Egregi signore e signori,
Permettetemi di presentarmi: io sono una persona cui è stata sottratta l'identità. L'unica cosa certa che io possa affermare di me stessa è che sono una donna, che mi trovo sulla soglia dell'età di mezzo, che sono cittadina dell'Europa sulla soglia di un nuovo millennio. Tutto il resto che potrei dire è piuttosto vago indeterminato e oscuro, eppure avevo un forte desiderio di presentarmi a voi stasera nella migliore luce possibile. Mi sarebbe piaciuto ad esempio sottolineare i miei lati migliori, altri li avrei fatti passare per inessenziali. Avrei anche espresso con la massima cortesia la mia gratitudine e per finire avrei conservato nella memoria questo bel momento. Ma mi si poneva un problema, e cioè spiegare chi sono, quali sono le mie qualità, dov'è il posto giusto per me e cosa invece nascondo, allora per riflettere ho voluto partire dall'inizio. Io sono una donna, cosa ovvia a tutti, mi trovo sulla soglia dell'età di mezzo, cosa che invece cerco di nascondere e fin qui tutto bene. Sono una cittadina dell'Europa, ma la cosa comincia a essere discutibile e anche il nuovo millennio non comincerà tra poco come molti ritengono perché ci aspetta un intero anno da vivere. A partire da qui le mie riflessioni si sono inceppate. Non riuscivo a proseguire. Non sapevo più... Non sapevo più ciò che in genere so di me stessa. La mia identità in qualche modo è andata smarrita. E' come se non l'avessi mai posseduta. E' inevitabile, nel tempo in cui mi è dato vivere, io affondo. Io sono una donna in un mondo di generali, di poliziotti, di reclute, di consoli, uomini d'affari, ministri senza portafoglio e di tiranni. Il mondo così come è fatto è un territorio maschile. Inoltre sono un essere umano senza identità nazionale, abitante di un paese che minaccia di diventare etnicamente pulito. Il dio che mi è stato assegnato dalla nascita non è poi che sia il mio vicino preferito da frequentare a questo mondo. Io e lui non abbiamo un gran rapporto né ci sforziamo di averlo. Né io, né lui. La guerra per me non è una condizione naturale dello spirito. Mi dilania, mi opprime, mi uccide a rate. Eppure io vivo da anni in uno stato di guerra cui non posso affatto oppormi. Io non ho molta voglia di morire per la patria, al contrario, vorrei vivere, eppure mi sento circondata da un perenne senso di morte, sempre e ovunque, fin dal momento in cui ho cominciato a vivere questa vita da persona adulta. Ogni giorno mi si offrono migliaia di modi di morire: in una delle guerre in corso, colpita da una bomba, oppure per fame, di freddo, morire dalla vergogna per peccati che non ho commesso. Portare fino alla fine dei miei giorni il fardello della cattiva coscienza che non certo io mi imputo. Per fortuna non si muore così facilmente. Personalmente non sto morendo di fame. Riesco in qualche modo a difendermi dal freddo. Le guerre le boicotto e le bombe le ignoro. Resta però il già detto senso di vergogna. L'onta per ciò che mi circonda. La vergogna mi si imputa in nome del mio popolo, in nome del mio paese, in nome dei paesi dell'Europa e di un altro grande continente. Questo sentimento però non mi aiuta a risolvere il problema. La mia identità è comunque andata persa. Non riesco a darne un'espressione, non riesco a esprimermi. In un mondo in cui la comunicazione avviene per atti di violenza in risposta ad altri atti di violenza non ho perso niente. Eppure io non vorrei svignarmela in un mondo che invece di giudicare condanna, io non so più chi sono e cosa sono. In un mondo di violenza statale in cui tutto si concentra attorno allo Stato io, che non considero lo Stato come un progresso dello spirito universale, ebbene io non so più come