Lingua materna
Le lingue e il presente della memoria
di Renata Molinari
Questo testo è stato redatto nell'ambito del Laboratorio di scrittura drammaturgica condotto da Renata Molinari all'interno del progetto Il teatro delle lingue / Le lingue del teatro (Udine, settembre 2000-aprile 2001) ed è pubblicato nel volume di Renata Molinari
Lingua materna. Le lingue e il presente della memoria. Un laboratorio, pubblicato dall'Ente Regionale Teatrale del Friuli-Venezia Giulia, Udine, 2002.
Le tappe
26 - 29 settembre
12 - 14 ottobre (il convegno)
26 - 28 gennaio
10 - 12 marzo
26 - 28 aprile
I partecipanti
Manuel Buttus
Manuela Centazzo
Alessandro Ceschia
Sandra Cosatto
Veronica Cumaro
Gigi Del Ponte
Angela Giassi
Anna Gubiani
Fabiano Fantini
Ornella Luppi
Rita Maffei
Giorgio Monte
Marcela Serri
Massimo Somaglino
Carlo Tolazzi
Luisa Vermiglio
Barbara Sinicco (assiste Renata Molinari nella prima sessione di lavoro)
Il contesto del convegno
Nell'autunno del 1999, le giornate di lavoro organizzate da Angela Felice e Mario Brandolin attorno al tema Le lingue del teatro/Il teatro delle lingue avevano suscitato, in me come in altri partecipanti agli incontri di quei giorni, il profondo desiderio di continuare in maniera attiva, le riflessioni confrontate in occasione del convegno.
In che senso, in maniera attiva? Attive erano state anche le relazioni, le discussioni e soprattutto il confronto di opere e di intenzioni intrecciato sul palco dell'auditorium Zanon dagli artisti ospiti. Gli artisti delle Lingue del teatro, nell'ultima giornata del convegno, avevano dato vita a un vero happening, coordinato da Antonio Calbi. Più che un happening, l'impressione era quella di essere di fronte a un'autentica officina di provocazioni e restituzioni, in nome di pratiche teatrali diverse, ma concordemente radicate in una ricerca sulla lingua in grado di restituire appartenenze e legami, fuori dalle convenzioni e dalle abitudini della prosa teatrale.
Tradizioni culturali collaudate, ma anche ardite sperimentazioni formali, poesia e racconto, musica e storia si erano incrociate in un vero e proprio atto di testimonianza reciproca fra gli artisti in questione.
Tutto questo non solo confermava quanto il convegno aveva messo in luce a livello di riflessione sul teatro (sul teatro dei nostri anni, in particolare), e di analisi sull'intreccio di lingue della comunicazione sociale e della espressività artistica, ma dava anche una risposta forte, anche se non omologata, alle ambigue tentazioni, dal bozzettismo realistico all'isolamento separatista, che ogni viaggio dentro le differenze linguistiche rischia di avallare.
La ricchezza e i rischi insiti nella proposta delle Lingue del teatro erano poi esaltati dalla particolare collocazione geografica e culturale dell'iniziativa: il Friuli, appunto, terra di confine e di confini, di lingue che agiscono in maniera forte e a volte conflittuale nella definizione delle identità territoriali e culturali, per non parlare delle storie individuali spesso così scopertamente - ed emozionalmente - in bilico fra radice e spaesamento, fedeltà ed emancipazione.
Tre giorni di complessa immersione in questa realtà, fatta di domande, opere, provocazioni e stimoli, tre giorni ricchi, emotivamente e intellettualmente, spingevano verso quello che mi piace chiamare un approfondimento attivo. Uso il termine attivo nell'accezione teatrale del termine: un approfondimento attuato attraverso le regole del fare teatrale, e di quella particolare qualità del teatro che è "pensare per azioni". Dunque si trattava di individuare alcuni dei dati emersi nel corso del convegno, e di sottoporli a un "trattamento" teatrale. Lingua del corpo, lingua della memoria, lingua delle radici, lingua dello spaesamento, lingua del fare...: cosa diventa "questa" definizione, ciascuna delle definizioni proposte, alla luce del lavoro teatrale, quali conseguenze, o trasformazioni, comporta un simile approccio.
Usare il teatro per vedere: vedere in azione alcuni principi, strutture di relazione, forme compositive o attitudini emotive, vedere e conoscere, per suggerire la forma più coerente alla elaborazione teatrale dei temi e delle storie nei quali tali principi, strutture, attitudini sono attivi, fuori dal teatro.
Un lavoro circolare, si potrebbe dire, dove l'oggetto d'indagine diventa strumento per la sua elaborazione formale, e viceversa; circolare, ma non vizioso, perché tutto passa attraverso un attento lavoro di pulizia dello sguardo e messa a punto degli strumenti.
Almeno nelle intenzioni, e nella metodologia di lavoro.
Questo per me significava continuare, attivamente, le riflessioni di quei giorni. Con una ulteriore specificazione: che mi sarebbe piaciuto continuare qui, cioè in Friuli, questo lavoro, e possibilmente con persone del posto.
Così, quando Angela Felice e Mario Brandolin mi hanno proposto una formula più corposa con la quale partecipare al convegno in programma per il 2000, ho proposto un laboratorio di scrittura drammaturgica, avevo un tema molto ampio e un'immagine - titolo molto precisa. L'immagine era: Lingua materna (da Hannah Arendt , ma c'era anche la lingua succhiata col latte materno, di dantesca memoria) e il tema era: la memoria di lingue perdute, superate, dimenticate, sognate... e la loro efficacia nel nostro "parlare" quotidiano. In definitiva, non si è mai capito bene se il titolo, fra laboratorio e relazione al convegno, fosse La lingua materna o La lingua e il presente della memoria.
Va bene così, nella mia ricostruzione uno è diventato titolo e l'altro sottotitolo, o meglio: titolo e movimento.
A proposito di ricostruzione: devo ringraziare Anna Gubiani, mia allieva a Milano, prima che partecipante al laboratorio di Udine, i cui appunti mi hanno permesso di ripercorrere le diverse fasi di lavoro.
L'altra indicazione per il laboratorio era quella relativa ai partecipanti: mi sarebbe piaciuto lavorare con attori della regione.
Il motivo si dovrebbe dedurre dalle premesse; in più, quando lavoro "lontano da casa", mi piace pensare che il luogo che mi accoglie non sia solo una sede produttiva, ma anche un terreno di relazioni umane intrecciate in un preciso territorio geografico e culturale.
Attori, dicevo, e non aspiranti scrittori; per molte ragioni , ma soprattutto perché nei miei laboratori i partecipanti, più che destinatari o fruitori, vengono invitati all'azione come i veri portatori ("veri", relativamente alla concretezza dell'incontro in questione) dell'esperienza da indagare, e soprattutto come i referenti, o meglio, i depositari, i veri detentori degli strumenti di lavoro: lavoro sottoposto poi a una formalizzazione su principi drammaturgici.
Un laboratorio di drammaturgia
Oggi sono numerose e piuttosto differenziate le esperienze di laboratori
di scrittura: dico di scrittura e non di drammaturgia, perché a prevalere sono indubbiamente i corsi o laboratori di scrittura creativa.
Scrittura creativa: narratologia, racconto di sé, educazione all'osservazione, strutture compositive, generi, riscritture....
Scritture per la scena e per il cinema: soggetto, trattamento, dialogo, sceneggiatura, monologo, narrazione, conflitto, plot, strutture e funzioni drammatiche, meccanismi; come si legge e come si declina un racconto per la rappresentazione, l'adattamento e la riduzione, il montaggio, e ancora esercizi, strutture compositive, generi e riscritture...
Laboratori teatrali, corsi, seminari, workshop.
Prevale, genericamente, l'idea di una pedagogia artigianale, dove si impara facendo, a metà fra il tirocinio di bottega e la simulazione d'opera.
Poi il laboratorio diventa anche sinonimo di processo produttivo, un processo nel quale si esplorano progressivamente strumenti e ipotesi di formalizzazione, ma si conoscono anche le attitudini e le competenze di singoli partecipanti.
Nella sua dimensione d'arte il laboratorio è un luogo di ricerca "protetto" rispetto alle esigenze di produzione, dove il lavoro su un oggetto è contemporaneamente, lavoro su di sé ed esplorazione dell'oggetto, l'oggetto diventa strumento per il lavoro su di sé , e il lavoro su di sé è strumento per la messa a fuoco dell'oggetto.