definirmi. In un mondo in cui le parole sono vuote e consunte, io che scrivo non so dove inquadrarmi. In un mondo che prosegue placido per il suo corso senza di me, non so più a che luogo appartengo. Qualcuno deve avermi rubato la mia identità assegnandomi solo un volto, una fisionomia, una smorfia. Come in un quadro cubista, metà del mio volto è quella di un combattente, l'altra metà quella di una vittima. Ma se non voglio essere né combattente né vittima non c'è posto per l'identità. Io che voglio la libertà di opinione sono costretta a scrivere di un'unica cosa. O meglio contro un'unica cosa, contro la guerra, contro la violenza, contro l'odio nazionalistico, contro la provinciale requisizione delle libertà per sé a danno di altri, contro le spartizioni, contro le battaglie, contro gli ultimatum come strumento di negoziato, contro l'unilateralità nel pensiero e nel giudizio. In questa vita, l'unica che posseggo, mi piacerebbe anche scrivere di qualcos'altro. In questa unica vita che si consuma tanto in fretta non sembra però che io ne abbia diritto. La vergogna e il senso di responsabilità per azioni e decisioni che non erano mie, mi costringono a pietrificarmi su un unico tema. In un mondo in cui i militari di un paese sterminano i civili, non posso permettermi di parlare d'altro. In un mondo in cui un intero continente fiero della propria cultura e della propria civiltà accetta che alla propria periferia gli esseri umani crepino di fame e si ammazzino a vicenda e in cui l'unica risposta di questo continente a tutto ciò è anche da parte sua ancora e come sempre violenza, ebbene in questo mondo non mi va di parlare d'altro. E così l'intera mia esistenza, ogni mio pensiero, ogni respiro del giorno, ogni parola che esprimo si indirizza verso quell'unico tema ed è presente in modo unico come una voce, sola, indirizzata contro tutto ciò che ci opprime. Quindi la mia identità non esiste, io sono determinata da qualcosa che mi è estraneo, da qualcosa che mi è contrario, da qualcosa a cui mi oppongo. Per questo, egregi convenuti, mi risulta difficile ringraziarvi personalmente a mio nome. Chi sono in fondo? La mia identità è carpita dalla politica globale e nazionale e nell'ultima guerra si è frantumata. Anche facendo enormi sforzi non riesco a ritrovarla, in nessun ufficio oggetti smarriti di nessun aeroporto europeo in cui transito, in nessun programma di ricostruzione per il paese in cui abito, in nessun comma dei negoziati di pace che vengono firmati ogni momento, in nessuna lingua, in nessuna usanza popolare, e men che meno nelle norme del galateo ufficiale e internazionale. Quindi chi sono ? Chi è la persona davanti a voi che vi è estremamente grata per l'attenzione e per l'onore che le viene tributato. L'unica cosa che mi viene in mente per rispondere alla domanda è che io sono il canarino della madre della signora Hinkemann, il canarino che canta ma non particolarmente bene, finché poi gli tolgono la vista con dei ferri da cucito incandescenti. Potrei facilmente essere, involontariamente, un personaggio di una pièce di Ernst Toller, e questo probabilmente è il motivo per cui oggi mi trovo qui, davanti a voi.
(Discorso per il conferimento del premio Toller, dedicato ai giovani autori, a Vienna nel dicembre 1999)
Il giorno 05-10-2000 23:20, Biljana Srbljanovic ha scritto a Elio De Capitani e altri 7 destinatari:
> We did it!!!
> Thank you, dear friends, for your love and support
> Yours
> Biljana
>
Lo scandalo esiste!
di Carla Benedetti
(come liberarsi da un sortilegio)
"E' triste a dirsi, caro Luis, ma lo scandalo non esiste più", disse Breton a Buñuel dopo che Max Ernst ebbe vinto, nel 1954, il gran premio della Biennale di Venezia.