Quando dico lavoro su di sé, l'intendo nell'accezione "competente" del termine, un sé competente, in questo caso si tratta di competenza teatrale, già definita o da costruire, ma sempre quello che mi interessa, in questo processo artigianale, è il "soggetto artigianale".
Un laboratorio teatrale, dunque, è un luogo, una situazione, dove si trasmettono tecniche, in genere da "maestro" ad allievo, si simulano processi creativi e modalità produttive, si esplorano potenzialità del gruppo di lavoro e del tema concordato, si fa esperienza di relazione e composizione, dentro una forma teatrale. Nella mia pratica, la domanda di fondo che percorre l'esperienza dei laboratori è il rapporto fra lavoro d'attore e scrittura drammaturgica. Si tratta di un percorso pedagogico e di ricerca formale basato sullo scambio di saperi (in particolare le diverse maniere di intendere - e nominare - le varie fasi, funzioni e strumenti nel processo di formazione, interpretazione e creazione teatrale) e l'individuazione di nuclei di ricerca che accomunano drammaturgia d'attore e composizione scenica.
Problemi terminologici: lingue teatrali a confronto
Quando si fa un laboratorio con attori, o si trasmettono esercizi e regole, o si fa esperienza, dentro esercizi e regole, di una particolare poetica; oppure si creano e declinano esercizi e tecniche in base alla qualità e finalità del gruppo e alle domande del tema affrontato. In ogni caso ci si confronta con il problema del linguaggio, o, più semplicemente, della terminologia: ogni scuola, ogni pratica scenica, ogni poetica sviluppa un proprio linguaggio e - aldilà della fisiologia del corpo dell'attore e delle funzioni riconosciute della letteratura drammatica, - le "discipline" della pratica scenica, la maniera di individuare e "lavorare" le diverse fasi del processo creativo, dalla formazione all'interpretazione, dalla composizione alla esecuzione, sono sempre il risultato della sintesi o sovrapposizione fra campi d'azione e sfere di significato diversi. Sono sempre almeno due i territori che si toccano e si compenetrano nel nominare lo specifico "fare scenico": composizione e comportamento, partitura fisica e precorso emotivo, personaggio e attore...struttura e invenzione, metrica e respiro, fisiologia e retorica, segno e impulso, sintomo e intenzioni, voce e figura....
A volte è il linguaggio registico a improntare il lavoro dell'attore, a volte le scuole, con le loro materie e discipline, in ogni caso ogni poetica comporta una propria articolazione tecnica o almeno un linguaggio tecnico. Così accade che diventi molto difficile intendersi con precisione su compiti e strumenti, quando si lavora con attori di diversa formazione, soprattutto se si cerca la precisione nel dettaglio, come territorio di confronto e conoscenza. Sulla interpretazione - sui risultati - c'è un'evidenza radiante che restituisce il percorso, ma dove c'è una difficoltà, la voglia di costruire assieme, di creare testo scenico o verbale organico, senza appiattire le diversità, allora, in mancanza di una precisa codificazione del linguaggio teatrale, il lavoro sul dettaglio diventa palestra di attenzione, percezione e consapevolezza, anche linguistica, del proprio fare. E' la necessità di formalizzazione che impone di precisare il linguaggio e con esso la padronanza degli strumenti del lavoro.
Che cosa stai facendo, mentre "lavori" un testo, quando improvvisi? Come si fa a consegnare ad un altro un compito dato, come esplorare e controllare le strutture compositive? Quando devi correggere, rifare un'azione, dentro uno un preciso sviluppo narrativo, o una rigorosa logica fisica, cosa tieni fermo, cosa modifichi, e questo, che conseguenze porta?
Domande enormi, nelle quali rischiamo di perderci, ma che si possono esplorare, e conoscere nella loro complessa articolazione, dentro un piccolo dettaglio narrativo, un esercizio, una relazione dinamica.
Dunque, iniziando, si dovrebbe dire: un laboratorio di drammaturgia con attori e non per attori.
(Fra gli iscritti al laboratorio di Udine, undici sono attori e attrici di diversa formazione e pratica, due provengono da scuole di scrittura (teatrale
e narrativa); una partecipante proviene dall'esperienza di traduzione, una dall'area dell'animazione teatrale. C'è poi uno studente liceale, fresco di impegni teatrali, e un giovane autore. Continueranno l'esperienza, da gennaio a maggio, 10 partecipanti: otto fra attori e attrici e le due "allieve drammaturghe".)
In particolare, nel corso degli anni mi si sono presentati e messi a fuoco alcuni nuclei di lavoro che ritengo fecondi, anche in questo particolare incontro di lavoro. Penso al rapporto fra sviluppo narrativo e logica delle conseguenze, nell'azione scenica; alla complessa articolazione del soggetto d'azione fra personaggio, figura, emblema.
Vorrei che riflettessimo, nel solco della lingua materna, sul rapporto fra autobiografia e rappresentazione. Drammaturgia dell'esperienza, con questa immagine sono iniziate le mie esplorazioni nel campo della scrittura teatrale: ecco, l'immagine e il suo ruolo nel sistema delle presenze. Esperienza dello sguardo e scrittura.
Così, in uno schizzo un po' scarno e perentorio, i dati essenziali della mia introduzione al corso e ai corsisti.
Da questo momento dovranno lavorare loro, a me il compito di suggerire immagini e mettere a fuoco processi e proposte.
Domande (banali) e punti di vista per avvicinarsi al tema
Partiamo dall'osservazione teatrale, cerchiamo esempi di teatro 'in lingua', teatro in vernacolo, in dialetto, teatro in prosa, teatro di poesia. Ciascuno provi, dall'esempio, a ricavare le caratteristiche del teatro (genere?) in questione.
Quando e dove, in quali occasioni, abbiamo visto questi esempi di teatro?
Abbiamo mai usato il dialetto, o il gramelot o una koinè o una lingua inventata, nella nostra attività teatrale, per nostra scelta, per necessità, per scommessa, per convenzione....
E poi, la domanda più banale: abbiamo mai visto uno spettacolo in lingua straniera, abbiamo mai recitato "in lingua straniera".
Quand'è che uno spettacolo è "in lingua straniera"?
- Rispetto al pubblico: quando gli spettatori parlano una lingua diversa dagli attori in scena?
- Rispetto agli attori: quando gli attori in scena parlano una lingua diversa dalla propria? Quando parlano una lingua diversa da quella dei personaggi?
- Rispetto all'autore: quando si parla in scena una lingua che non è quella originale dell'autore, e della sua opera? Cioè, quando l'opera è tradotta?
Domande banali, che accompagnate da esempi semplici, ai limiti dell'aneddoto, portano allo scenario del teatro come costante esercizio di traduzione, o comunque di incrocio di linguaggi.
In questa accezione l'interprete è, anche sulla scena, colui che traduce: diverso in questo dall'esecutore che realizza una partitura e dal performer che decontestualizza o ricontestualizza azioni e paesaggi quotidiani, diverso anche dall'attore "santo" di grotowskiana memoria, che compie un atto di verità radicando i segni di una vicenda esemplare, poetica e umana, nella struttura elementare dell'organicità.
Da un linguaggio all'altro, l'interprete cerca il segno più "proprio"(personale e pertinente) per esprimere, tradurre, rendere visibile ( comprensibile) un'esperienza.
La traduzione fisica ( di un'emozione, di un'intenzione, di una vicenda) è sulla scena il banco di prova della competenza dell'interprete.
A volte è come se l'attore parlasse due lingue simultaneamente, una col corpo e una con le parole: più le due lingue si allontanano e più abbiamo la sensazione dell'inadeguato, dell'esotico, o dello sperimentalismo fine a se stesso. A farne le spese, oltre all'attore, è il testo: pensiamo a tante realizzazioni di teatro in versi, così lontano, a volte, perché così inopportunamente affidato al solo esercizio verbale, come se parola e passo non muovessero dallo stesso corpo, dalla stessa qualità di respiro..... Come se la lingua potesse essere viva senza portare traccia di esperienze sensibili, di un rapporto fisico con il mondo delle azioni, delle attività e delle esperienze.
Da qui, dalla questione della consapevolezza, che si impone attraverso semplici osservazioni da artigiani, nasce il primo parallelismo fra pratica teatrale e riflessione sulla lingua.
La lingua come luogo di esperienza, la lingua come traccia che ci restituisce l'esperienza di un luogo, come memoria di azioni, gesti, legami che ti legano a una comunità di sentimenti e opere, di persone e terre, a un immaginario comune.
Da qui, anche, la necessità per un attore di usare parlare una lingua attraverso la quale attivare memoria, associare, giocare, creare.
Allora la domanda non è più: quand'è che uno spettacolo è in lingua straniera, ma quand'è che un attore è in esilio, quand'è che parliamo la lingua degli esuli.
Da questo primo scambio di impressioni passiamo a una riflessione sui dialetti della scena teatrale.
Il procedimento è lo stesso adottato in precedenza, in questo caso, però, siamo aiutati dalle relazioni del convegno del '99. In particolare, dal mio intervento, riprendo la riflessione su:
- La lingua dell'attore nell'esperienza del terzo teatro
- La lingua delle prime esperienze, quella che ti riporta alle prime esperienze del mondo, la fisicità della lingua come rapporto con il mondo.
- Il dialetto come lingua del piccolo realismo e della facile caratterizzazione comica.
- Il dialetto come nostalgia e ripiegamento verso una dimensione perduta, il dialetto come risposta a un uso "basico" della lingua italiana, il dialetto come aggancio per un parlare "materico", la lingua degli artigiani, del lavoro, delle cose...
- Il dialetto come sperimentazione linguistica , un altro ritmo, un'altra attitudine fisica, un'altra modalità di relazione, rispetto alle convenzioni del teatro di prosa.
Non ci interessa la memoria come nostalgia, ci interessa la memoria come efficacia nel presente, qualcosa che crea delle conseguenze sul tuo agire fisico presente, rispetto agli altri.
Brecht: "Il mondo di oggi può essere descritto agli uomini d'oggi solo a patto che lo si descriva come un mondo che può essere cambiato."
Le parole sono azioni, e in nessun altro luogo questo è evidente come a teatro: hanno delle conseguenze nella realtà e la scena è il luogo in cui è possibile fare esperienza, di questa incessante reciprocità, come in un laboratorio in cui si verifica il rapporto attivo fra
lingua - immagine - memoria - fisicità - azione.
Materiali sul tema
Passiamo alla lettura di alcuni materiali sul tema proposto, materiali come immagini d'arte e di sentimento; improvvisazioni sul tema, si potrebbe dire, da comporre e scomporre, come in un montaggio per analogia.
Ma anche qualche indicazione di metodo, e prese di posizione ideali.
Cominciamo, come già dichiarato, da Hannah Arendt.
(segue citazione da Hannah Arendt, La lingua materna, Mimesis, Milano, 1993)
Nessun commento, semplicemente sottolineiamo alcuni passaggi:
- Una dimensione di pensiero plurale;
- La creatività amputata, nell'impossibilità di usare la lingua materna;
- Non ci sono alternative alla lingua materna;
- L'agnizione passa attraverso la lingua.
Procediamo con Heiner Mueller.
(segue citazione da Filottete di Heiner Mueller, in Teatro, Ubulibri,
Milano, 1984)
Anche in questo caso, rileggiamo alcuni passaggi:
- la lingua del fare, con cui dare compiti agli altri;
- la lingua odiata, volontà di cancellare il suono del tradimento;
- da chissà quanto tempo non la sentivo ....
- l'identità è nella relazione;
- la solitudine è l'essere costretti a sentire solo la propria voce;
- "Vivi, poiché hai una voce", la vita si misura in parole, finché parli resti in vita (Sherazade);
- la vita si consuma in parole. "hai ancora tre parole da dire: dille!"
- strappare la voce è uccidere;
- la lingua come luogo dell'identità e della menzogna.
Un pensiero a Jean Genet.
"Scrivendo, lei non si rivolge agli altri?
Mai. Probabilmente non ci sono riuscito, ma è il mio atteggiamento nei confronti della lingua francese, che ho voluto forgiare nella forma più bella possibile, il resto mi era del tutto indifferente.
La lingua che conosce meglio o la lingua francese?
La lingua che conoscevo meglio, sì, evidentemente, ma anche la lingua francese, perché è quella nella quale sono stato condannato. I tribunali mi hanno condannato parlando francese.
E lei voleva rispondere a un grado superiore?
Perfettamente. Ci sono forse delle motivazioni più sotterranee, ma in definitiva intervengono poco, almeno così credo."
(Jean Genet, Conversazione con Hubert Fichte, Ubulibri, Milano, 1987)
Identità, diversità, menzogna: un saggio, da tutt'altro territorio Vandana Shiva e le monocolture mentali e ambientali.
"Conservare la diversità è prima di tutto produrre alternative, ovvero tenere in vita forme alternative di produzione. Salvaguardare i semi nativi è meglio che garantire le materie prime all'industria della biotecnologia. I semi ora in via di estinzione portano con sé i semi di un altro modo di pensare la natura, e di produrre per le nostre necessità."
(...)
"La diversità è un'alternativa alla monocultura, all'omogeneità e all'uniformità. La diversità vivente della natura corrisponde alla diversità vitale delle colture, e la diversità è fonte di ricchezze e di alternative".
(Vandana Shiva, Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino, 1995)
Fin qui, il primo blocco di materiali tematici, seguito da qualche indicazione di metodo, meglio dire di orientamento, nella ricerca del materiale.
Cerchiamo esempi di "lingua materna" (dialetti?) in una dimensione alternativa e non nostalgica.
Ricordiamo "i semi" di Vandana Shiva. Conservazione e custodia di una possibile alternativa;
Che cosa porta con sé un emigrante?
- Elementi del corredo, materia e strumenti per preparare il cibo, strumenti musicali.
- La conservazione di rituali come momento di elaborazione (o distruzione) della memoria.
Un'ultima indicazione: lo spazio.
Non c'è azione teatrale efficace se non c'è consapevolezza dello spazio di relazione in cui ci si muove; non c'è pensiero teatrale se non sei permeabile allo spazio in cui ti trovi.
Oggi il riferimento allo spazio è particolarmente importante, soprattutto se lo mettiamo in relazione ai "non luoghi" del nostro agire: il non luogo esiste solo in ragione delle sue regole, anche l'orientamento non aiuta, il comportamento è normato, omologato alla funzione dei luoghi.
Sono luoghi che non raccontano più nulla, aldilà della funzione conosciuta. E' importante ritrovare elementi di orientamento, sistemi di riferimento e durata, se vogliamo aprire la memoria alla possibilità del racconto.
Luoghi della durata e luoghi dello sradicamento.
Ecco il Congiurato Renaud, che pensa alla conquista subdola di Venezia, in Simone Weil.
"Bisogna che questa notte e domani la gente di qui senta che non è più che un giocattolo, si senta perduta. Bisogna che la terra le manchi sotto i piedi, subitamente e per sempre, che non possa ritrovare equilibrio se non nell'obbedirvi. (...)Bisogna che domani essi non sappiano più dove sono, non riconoscano più nulla intorno a sé, non si riconoscano più. (...) Bisogna che tutta la loro vita sia mutata, la loro vita d'ogni giorno. Che sentano ogni giorno che non sono più a casa loro ma in casa d'altri, alla mercé d'altri; solo così obbediranno senza effusione di sangue. Altrimenti, si rassegnerebbero ad aver tutto perduto in una notte? Sarà bene che molte chiese, molti affreschi siano distrutti; sorgeranno al loro posto chiese di stile spagnolo. Vedendo senza tregua ciò che odiano, persino quando cercano Dio, si conosceranno fatti per obbedire. Bisognerà proibire assolutamente i loro canti, i loro spettacoli, le loro feste. Si invieranno i loro pittori e i loro musici alla corte di Madrid, ove saranno stimati. Bisogna che le genti di qui si sentano straniere in patria. Sradicare i popoli conquistati, è sempre stata e sempre sarà la politica dei conquistatori. Bisogna uccidere la città fino al punto che i cittadini sentano che un'insurrezione, anche fortunata, non potrebbe risuscitarla; allora si sottomettono. Le vostre volontà le vostre fantasie, i vostri sogni, debbono essere ormai per loro l'unica realtà. Voi sarete uno di quegli uomini di cui i popoli sono costretti a vivere il sogno."
"Il vincitore vive il proprio sogno, il vinto vive il sogno altrui."