L'idea che non si dia più alcuna 'norma' da combattere, e che anzi la trasgressione stessa si sia trasformata in una sorta di nuova convenzione, o di nuova accademia, è il doppio legame in cui è rimasta bloccata la tarda modernità: è il suo bagaglio o, se si vuole, il suo fardello, e dunque non porta il nome di un singolo artista o di un singolo filosofo, ma è diffusa e condivisa. E' come un apprendimento secondo che porta nel campo visivo del pensiero quella che era stata fino ad allora la legge implicita del moderno, ora percepita globalmente come destinata a un vicolo cieco. Dappertuto si registra l'impossibilità dello scandalo, del conflitto, ma non semplicemente nella forma di una contingenza, bensì in quella di un collasso, di un'implosione, di una fine della storia.
Il mondo contemporaneo è disseminato di doppi legami come questo. Persino l'azione rivoluzionaria pare esservi restata impigliata. Buñuel ricorda che nel '68, per le strade di Parigi, si potevano leggere sui muri slogan che parevano presi dall'armamentario surrealista: "l'immaginazione al potere", "vietato proibire" ecc. Ma - aggiunge - neppure gli studenti del 68 potevano metterli in pratica, trasformarli in agire, a meno di non scegliere il terrorismo - altro vicolo cieco: l'azione era insomma diventata impossibile, come lo scandalo.
I doppi legami che paralizzano la cultura contemporanea sono ordini paradossali del tipo "ti ordino di disubbidire" - che a dirlo sia il potere o l'istituzione artistica. L'azione rivoluzionaria come l'arte finiscono in un paradosso doloroso: se disubbidisci ubbidisci, se innovi sei un epigono, se scandalizzi sei nella norma, qualunque cosa tu faccia resti prigioniero del già dato. L'apprendimento tardomoderno è questo: la modernità e l'occidente si guardano allo specchio e restano paralizzati dal loro stesso sguardo, dalla loro stessa stanchezza.
Ma in una simile condizione non si finisce spontaneamente. Spontaneamente, anzi, il pensiero e il comportamento tendono a trovare vie d'uscita, a inventarle se occorre laddove non si diano già, senza cadere in trappola. Per rimanere bloccati da un ordine paradossale, nell'eterna oscillazione tra due opposti che rimandano l'uno all'altro (come il martelletto di un campanello elettrico che oscilla da un elettrodo all'altro, secondo l'immagine di Gregory Bateson), per rimanere insomma in una tale condizione altamente improbabile, occorrono circostanze particolari, che inibiscano tutte le possibili vie d'uscita. Non c'è alcun destino irreversibile che peserebbe sull'arte contemporanea. Se essa resta bloccata in questo vicolo cieco è perché essa stessa si è preclusa ogni possibile via d'uscita.
A provocare la paralisi è la constatazione dell'impossibilità del nuovo. E anche qui si può misurare quanto sia ambigua e manchevole una tale autocritica della modernità. E' evidente infatti che, a partire da una tale constatazione, le vie che si aprirebbero all'arte sarebbero infinite. Se non si può più procedere nella ricerca di ulteriore differenza, vorrà dire che è venuto il momento di liberarsi da quel compito, e di inventare "un nuovo pezzo" di letteratura e di arte: di abbandonare la logica della trasgressione e degli shock , della differenza e della ripetizione, per correre su campi aperti, sgombri di storia e di musei. Ma è appunto questo che l'apprendimento tardomoderno non riesce a pensare.
Come un orfano che continui a piangere i genitori morti, esso è incapace di concepire il nuovo in una maniera diversa da come l'avevano concepito i romantici (e dopo di loro le avanguardie), al punto che dall'impossibilità di quel nuovo deduce l'impossibilità del nuovo in generale. L'impossibilità di produrre ulteriore trasgressione viene fallacemente generalizzata come impossibilità di esplorare terreni vergini, di pensare l'impensato, di creare un'opera. Da tale fallacia deriva il circolo vizioso della tarda modernità. Ed è un circolo che essa stessa ha costruito.
Il motto postmoderno ci ha ripetuto per anni che niente di nuovo può essere pensato: e ce lo ha detto, con una circolarità sinistra, sia in sede di diagnosi sia in sede di terapia. L'impossibilità del nuovo è sia la perdita da elaborare sia il mezzo con cui elaborarlo; sia il disturbo da curare sia la medicina con cui curarlo. Così, l'unica via che si "apre" a questa autocritica della modernità che prende atto delle proprie impasse, ma senza rovesciarne le premesse, è di dare per già avvenuta la fine dell'arte, accettare senza riserve la condizione di epigoni, trasformare l'arte e la letteratura in una cerimonia con il cadavere.
Ciò che la tarda modernità ha elaborato - il mito della morte dell'autore, la descrizione postmoderna dell'arte che ne dà la fine come già avvenuta, le teorie poststrutturaliste del testo, la ridefinizione della letteratura come inertestualità - non costruiscono alcuna via d'uscita dalle impasse della modernità: sono solo un adattamento ad esse, l'adattamento a un doppio legame, cioè a una condizione impossibile. Ma l'adattamento a un doppio legame non può che essere patologico o, come direbbe Bateson, schizofrenogeno. Il mito della morte dell'autore (e l'idea depotenziata di arte a cui ha dato origine) ha trasformato l'arte, come pure il mondo che ci lascia vedere attraverso di essa, nell'idios kosmos di uno schizofrenico, come quelli in cui si trovano talvolta precipitati i personaggi di molti romanzi di Philip K. Dick. E in questo universo parallelo non c'è più conflitto: non c'è più né originalità né ripetizione perché ogni parola è citazione; non c'è più né opera né commento perché tutto è commento del già scritto; non c'è più né autenticità né inautenticità perché ogni voce è apocrifa; non c'è più né grandezza né mediocrità perché tutto è epigonale. Un mondo-tomba, dove tutto ciò che accade è già accaduto, e dove più niente potrà accadere.
Ma tutto questo non è che un sortilegio prodotto da una descrizione fallace e autoparalizzante. Da un doppio legame è sempre possibile uscire. Basta una mossa, un contro-paradosso, capace di rimettere in discussione le premesse di un gioco bloccato. Basta talvolta una piccola cosa che viene da fuori - come il mazzo di gladioli, "bello e disordinato", che Bateson portò nella casa ordinatissima e asettica di un suo paziente, la cui madre tollerava solo fiori di plastica, che non marciscono. Basta una piccola fessura che ci faccia guadagnare un punto di vista esterno all'universo in cui ci si trova chiusi. La radicalità dell'arte può essere concepita in una maniera che non ha più niente a che fare con la logica differenziale del moderno. Ma per farlo occorre pensare l'impensato! Occorre riaprire i possibili rimasti chiusi nella visione labirintica della storia, liberandosi da quella falsa descrizione epocale che caratterizza il senso comune postmoderno. Questa è la scommessa che si apre per l'arte e per il pensiero contemporanei.
(ripreso da L'ombra lunga dell'autore, Feltrinelli 1999, pp. 210-5)
I fiori, se non sono di plastica, devono appassire
di Renzo Martinelli
Straccio tutto. Mi capita spesso, ma in questo momento straccio anche un po' del mio tempo e forse vorrei stracciare anche il mio lavoro. Sono notti trascorse come al solito davanti agli appunti, nelle sigarette che si accumulano nel posacenere e nel dubbio.
Fin dall'inizio abbiamo fatto, poco preoccupati del contorno del nostro lavoro, abbiamo fatto a testa bassa, con ambizioni alte. E abbiamo pagato carissimo quello che facendo non abbiamo fatto bene.
Ma le stagioni cambiano, i fiori devono appassire. Alle due di notte straccio l'impianto del mio contributo scritto per questo evento.
Penso... avevamo buttato lì un tema con entusiasmo, provocati da una visione di "Teatro di guerra" di Mario Martone dove il teatro ritorna centrale proprio perché viene decentrato dal tema più forte della guerra, peraltro continuamente evocata ma mai mostrata. Si mostra invece nel film non solo cosa significhi fare teatro in pace, ma di più. Cosa significhi vivere, essere cittadini privilegiati e in pace, con la guerra al di là del mare, sugli schermi dei televisori.