(Simone Weil, Venezia Salva, Adelphi, Milano 1987)
Ed ecco il Canto alla durata di Peter Handke
"Singolare è il sentimento della durata
anche alla vista di certe piccole cose
quanto meno appariscenti, tanto più toccanti:
un cucchiaio
che mi ha accompagnato in tutti i traslochi,
un asciugamano
appeso nelle stanze da bagno più diverse,
la teiera e la sedia di vimini
per anni lasciata in cantina
o accantonata da qualche parte
e ora finalmente di nuovo al suo posto,
un altro, in verità, diverso da quello originario
e tuttavia al suo posto.
E infine:
Felice chiunque abbia i propri luoghi della durata!
Egli, anche se venisse portato lontano
Senza prospettive di ritorno nel suo mondo
Non sarà più un esule. (...)
Resta vero:
La durata non è un'esperienza collettiva.
Essa non forma un popolo.
E tuttavia nello stato di grazia della durata
Finalmente non sono più io solo."
(Peter Handke, Canto alla durata, Einaudi, Torino, 1985)
Prime indicazioni di lavoro
"La cosa che più mi interessa al mondo è il processo creativo. Che razza di mistero è questo che fa sì che il semplice desiderio di raccontare storie si trasformi in una passione tale che un essere umano è capace di morirne, di morire di fame o di freddo o di quel che sia pur di fare una cosa che non si può né vedere né toccare, e che in fin dei conti, in realtà, non serve a nulla...". (Gabriel Garcia Marquez, Come si scrive un racconto, Giunti, Firenze 1997)
Prima indicazione: Pensare a un luogo in cui collocare un'esperienza di "lingua materna".
Seconda indicazione drammaturgica: con cosa fare reagire il tema scelto?
Dato un tema, indagarlo, approfondirlo in due direzioni: materiali testuali, memoria personale.
Cercare materiale aperto: immagini, pagine, situazioni che mi parlano del tema, e usarle per farle parlare.
Trasferire sempre le proprie emozioni in un "correlativo oggettivo", individuare un particolare da cui riconoscere un a condizione, non siamo noi l'oggetto del nostro racconto!!!!
Terza indicazione: creare una situazione in cui il nostro tema entri in relazione (conflitto?) con un'altra storia.
Dobbiamo usare delle immagini che non ci mangino, fidarci, ma non accontentarci; chiediamoci perché un'immagine ci parla, che cosa è che mi parla, perché?
Esempio dell'ombrello da G.G.Marquez.
"L'altro giorno, sfogliando un numero della rivista "Life", ho visto una foto enorme, una foto del funerale di Hirohito. In essa appare la nuova imperatrice, la sposa di Akihito. Piove. Sullo sfondo, fuori fuoco, si vedono le guardie con gli impermeabili bianchi e, ancora più indietro, la folla con gli ombrelli, i giornali e dei teli sulla testa. Al centro della foto, in secondo piano, c'è l'imperatrice, sola, molto magra, completamente vestita di nero, con un velo nero e un ombrello nero. Ho visto quella foto meravigliosa e ho capito subito che lì dentro c'era una storia. Una storia che naturalmente non era quella della morte dell'imperatore, quella che raccontava la fotografia, ma un'altra: una storia di mezz'ora. Quest'idea mi è entrata in testa come un tarlo. Ho eliminato lo sfondo, ho completamente scartato le guardie vestite di bianco, la gente...Per un attimo ho fissato solo l'immagine dell'imperatrice sotto la pioggia, ma ho subito scartato anche quella. A quel punto non restava che l'ombrello: sono assolutamente convinto che in quell'ombrello c'è una storia."
(Gabriel Garcia Marquez, cit.)
Immagine, memoria, emozione: l'inizio di un viaggio
"Mia nonna è morta molti anni fa. Io l'amavo moltissimo , la mia educazione fino all'età di sei anni era toccata in gran parte a lei dato che mia madre lavorava. C'erano scarse, o nessuna somiglianza tra me e mia nonna, anche se naturalmente lei mi ha dato un po' delle ossa e del sangue che ho, e le nostre mani si somigliavano un po'. Non molto tempo fa mi è caduto lo sguardo su una vecchia scarpa, del tutto logora, che aveva preso la forma del mio piede, e lì ho visto la forma, o l'espressione, del piede di mia nonna, come me lo ricordavo nelle pantofole da casa, o nelle scarpe di vernice nera coi tacchi bassi, che di solito portava per uscire. Mi sono ricordata di quando, a diciassette anni, in visita da mia nonna nel Texas durante una vacanza prima di cominciare l'università, ero andata con lei al cinema a vedere "Sogno di una notte di mezza estate". (...) Mi sono ricordata la presa ben salda di mia nonna sul mio braccio, mentre raggiungevamo i nostri posti, e il suo tastare il terreno a ogni passo con i piedi, benché io l'avvisassi quando c'era un gradino. (....)E' stato quando ho visto quella vecchia scarpa vent'anni dopo, che ho versato le prime vere lacrime per mia nonna, che mi sono resa conto per la prima volta della sua morte, della sua lunga vita, della sua assenza ora, e anche della mia morte che verrà. E' a partire da emozioni di questo tipo che si scrivono dei buoni racconti, anche se io non ne ho mai scritto uno su questo episodio."
(Patricia Highsmith, Come si scrive un giallo, minimum fax, Roma 1998)
Il frammento si accontenta, il lavoro consiste nell'individuare (e rendere visibile) il legame fra diversi frammenti, per fare questo è bene entrare nelle cose attraverso un altro punto di vista, sempre, però mantenendo la consapevolezza del proprio percorso.
Mantenere la consapevolezza del proprio percorso: perché lo spettatore riconosca un gesto, bisogna che prima il dramaturg e l'attore l'abbiano riconosciuto.
Fondamentale è la fisicità dell'attore: ogni passaggio che noi nominiamo, è possibile capirlo, e realizzarlo, pensando per azioni, teatralmente, col corpo ....
Fare reagire i materiali, cambiare punto di vista.
"Alcune idee non si sviluppano mai per partenogenesi, ci vuole una seconda idea per metterle in moto. (...) Un altro racconto che per vedere la luce ha avuto bisogno di due germi di storia, è stato "The Terrapin", un racconto che ha vinto il Premio Mystery Writers of America, ed è stato poi pubblicato in antologia. Il primo spunto era una storia che mi aveva raccontato un' amica, a proposito di una sua conoscente.(......) "Una vedova, artista di successo, tiranneggia e assilla il figlio decenne, gli fa indossare vestiti troppo infantili, lo costringe ad ammirare le proprie creazioni artistiche, insomma lo sta trasformando in un tormentato nevrotico". Era una storia interessante (anche mia madre è un'artista affermata, ma non somiglia a quella madre), e mi è rimasta in testa per circa un anno, anche se non ho mai avuto l'impulso di scriverla. Poi una sera, in casa di qualcuno, mentre sfogliavo un libro di cucina, ho visto l'orripilante ricetta di uno stufato di tartaruga. La ricetta per la zuppa di tartaruga era appena meno macabra; ci si metteva al lavoro aspettando che la tartaruga tirasse fuori la testa per colpirla con un coltello affilato. I lettori convinti che i gialli comincino a diventare insipidi farebbero bene a consultare alcuni brani relativi ai nostri amici pennuti, o in guscio; una casalinga deve avere un cuore di pietra per leggere quelle ricette, per non parlare poi del realizzarle. Il metodo per uccidere una tartaruga d'acqua consisteva nel bollirla viva. La parola uccidere non veniva usata, non serviva: chi può sopravvivere all'acqua bollente?
Appena finito mi tornò in mente la storia del ragazzino tiranneggiato. Avrei imperniato il racconto su una tartaruga d'acqua: la madre porta a casa la tartaruga per farne uno stufato, una tartaruga che all'inizio il bambino ritiene destinata a lui, un animaletto per tenergli compagnia. Il bambino racconta della tartaruga a un compagno di scuola, cerca così di guadagnarne la stima, e promette di mostrargliela. Poi assiste all'uccisione della tartaruga nell'acqua bollente, e tutto l'odio e il rancore accumulati contro la madre esplodono. La uccide durante la notte, con lo stesso coltello da cucina da lei usato per la tartaruga."
(Patricia Highsmith, cit.)
Due elementi: la precisione delle parole, l'intreccio delle idee.
Anche un'indicazione ...tematica, a me care: la cucina è per eccellenza arte della trasformazione, proprio come il racconto e il racconto teatrale, soprattutto....