Tra le macerie delle nostre riflessioni abbiamo visto nascere un fiore.
Ci siamo rispecchiati. Guerrieri in pace.
L'interesse si è allargato insieme a chi si occupa di cultura al C.S.Leoncavallo: la retrospettiva cinematografica, lo spettacolo, gli incontri, il libro. Abbiamo chiesto contributi scritti. Due ore fa cercavamo immagini di guerra che forse non verranno mai pubblicate. Il fiore è diventato bellissimo.
Di notte raccogliamo le mail di chi ha potuto e voluto inviarcele e allora mi commuovo, sono felice e straccio tutto. Straccio tutto perché qualcosa di quelle lettere, quasi rubate per la solita fretta, mi fa scartare dalla mia autoparalisi o dalla forma ben confezionata del mio articolo di prima. Crea disordine nei miei appunti e nuova lotta.
Stanotte mi dico così, che importa. Non devo cercare di scrivere una cosa bella. Non devo parlare di me, di Teatro Aperto, del nostro lavoro. Oppure sì, ma anche di altro. Qualcosa deve cambiare. Vorrei avere la forza di testimoniare tutto quello che è accaduto in questi anni, ma non solo a noi e forse un po' nel disordine.
All'interno del Leoncavallo si è abituati a convivere, a lavorare con questo tipo di disordine attivo e allora si raccolgono storie, nascono eventi come questo, spettacoli come "la santa" e i cani, la birra, le sigarette. Si può pensare l'impensato, partire dalla vita, non ignorare la guerra, non esercitare in continuazione la forma cadaverica del solito teatro. Io odio il teatro.
Tento di prendermi il diritto di uscire dal chiuso del mio palcoscenico per praticare l'arte, la vita. Parlare soltanto di teatro mi sembra sempre di più come ostinarsi a non vedere oltre il proprio naso.
Oggi, a qualche anno di inizio dal mio lavoro, mi sento soddisfatto per la coerenza, le scelte quasi sempre faticose, il compromesso quasi nullo, la voglia ostinata di credere nel significato libero e profondo del teatro come forma d'arte. Ma penso anche a questo presente. Il tratto caratteristico dei tempi che viviamo non è propriamente il coraggio, tutto cade nell'indifferenza e io vorrei festeggiare. Bisogna comunque festeggiare, credere che la città che noi vogliamo può avere la forma delle cose che facciamo: un motto che ho visto scritto sui muri del centro, ripetuto spesso come antidoto a questa campagna elettorale avvilente.
Noi che facciamo teatro agiamo nei bassi fondi dell'urbanistica di questa città. Per questo è così significativa la lettera di Mario Martone che si aggira nella polvere del cantiere del Teatro India (capannoni ex-Miralanza riconquistati alla cultura) . La si è voluta alla fine di questo volume perché è l'immagine più chiara che potevamo avere per intravedere quel ponte che collega lo spazio del teatro e lo spazio vitale, partecipando al progetto della propria città.
Noi registi che ci occupiamo di scena, noi attori che abbiamo come compito principale la percezione del nostro corpo dovremmo avere chiaro cos'è la memoria loci che mantiene viva la dimensione dell'esistenza. Stare sulla scena è affrontare un percorso di conoscenza, è vivere un luogo attraverso un fare comune, che solo alla fine ritrova il teatro dopo avere frequentato esperienze parallele. Non possono esistere azioni teatrali vive in uno spazio finto, a cui si è tolta la memoria. E allora penso alla Fabbrica del Vapore, da poco pomposamente inaugurata a Milano in un deserto di strutture, ma anche di idee.
Come possiamo mantenere quella dimensione originaria di cui parlavo? Come possiamo mantenere un contatto con la vita? Non mi sembra un caso che gran parte del teatro che si pone questi interrogativi nasca "dentro, intorno e accanto ai centri sociali".
In questi anni, insieme a molti, abbiamo respirato la sensazione che qualcosa potesse davvero cambiare. Lo avevamo costruito con fatica e con le mani, nelle differenze di ognuno e ancora senza etichette.
E sì, caro Massimo però, hai ragione tu. Basta aspettare qualche anno e tutto torna ad una preoccupante normalità.
Servirebbe tornare a raccontare con quella semplicità, caro Gigi, a cui forse non sempre siamo abituati e che mi commuove di notte quando la leggo nel tuo contributo.
Carla, le stagioni cambiano e i fiori, se non sono di plastica, devono appassire. Rimane il dolore per ciò che è andato perduto, per ciò che non abbiamo fatto bene, ma ci sono anche nuove domande e il nostro lavoro, che deve sempre aprirsi alle questioni e ai mutamenti.
Quell'appassire è forse il segno che ci vuole un po' di silenzio, ci vuole quella strana luce che hanno i visi quando hanno molto pianto. Un vuoto che serva a recuperare la vita, vero fondamento del nostro fare cultura.
Gli spettacoli sono ancora il nostro linguaggio, la nostra voce, ma serve di più. La loro finzione deve essere accompagnata alla produzione di percorsi, di socialità, di civiltà.
Allora straccio quell'intervento. Faccio un gesto, un piccolo rito.
Un rito che vuol dire che questi giorni per noi sono l'inizio dell'assunzione di un altro compito, di un' altra guerra. Preparare il terreno, accudire un luogo per gli ospiti che verranno. Organizzare un evento, in questo caso. Ma di più... consegnare un mondo: per noi e per tutti gli altri, per chi in questi anni lo ha fatto al nostro posto, per chi non lo ha fatto mai, per chi, per caso, attirato da una birra o dal film, si siederà al nostro incontro portandosi a casa qualche dubbio fertile.
Qualche giorno fa mi sentivo come il cagnolo di Morte a credito di Celine: (...) "L'indomani aperta la finestra, non ha esitato un momento, s'è buttato di sotto, aveva paura anche di noi. Credeva che lo avessimo messo in castigo. Non capiva più nulla delle cose del mondo. Aveva perso ogni fiducia." (...)
E' la somma di questi interventi che leggo che mi aiuta a tenere alto lo sguardo mentre sono alla finestra. Questi interventi, scritti nell'emergenza, ritagliati nella fatica di ognuno. Riflessioni che cercheremo di pubblicare e infine di documentare in video, forse rallentando la nostra fin qui serrata produzione artistica. Per continuare a correre. E questa è una scommessa.
Il segno che esiste sempre un teatro esploso, un teatro di guerra, anche se in alcuni momenti, come dice Antonio Moresco, il suo suono è troppo flebile da sotto le macerie delle nostre città in pace e c'è sempre il rischio che non venga udito, che sia troppo tardi. Ma se si ha l'accortezza, la fortuna di ascoltare, quel suono c'è, anche se non ci resta che un filin di vita.
(Milano, 9 marzo 2001)
Mortal Combat. Un mail da Berlino
di Attilio Caffarena
Con materiali in tedesco.
Caro Oliviero,
Ti ringrazio, innanzitutto, per le tue mail che mi arrivano sempre gradite.
Ti mando, poi, questo materiale informativo sull' ultimo lavoro del mio amico e collega Hans-Werner Kroesinger col quale ho collaborato molte volte negli ultimi anni (abbiamo entrambi lavorato con Heiner Müller e, tra le altre cose, abbiamo fatto assieme un lavoro all'ultima edizione di Dokumenta a Kassel) il quale è forse una delle (poche) presenze veramente interessanti del nuovo teatro tedesco sulla linea del teatro politico, con grande rigore, coerenza, intelligenza e originalità. Come vedi quest'ultimo lavoro è sulla guerra in Kosovo e verrà replicato a Berlino domani.