Immaginiamo due situazioni, due titoli per cominciare a lavorare:
L'assassinio di Natale;
Il cappone di Natale.
Proviamo anche, da questi esempi, prima di addentrarci nei primi "compiti" a dare indicazioni per costruire "situazioni".
La situazione
Per parlare di una situazione, abbiamo bisogno di uno spazio-tempo che contempli una precisa qualità (o tipologia) di relazioni.
La sala d'attesa, per esempio (quante volte l'abbiamo incontrata nei nostri laboratori !?) è una "situazione" che determina precise relazioni, modalità di dialoghi, attitudini e comportamenti, azioni determinate, un riconoscibile e ricorrente rapporto con lo spazio e il tempo, quale che sia l'attesa in questione.
Così La prigionia: anche qui, azioni e relazioni ricorrenti, in una precisa dimensione spazio-temporale. Misurare lo spazio, misurare il tempo, ripetizione e ritualizzazione, gli appuntamenti con l'esterno, l'attenzione ai particolari...
Dal nucleo possiamo cominciare a lavorare su personaggi, ma per poterlo fare bisogna creare una situazione nella quale "metterli in azione".
Possiamo dire che quella del teatro è sempre una scrittura seconda: come fare perché altri vedano quello che tu hai visto, ascoltino le parole che hanno parlato a te.
Per fare questo, la domanda di base è sempre: che cosa ho visto, che cosa ho sentito? O, più semplicemente, che cosa voglio dire? Non necessariamente ciò che voglio dire corrisponde al racconto diretto della cosa in questione.
Riconoscere la cosa che voglio dire
Fidarsi.
Trovare la forma per restituire la cosa che voglio dire, il che spesso significa: per conoscere veramente la cosa che voglio restituire. Per questo diventa tanto importante che la struttura della rappresentazione non si modelli sullo sviluppo del plot.
Cominciare a individuare i personaggi, mettiamoli in relazione nella situazione data.
Ma ricordiamoci è sempre: che cosa voglio raccontare? E soprattutto: che cosa sto raccontando?
Ecco, noi che cosa vogliamo raccontare, raccontarci, in questi giorni di lavoro, sulla lingua materna o le lingue e il presente della memoria?
Come mettere assieme materiali e tema, farli interagire, trasformarli?
Compiti
Compiti: portare una pagina, un'immagine, un ricordo in cui sia presente, evidente, una nostra esperienza di "lingua materna".
Scrivere su questa esperienza, possibilmente in terza persona, un racconto "teatrale", con precisi appoggi fisici.
Da qui i primi elaborati e le progressive puntualizzazioni drammaturgiche.
Si procede in maniera molto scolastica, e se vogliamo, poco gratificante: un ricordo, mezz'ora per fissarlo sulla carta in un "racconto teatrale". Dalla lettura dei racconti, l'individuazione di alcuni nuclei drammaturgici , con relative costanti (regole?)
Siamo qui per lavorare, cioè cercare soluzioni drammaturgiche per le nostre immagine, i nostri ricordi le nostre idee: raccontare e non raccontarsi. Il racconto viene subito trasposto in terza persona, l'attenzione si sposta sul luogo e le azioni . Dunque, uno spazio fisico, una situazione, personaggi, poche azioni precise e - forse - l'indicazione di possibili dialoghi.
Una indicazione metodologica, per quanto concerne questo diario di lavoro.
Dei 15 partecipanti alla prima settimana di lavoro, solo nove - per motivi diversi - hanno proseguito il lavoro negli incontri successivi, uno si è aggiunto dalla seconda fase: il loro percorso è affidato alla loro documentazione e riflessione personale, dentro la quale figurano anche le progressive indicazioni drammaturgiche, così come sono state recepite, non come sono state date. (Tranne qualche mia precisazione, segnalata nel testo).
Di seguito ho raccolto i primi soggetti proposti dai partecipanti e l'indicazione dei materiali narrativi e documentari associati ai racconti personali. I testi veri e propri saranno riportati nei percorsi personali dei partecipanti. Qualche indicazione di materiale è andata perduta: vuoi perché mai utilizzata, vuoi perché la memoria non ha saputo ricostruirne la collocazione.
Alessandro Un bambino sente nominare la Divina Commedia dalla madre. Chiede cosa sia, la madre gli recita le terzine iniziali. Molti anni più tardi, sui banchi di scuola, quel bambino non saprà riconoscere, nella lettura della prof di italiano, la musica misteriosa che tanto l'aveva rapito nel racconto dell'infanzia...........
Se questo è un uomo, di Primo Levi: la traduzione del canto di Ulisse per i compagni di prigionia.
Angela Filastrocche, canti e fiabe: accanto a tanta ricchezza, i giochi erano sempre in lingua. L'italiano come lingua del gioco.
Anna Un padre e una figlia non riescono a parlare italiano fra loro, ma solo
friulano. Se devono parlare italiano devono usare la terza persona, "altrimenti ci viene da ridere"
Il rapporto strettissimo con il cibo, la cucina, le uova, lo zucchero, gli ortaggi....
P. Neruda, Ode al Carciofo
La leggenda Carnica dell'uomo con la terra nelle scarpe: un uomo viene processato perché fa legna nei boschi degli altri. "Io sono sulla mia terra", si difende l'accusato, togliendosi le scarpe in tribunale e versando la terra che in esse tiene.* (nota Vedi indicazione bibliografica nel percorso di Anna Gubiani)
Carlo Alla stazione di Udine, sbarca col treno una signora che non riesce a comunicare in friulano. Cerca di parlare in spagnolo con i militari, che sono meridionali.
Da Conversazioni in Sicilia, di Elio Vittorini: Messina e le arance....
Fabiano Conoscenza di un altro modo di parlare la mia lingua. Mio fratello faceva il bagno in Tagliamento e mi portava con lui. Dall'altra parte i ragazzi parlavano in casarsese. Per me quei ragazzi storpiavano il mio dialetto.
Mio padre era emigrante in Lussemburgo e quando andava a trovare i suoi amici, in case dense di fumo e di sapor di grappa, per me parlavano un'altra lingua.
Ho lavorato a Milano all'Elfo con un altro friulano. Fra noi parlavamo friulano, e se qualcuno ci rimproverava, noi rispondevamo : "scusate, ma sarebbe innaturale".
Giorgio Ho imparato il friulano a 19 anni. Prima lo consideravo la lingua dei contadini. A Tor Viscosa, dove vivevo, la lingua corrispondeva alla tipologia delle case e dei loro abitanti: case di operai, impiegati, dirigenti.
Luisa La lingua materna come quella dei giochi, in particolare una filastrocca e alcune canzoni legate ai giochi.
Qualcuno torna, ma non vuole riascoltare la lingua del passato.
Manuel A Marano Lagunare si parlava veneto, quando si giocava a calcio, i bambini, per insultarsi dicevano: "Testa de godolo".
Manuela A Pinarella di Cervia, in vacanza, c'erano dei tedeschi che parlavano tedesco con una bimba. Lei non capiva, ma soprattutto non capiva perché, loro che erano grandi, non la capivano.
Marcela Una immagine e tre sapori.
Il Kip, un cibo arabo: mia madre è libanese.
La pasta: mia madre ogni domenica faceva la pasta per mio padre, italiano.
L'impanada, il piatto argentino con il quale sono cresciuta.
Il mondiale del '78 in Argentina, quando l'Argentina perse mio padre festeggiava racchiuso in camera.
Massimo La sofferenza di non possedere la "lingua madre". Sono stato in Argentina e ho incontrato figli di emigranti che parlavano friulano, confondendo le lingue: parrucchiere per loro era spagnolo, usavano al suo posto: pelucheria.
La perdita del vecchio mercato ortofrutticolo di Udine.
Ornella Mio padre, quando ero piccola, mi raccontava l'Odissea e ogni tanto ci metteva delle frasi nel suo dialetto, il mantovano.
In giro per l'Italia meridionale, in Aspromonte ci siamo perduti e abbiamo chiesto informazioni a un vecchio signore. Lui ce le ha date, ma noi non capivamo quello che diceva, l'unica cosa chiara era dritto, o gdritto, gdritto....
Rita La mia lingua madre è l'italiano; era per me motivo di vergogna, il modo con cui mia madre mi appellava: "ammamma", cos' come l,'uso del passato remoto, che definiva la provenienza dei miei genitori.
Sandra In vacanza a Lignano Sabbiadoro una bambina vuole giocare con i bambini tedeschi. In particolare le piace un bambino: "Come ti chiami?", vuole chiedergli. Le spiegano che si dice:"Vi hais du?" E il padre, per aiutarmi: "Pensa a 'Cosa ga tu' oppure: 'se a tu'
Veronica Mia nonna in cucina preparava gli gnocchi, e mi spiegava come fare in un italiano imposto, costruito sulla televisione e le canzoni.
Sui "ricordi" si individuano dei titoli e alcune regole (terza persona, dal presente al passato, forme dialogiche per racconti teatrali).
I titoli
Che cosa sono i titoli?
Un modo per oggettivare la situazione ricordata, staccando l'immagine del ricordo dalla nostalgia e dal sentimento soggettivo. Il titolo può essere consegnato ad un altro, e così può essere sviluppato su un diverso registro emotivo.
Attenzione: il titolo non è un tema, ma piuttosto una immagine, la visione di una situazione, così come l'abbiamo colta nella nostra esperienza.
Il titolo è diverso dal tema: fissa una circostanza concreta, stacca la situazione dal sentimento della situazione, o isola il sentimento in una precisa percezione spazio temporale, può funzionare per contrapposizione rispetto all'episodio evocato, o per analogia.
Sentiamo come è diverso dire: "l'attesa" e "in coda", "un caffè lungo un'ora", "venti minuti fra sconosciuti"....ogni titolo fissa un momento particolare e sposta leggermente il punto di vista , imponendo una ulteriore analisi del fatto dato, ma anche una relazione analogica più sorprendente..
Sui titoli, ciascun partecipante è invitato a trovare, per associazione, una pagina letteraria, una immagine pittorica o fotografica. Si procede per associazione, ma anche per approfondimento progressivo degli elementi o della struttura attraverso i quali una immagine ci parla. Esemplare, in questa fase, la vignetta di Quino portata da Marcela. Una frontiera, un militare una donna con un bambini. Stessa vignetta, dialoghi diversi a raccontare scene di storie diverse....
Titoli
La lingua delle case
Mangiare a casa degli altri
Il presente della memoria
La ricetta
Altri meridionali
Lo spostamento obbligato
Diritto...
Come ti chiami?
Case dense di fumo e di sapore di grappa
Al mercato
Scusate, ma sarebbe innaturale
Giochiamo?
Le unghie della mamma....
La terra senza lingua...
Camminare in cerca dell'acqua...
La terra nelle scarpe
Su questi titoli si può associare, combinare, approfondire e cercare di fondere percorsi diversi.
Al lavoro
Altro elemento forte e ricorrente: l'ambientazione, il motivo spaziale: la stazione, la piazza del mercato, il condominio, la cucina, il campo di calcio, il fiume-confine....
Si potrebbe pensare a un montaggio delle situazioni proposte, in diversi luoghi della città, in diverse stanze di uno stesso condominio...
A questo punto, nel sollecitare la messa a punto dei "racconti teatrali" bisogna introdurre compiti specifici sulle azioni.
In realtà, da questo momento, ogni considerazione viene proposta in relazione al materiale prodotto, alle proposte di sviluppo e contaminazione. Qualche considerazione assume carattere più generale.
Bisogna pilotare chi ci segue (ascolta o guarda) attraverso azioni precise.
Bisogna creare una situazione.
Situazione fisica concreta e plausibile entro la quale sia giustificato uno spostamento, che, per esempio, permetta di vedere qualcosa che prima non potevo o non dovevo vedere. E' bene avere un tracciato lineare in cui si introduca una variante, entri una devianza, così si giustifica l'azione ed possibile raccontare una storia.
La "devianza"non è il movente psicologico, è il motore fisico dell'azione.
Distinguere fra plot e tessitura drammaturgia.
Chiedersi sempre, qual è la cosa alla quale non posso rinunciare?
E continuamente verificare: che cosa ho fatto fino ad ora? Che cosa sto raccontando, di fatto? (Anche senza volerlo...) Che cosa voglio raccontare?
Le azioni
La qualità del teatro è quella di scrivere per azioni, ricordiamo Aristotele:
"La tragedia è mimesi di azioni e non di personaggi....L'azione è il passaggio dalla felicità alla infelicità o viceversa,.... è un mutamento di stato...."
Azione teatrale, questa la sollecitazione: si realizza quando si produce cambiamento, quando variano i rapporti spazio temporali sulla scena, la posizione del personaggio e la sua condizione.
Testualmente ritroviamo l'azione in un verbo transitivo, c'è un mutamento sia nell'oggetto dell'azione, sia, anche se meno evidente, in chi la compie.
C'è un inizio e una fine dell'azione, un tempo e una durata. Possiamo dunque lavorare sulla durata, dell'azione e sul suo ritmo. Durata e ritmo sono in grado di mutare la nostra percezione di una stessa azione, sia in rapporto alla sua funzione narrativa, che in rapporto alla sua funzione espressiva: si pensi all'accelerazione delle comiche o al ralenti del sogno e della agnizione tragica....
Da qui la ripetizione e il rituale.
Dobbiamo cercare, nei testi che scegliamo e produciamo, una grammatica e una sintassi dell'azione teatrale. Scarnificare la struttura di un testo attraverso le azioni in esso presenti.
Azioni fisiche evidenti, azioni narrative, azioni che si desumono dallo sviluppo della vicenda.
In questa fase dobbiamo farci aiutare dalla pratica del lavoro scenico. Pensiamo, per esempio al problema delle azioni intransitive e riflessive: molto spesso bisogna cercare un correlativo per l'azione fisica: arrossire, coprirsi il volto, abbassare lo sguardo...cambiare argomento...
Individuare nella aggettivazione, il risultato di un'azione o il suo presupposto: il pio Enea; pio in virtù di quali azioni? Pio, dunque le sue azioni saranno.... E il suo modo di compierle, sarà.....
Dunque possiamo partire dalle azioni, per individuare i personaggi.
I personaggi
Comincia così l'indagine sui personaggi proposti dai partecipanti.
Vediamone alcuni, con possibili situazioni comuni.
Un bambino che si addormenta accompagnato dal racconto della mamma.
Una bambina che ascolta il racconto del padre.
Una bambina che incalza il racconto della nonna.
Una bambina che impara le ricette della nonna.
Una figlia e un padre che scherzano, parlando un loro idioma.
Un figlio che accompagna il padre in visita agli amici.
Due fratelli lungo il fiume.
Due sorelle giocano alle signore.
Una nonna che conosce le vecchie ricette.
Una nonna cattiva, che parla una lingua tutta sua.
Una donna e la sua cucina.
Un uomo al mercato.
Bambini che giocano a pallone.
Un emigrante e la partita di calcio.
La bambina che mangia a casa dei vicini.
La moglie dell'impiegato.
La moglie dell'operaio.
I loro figli.
Ragazzi che parlano lingue diverse.
Militari, lontano da casa.
Attori in tournée.
Ragazzi in viaggio.
Emigranti.
Guardie di frontiera.
Una donna con le unghie nella terra.
Un uomo con la terra nelle scarpe.
Molti di questi personaggi crediamo di conoscerli, alcuni li riconosciamo, certamente; altri, addirittura, siamo noi.
Ma come possiamo "lavorare" teatralmente questi personaggi, senza cadere negli stereotipi e nella facile psicologia di genere, o, peggio nella viscerale autorappresentazione?
Già nel modo di nominarli, come si vede dall'elenco, ci si allontana dalla definizione di personaggio, per avvicinarci di più alla dimensione delle "figure", ma di
questo si parlerà più avanti, se il lavoro procederà.
Torniamo ai personaggi. Quali azioni compiono, come parlano?
Una donna non risponde mai alla domanda dei suoi interlocutori: mai all'ultima domanda, in una successione di battute riprende la penultima o la terzultima frase del suo antagonista... sempre fuori tempo, sempre indiretta, eppure raccoglie tutte le domande. Parla al presente quando gli altri parlano al passato, al futuro quando gli altri sono al presente, al passato, mentre contempla il presente...
E' il suo modo di parlare a connotarla: non guarda nella stessa direzione in cui guardano gli altri, fisicamente e spiritualmente. E' Cassandra? È una pazza, è una veggente, è una cassandra?