Anch'io presenterò a Berlino il mio ultimo lavoro il prossimo 18 Aprile, presso l'Istituto Italiano di Cultura,TEMPESTA. su The Tempest di Shakespeare, elaborato attorno all'immagine della vecchia Ambasciata Italiana a Berlino, edificio costruito con incredibile sfarzo negli ultimi anni della guerra come dono di Hitler all'Italia, mai usato, stranamente risparmiato dalle bombe e lentamente autosfacelatosi sino all'anno scorso quando, a due passi dalla nuova Postdamerplatz di Renzo Piano, è entrato in fase di restauro.
Ciao, buon lavoro, Attilio Caffarena.
Hans-Werner Kroesinger
MORTAL COMBAT - THE KOSOVO FILES
Die Presse ist begeistert !
...In seiner überaus gelungenen Inszenierung "Mortal Combat - The Kosovo
Files" collagiert Kroesinger vor allem dokumentarische Materialien. ...
Es geht um das Kosovo, die Fortsetzung des Nachdenkens über den Krieg mit
künstlerischen Mitteln. .... Hans-Werner Kroesinger versucht sich nicht
als agitatorischer Nachhilfelehrer. ... Auch wenn das Stück um den Balkan
und die Nato kreist, ist die Aufführung nur in einem sehr allgemeinen
Sinne konkret politisch, etwa so: Kriege sind abzulehnen. Sterben tut weh.
Das aber sagt sie eindringlich, durchdacht und ohne auf Betroffenheit zu
spekulieren. ...
MORTAL COMBAT - The Kosovo Files
Ein Stück von Hans-Werner Kroesinger mit Texten von Reiner Groß, der Nato,
Thukydides und aus serbischen Quellen. Es spielen Sabine Hertling, Karin
Mikityla, Heinrich Rolfing, Uwe Steinbruch und Neal Wach. Raum: Valerie von
Stillfried, Sounds: Flori Reifenberg, Visual Design: Katrin Schoof
MITTWOCH, 14. MÄRZ bis SAMSTAG, 17. MÄRZ 2001
um 20 Uhr in der Staatsbank Französische Straße 35
Berlin-Mitte (zwischen Gendarmenmarkt und Außenministerium)
Vorbestellungen unter T: 030 - 20 64 88 00
(In Zusammenarbeit mit STAATSBANK FRANZÖSISCHE STRASSE. Mit Unterstützung
der Senatsverwaltung für Wissenschaft, Forschung und Kultur, Berlin. Dank
an das Podewil, das Berliner Ensemble und die Firma av.f medienprojekte,
Berlin.)
WEITERE PRESSEAUSZÜGE:
Volltreffer
Erinnert sich noch jemand an den Kosovo-Krieg ? Pardon, die "Alliierte
Aktion" natürlich, denn offiziell wurde ja kein Krieg geführt, jedenfalls
"nicht gegen die jugoslawische Bevölkerung". Zur Erinnerung sei die
Performance "Mortal Combat - The Kosovo Files" in der Staatsbank empfohlen.
( ... ) Erinnert sich noch jemand an den Peleponnesischen Krieg ? ( ... )
Athen hatte diesen Krieg verloren, aber seine Erbin, die westliche
Demokratie, siegt weiter. Unnachgiebig.
Janine Ludwig, "Tagesspiegel" 9.03.01
Mach mir den Scharping
(...) Hans-Werner Kroesinger öffnet in der Staatsbank die "Kosovo Files" und
erinnert an den schon fast in Vergessenheit geratenen Quantensprung
bundesdeutscher Außenpolitik. Den großen Raum nutzt der Theatermacher für die
Einrichtung einer Leichenhalle: Auf schwarzen Plastikfolien liegen
Kleidungsstücke wie exhumierte Körperteile angeordnet. Ein mit einem
Schutzanzug
bekleideter Fotograf dokumentiert die Funde. Das Publikum erhält
Kennkarten, die
zum Zutritt in einen von drei Räumen berechtigen. Man schlüpft in die Rolle
privilegierter Beobachter, denen aber nur partielles Wissen vermittelt wird.