Ogni linguaggio comporta conseguenze precise nella relazione con la realtà di altri personaggi, conseguenze precisa nella logica delle azioni fisiche e della funzione narrativa.
Cercare la struttura elementare delle "cose" lavorate ci aiuta, perché così noi siamo legati a dati concreti, a compiti o limiti o appoggi fisici, e non a giudizi, a tesi astratte o ideologiche. Nelle varianti del mito si vedono personaggi che vivono vicende (anche vite) diverse ma sono riconoscibili come lo stesso personaggio.
Stabilire identificazioni o attualizzazioni sulla base di giudizi o pregiudizi significa bloccare le possibilità del personaggio: per operare trasposizioni o slittamenti da una vicenda a un altra, da una storia bisogna andare più in alto, verso la funzione, se vogliamo, l'archetipo, o più in basso, verso la struttura fisica elementare. Su queste si può costruire in libertà, ma con gli strumenti giusti.
Nel costruire un personaggio chiediamoci:
che gesti compie, qual è il suo vocabolario fisico e gestuale;
che parole può usare, qual è il suo lessico, la sua grammatica, la sua sintassi... in quali forme si presenta... Anche i personaggi noti, possono così riservarci delle sorprese. Cerchiamo poi le sue azioni, spesso corrispondono a compiti del testo, agli snodi dello vicenda narrativa o allo sviluppo dell'intreccio.
Non dobbiamo concentrarci sul giudizio o sul risultato (effetto), ma sui fatti.
Cerchiamoli: qual è l'azione che muove questa scena, che determina lo sviluppo di questa pagina, individuiamo il fatto, nominiamolo. Rinominiamo le situazioni: perché questa scena, come nominarla?
Ogni personaggio ha un vocabolario fisico e gestuale preciso, che consente di identificarlo e di prefigurarne le azioni.
Un altro modo di pensare o cogliere le azioni, è attraverso il ritmo:
dare importanza al movimento nel tempo, lavorare sui riflessi temporali delle azioni.
I racconti
Dopo le brevi puntualizzazioni sui personaggi, torniamo ai racconti. Si precisano le associazioni con immagini o pagine letterarie, e anche possibili intrecci di luoghi o situazioni, si formulano nuovi scenari, con titoli che si avvicinano più alla identificazione di temi.
Al mercato.
In cucina con la nonna.
Un incontro di calcio.
Emigranti.
Tornare a casa.
Io sono sulla mia terra.
Camminare cercando l'acqua.
La pelucheria.
Spostarsi.
Alcune di queste situazioni o circostanze, diventeranno poi temi nella progressiva messa a fuoco del nostro lavoro.
Per il momento si tratta di precisare i racconti: dalla prima alla terza persona, precisare la situazione, costruire un dialogo, individuare un ambiente.
E contemporaneamente si tratta di individuare dei luoghi, spaziali o logici nei quali sviluppare intrecci fra racconti "analoghi"
Da questa prima proposta emerge l'individuazione di uno spazio che avrà poi grande rilievo nel prosieguo del lavoro: il confine.
Il confine a indicare a segnare il passaggio, nello spostamento di persone e parole.
Spostamento nello spazio e nel tempo...
Sul traghetto, al bar, a casa: la musicalità di una lingua sconosciuta.
Il cibo e il nutrimento.
Il cibo e il sapore.
Sapori di emancipazione.
Spostamento e spaesamento.
La traduzione: da un luogo all'altro, da un tempo all'altro.
La lingua associata all'esperienza: il gusto, l'esplorazione, il ritmo e l'apprendimento.
In cucina la nonna detta una ricetta, la maestra corregge...
Una nonna con una bimba in braccio sulla sedia a dondolo, il ritmo è diverso: compito dell'azione, arrivare allo stesso ritmo.
Altro elemento importante: scegliere il genere, nel quale raccontare: la fiaba, l'inchiesta, il monologo, l'atto unico....
Si arriva così al convegno: il nostro lavoro viene presentato all'interno delle giornate dedicate alle "generazioni". *
Che fare?
Con la relazione al convegno, considero terminato il laboratorio, in che senso?
Siamo partiti da una suggestione forte e da una fidata pratica teatrale, abbiamo cercato materiali per nutrirle, cercato modi per nutrirci e intrecciare relazioni dentro una forma teatrale. Ci siamo scambiati materiali e li abbiamo fatti reagire con strumenti teatrali. A ciascuno trovare la sua maniera di coltivare i semi del laboratorio.
Nel corso del convegno viene anche fissato un appuntamento con tutti i partecipanti per definire le possibilità di proseguire, assieme, il lavoro. Cosa significa proseguire un laboratorio di drammaturgia, con attori, non in funzione di uno spettacolo, ma della messa a punto di un percorso pedagogico, eventualmente di progetti individuali?
Il desiderio fin qui espresso è quello di un esito teatrale, ma l'esito non può essere, nella mia visione delle "circostanze date", una produzione spettacolare.Andare verso una produzione significherebbe scegliere un soggetto e proporre la realizzazione di un testo, opera drammatica o scrittura scenica, previa l'individuazione di precise funzioni drammaturgiche e registiche.
Questa è la questione di base che riguarda, appunto la definizione del laboratorio: produrre testo, stabilire relazioni testuali, mettere a fuoco il punto di vista attorale verso la drammaturgia, drammaturgia d'attore, non dentro un testo dato, ma verso un testo da costruire.
A queste domande si uniscono le disponibilità, non solo di tempo ma di interesse dei partecipanti.
Alla fine si decide di proseguire, con un gruppo di dieci partecipanti.
Si fissano tre appuntamenti, a gennaio, marzo e maggio, per mettere a fuoco le singole proposte di lavoro e definire i possibili sviluppi tematici e formali.
Dei singoli percorsi- e produzione- danno conto i contributi individuali, nella seconda parte della pubblicazione. All'interno dei singoli percorsi, ciascuno ha dato conto degli interventi e delle indicazioni di lavoro utilizzate, quando mi è parso necessario ho integrato, in nota o in corsivo, le indicazioni drammaturgiche.
Sulla base delle proposte dei singoli partecipanti, venivano precisate, di volta in volta, le questioni relative agli strumenti drammaturgici.
Ma, aldilà dei singoli risultati, e della possibilità di un approfondimento metodologico legato alla drammaturgia, quello che mi interessa cogliere in questa ultime pagine è il precisarsi e il trasformarsi dei temi nel confronto dei materiali e delle proposte e, letteralmente, nell'utilizzo delle funzioni drammaturgiche come strumento di conoscenza dei temi e delle immagini che via via affioravano nel nostro percorso collettivo.
Quanto le nostre opinioni e le nostre conoscenze sulla "lingua materna" si sono modificate nel corso del lavoro, e quanto la scelta di questo tema ha giocato nella messa a punto di strumenti teatrali, di strutture compositive e forme creative, per ciascuno di noi?
La forma è un particolare atto di conoscenza, diceva un maestro, Grotowski, dal quale vorrei ancora ricavare indicazioni di lavoro. Mi chiedo quanto la forma teatrale, le forme del teatro, possano aiutare, anche nella dimensione del laboratorio, a sviluppare un pensiero in grado di produrre conoscenza, conoscenza di noi e del nostro presente.
Appunti e domande sparse
Dunque, riprendiamo il laboratorio. Il mio compito, in questa seconda fase, non è quello di fissare una metodologia di lavoro drammaturgico, ma di allenare a capire e pilotare la produzione di immagini, e anche ad approfondire la conoscenza del terreno di coltura di tali immagini - nel nostro caso il teatro- e nel teatro individuare alcuni principi, se non proprio le regole, della loro formalizzazione.
Pensare per azioni, qualità impareggiabile del teatro.
Le affermazioni "generali" che qui sono riportate, devono sempre essere riferite ad un ambito di lavoro teatrale, vedi per esempio quanto detto a proposito della memoria, della logica delle conseguenze, del rapporto fra motivazione e motore fisico dell'azione...
Ma c'è un altro piano, che mi interessa particolarmente sottolineare, a proposito del laboratorio. Ed è quello della trasmissione di un sapere, di uno sguardo, non solo teatrale, ma maturato attraverso il teatro, educato- letteralmente, tirato fuori- attraverso il teatro.
Altra precisazione: gli esempi (narrativi, saggistici, poetici, teatrali, cinematografici) portati, non hanno funzione illustrativa, ma esemplare: se di pedagogia si può parlare è una pedagogia per contagio, il veicolo di tale contagio vorrei fosse la bellezza.