(...) Kroesinger gelingt mit "Mortal Combat. The Kosovo Files" der Balanceakt,
sich nicht für oder gegen einen der Kombattanten zu entscheiden.
Gräueltaten der
Serben werden nicht mit Nato-Schlägen relativiert. Aber der verschämt
verschwiegene Stachel, dass dieser Krieg auch von Nato-Seite kein gerechter
gewesen ist, beginnt wieder heftiger zu schmerzen.
Tom Mustroph, "die tageszeitung", 2./3.12.00
Hundert Mann und ein Befehl
Zwischen dem Wort."Moral" und dem Wort für "tödlich" liegt im Englischen
nur ein Buchstabe - "Moral" contra "mortal". Entlang dieser schmalen Linie,
so der Regisseur Hans-Werner Kroesinger verlief der Krieg zwischen der
Nato und der Bundesrepublik Jugoslawien. Die unvermeidlichen
Grenzüberschreitungen zwischen Gewalt und Recht untersucht er nun in seinem
Stück "Mortal Combat - The Kosovo Files". (...) Hans-Werner Kroesinger
versucht sich nicht als agitatorischer Nachhilfelehrer. Auch wenn das Stück
um den Balkan und die Nato kreist, ist die Aufführung nur in einem sehr
allgemeinen Sinne konkret politisch, etwa so: Kriege sind abzulehnen.
Sterben tut weh. Das aber sagt sie eindringlich, durchdacht und ohne auf
Betroffenheit zu spekulieren.
Irene Bazinger, "FAZ", 27.11.00
Wundrand am Abgrund
Es geht um das Kosovo, die Fortsetzung des Nachdenkens über den Krieg mit
künstlerischen Mitteln: Die Zuschauer stehen auf der Empore und blicken
hinunter
in die Schalterhalle der ehemaligen Staatsbank. Dort liegen Kleidungsstücke
auf Tüchern ausgebreitet, die Körper sind schon verwest. Sich von diesem
Massengrab-Bild abwendend, drängt das Publikum in drei verschiedene
Schulungsräume. (...) In seiner überaus
gelungenen Inszenierung "Mortal Combat - The Kosovo Files" collagiert
Kroesinger
vor allem dokumentarische Materialien. Auch die Reden, die bei der
Pressekonferenz der Nato gehalten werden, setzen sich aus Originalzitaten von
Politikern und Journalisten zusammen. Konfrontiert werden sie mit Auszügen aus
der "Geschichte des Peleponnesischen Krieges" von Thukydides, in denen die
überzeitlichen Eigenschaften des Krieges herausgearbeitet werden. (...)
Eva Corino, "Berliner Zeitung", 28.11.00
Dokumente führen ein Drama auf
Um politische Arroganz und Menschenverachtung anzuklagen, braucht es keine
Fiktionen. Die Dokumente sprechen für sich, und eigentlich verblüfft
höchstens, dass sich selbst in den liberalen Demokratien - wo sie in der
Regel zugänglich sind - immer nur eine Minderheit für den Horror der
Originaltöne interessiert. Der Regisseur Hans-Werner Kroesinger und der
Autor Reiner Groß haben genau nachgelesen und aus Pressemitteilungen der
Nato, Gesprächen mit Journalisten, serbischen Quellen und Thukydides
"Geschichte des Peleponnesischen Krieges" eine Textcollage mit dem
reißerischen Titel "Mortal Combat - The Kosovo Files" erstellt. Die
Wirklichkeit ist reißerisch. In die verrottenden Flure und Kammern der
Staatsbank installiert, wirkt sie bedrückend, manchmal fast komisch.
Eva Behrend, "Die Welt", 28.11.00
Appuntamento al prossimo numero.
Se volete scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
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Oliviero Ponte di Pino 2001