Attenzione, in questo caso gli attori non hanno mai lavorato praticamente alla interpretazione o improvvisazione o azione scenica, ma solo a rendere attiva una
Particolare attitudine percettiva.
L'ultima e fondamentale considerazione: questo è un lavoro collettivo, guidato da me.
Dico collettivo, per indicare una responsabilità reciproca, fra tutti i partecipanti. Una assunzione di responsabilità che è il risvolto "civile" della logica delle conseguenze che mi è stata trasmessa attraverso il lavoro scenico, dalle esperienze con Thierry Salmon e i suoi attori.
Nel nomadismo del teatro, anche nella forme pedagogica dei laboratori, la domanda da non dimenticare è: Che ci faccio qui? Cosa succede se le persone prendono sul serio quello che dico, qui e ora ne tirano le conseguenze e quali conseguenze traggo io dalle loro risposte.
Inevitabilmente una problematica politica si è innestata nei temi, una domanda di senso che si manifesta, prima ancora delle risposte, come tensione etica.
Perché cadere nella facile equivalenza: lingua materna uguale a dialetto, mi ha chiesto un giorno Lea Melandri, già perché?
E quali sono le conseguenze o le premesse di questa equivalenza?
Cosa rappresenta l'istanza della lingua materna nell'esplosione delle "piccole patrie"?
Memoria non può essere solo sguardo rivolto al passato.
Nel nostro lavoro, che si nutre di memoria, bisogna attivare un certo distacco, verso le immagini che essa ci propone, guardarle da fuori, da un altro punto di vista.
Le radici forse non vanno cercate indietro, nel tempo, ma in profondità nel presente.
Cercare un nuovo orientamento, per riprende a parlare, sulla nostra scena.
Immettersi nella precisa condizione fisica che essa presuppone e prenderne consapevolezza: non riprodurre la scena, ma ripercorrerla con il modo e gli strumenti che essa ci indica.
Nei suoni e nel tempo che noi usiamo per legarli prende forma la cosa che diciamo.
Lo spazio aiuta a costruire un movimento e un ritmo, prima ancora dell'ambiente del personaggio, dell'ambientazione drammatica o narrativa.
Come costruire una storia, come raccontarla.
Si può costruire un'azione e una sequenza sulla scia del personaggio.
A lui si riporta la credibilità, coerenza o verosimiglianza dello sviluppo narrativo.
Attraverso la sua biografia si creano le possibilità di intreccio e gli imprevisti o incidenti rispetto a un percorso dato: imprevisti, ma possibili, una sorta di Dna del suo destino.
L'irrinunciabile identità di persone, dentro la storia.
L'attore-autore deve sempre avere, come da manuale:
a) la prospettiva della storia
b) la prospettiva del personaggio.
Si possono avere esattamente gli stessi fatti E RACCONTARE UN'ALTRA STORIA A SECONDA DELLA PROSPETTIVA DEI DIVERSI PERSONAGGI.
Bisogna definire gli impulsi dei personaggi: movente della storia e motore fisico dei personaggi non sempre coincidono, narrativamente.
Un personaggio, racconta Marquez, perde la corriera (decide di perdere la corriera), il suo viaggio si interrompe.
Cerca da dormire e bussa alla porta di un'affittacamere.
Gli apre una ragazza, che da tempo aspetta che qualcun la porti via da lì.
Attenti, questa è un'altra storia, dice Marquez ai suoi giovani allievi cineasti, la storia della ragazza...;* (Nota,G.G. Marquez, Cit.) ma teatralmente, sulla scena, l'attore che va ad aprire la porta deve avere una sua storia, una sua motivazione, altrimenti manca l'impulso per aprirla. Ah, gli impulsi visibili del teatro....
Dobbiamo sapere "di chi" raccontiamo la storia, se quella di chi bussa o quella di chi apre. Ma teatralmente l'azione della porta implica una doppia motivazione e un duplice impulso fisico.
Che cosa succede al personaggio, non basta a dirci che cosa fa il personaggio, e viceversa.
Il teatro non funziona come l'aritmetica, se cambiamo l'ordine degli addendi, il risultato cambia.
Non possiamo stancarci di chiederci: Che cosa vogliamo raccontare e ancora più spesso: Che cosa stiamo raccontando? A cosa vogliamo - o dobbiamo - restare fedeli nel nostro racconto?
Questo è l'invito anche per i partecipanti: che cosa volete raccontare, come?
L'autonomia del testo.
E' normale che, lavorandolo, il nostro testo ci piaccia meno, perché diventa autonomo, finalmente non siamo più noi che parliamo, ma il testo parla per noi. Bisogna chiedersi su cosa ho lavorato, nella elaborazione, e curare questo particolare.
Bisogna avere molta pazienza.
Un personaggio non può essere lì, solo per permettermi di raccontare la mia storia: o vive o non serve a nulla, e questo vale anche per le situazioni...i personaggi devono vivere di movimento proprio..
Dobbiamo fidarci delle nostre immagini, ma non accontentarci: chiederci che cosa ci parla in questa immagine, di cosa ci parla? Se trasferiamo l'immagine in azione abbiamo buone possibilità che questa sia efficace, per il nostro racconto.
La scelta di brani di altri autori, in un gruppo, aiuta a creare un patrimonio collettivo sviluppando la conoscenza reciproca. In questo modo si evita anche la trappola di parlare sempre e solo di noi, sostituendo ai fatti l'effetto che essi hanno avuto su di noi. Lasciamo che siano le cose a parlare, l'approssimazione sentimentale non aiuta.
A un certo punto, nella produzione di testo, entra in gioco un altro tipo di memoria, la memoria, cioè conoscenza, confidenza, dei nostri testi, dei nostri materiali. Quando lavoriamo con o attraverso un testo, bisogna leggerlo, rileggerlo, analizzarlo, conoscerlo in tutti i suoi particolari. L'approssimazione non aiuta e tantomeno le tesi a proposito del testo. Cosa c'è lì dentro, come è disposto, come si manifesta... più siamo precisi nella conoscenza (memoria) del nostro testo e più siamo liberi nel lavoro. Apriamo bene occhi e orecchi, e la bocca si aprirà.
Noi dobbiamo ascoltare, e guardare, qui nasce la materia della nostra costruzione. Ascoltare negli spazi del testo, nella disposizione delle parole, dalla nostra voce, dalla voce del compagno, in questo spazio, in quello.
Ritorna il motivo spaziale
Quando nominiamo dei luoghi, sappiamo che su questi luoghi si può lavorare.
Quali sono i nostri luoghi, i luoghi dei nostri materiali, ma anche in quali luoghi, in quali spazi possiamo collocare i nostri materiali, dove possono venire in contatto?
Il mercato, la stazione, sono due luoghi-situazione, spazi che hanno in sé precise modalità di relazione, e tipologie d'azione.
Il Tagliamento, il fiume; Torviscosa, la città azienda; la Carnia, l'orizzonte.
Lo spazio della comunanza familiare: la cucina, il cibo; nonni, bambini; genitori, figli; marito, moglie, la televisione, le scale del condominio.
Lo spazio dell'emigrazione, è più un filo tematico che un luogo, dobbiamo trovare un luogo preciso, sempre più preciso, la frontiera, la gerla del cramar...
Personaggio e figura
Esiste una qualità di lavoro sul testo che impone di allontanarci dalla dimensione, pur composita, del personaggio, andando verso una dimensione più ampia del soggetto d'azione, un nucleo fisico e narrativo che chiamo figura.
La figura ci aiuta a staccare il personaggio dalla sua biografia; diventa quindi fondamentale nel lavoro di trasposizione dei testi e nel lavoro di depurazione da ogni proiezione d'attore.
Utilizzando le figure stacchiamo il personaggio dalla zavorra di un giudizio che spesso è pregiudizio, incapace di confronto e trasformazione.
Si tratta di precisare i personaggi, ancorandoli a un tratto fisico o relazionale minuto e concreto, di lavorare su questo tratto, svincolandolo dalla narrazione.
La prima volta che ho lavorato su queste dimensione della figura è stato, su suggerimento di Thierry Salmon, al tempo del lavoro sulle Troiane.
Allora si trattava di dare corpo ai personaggi-figure del coro. In quel caso il procedimento era quello di ricavare da una considerazione che le troiane fanno su di sé. Un immagine fissa, quasi il titolo di un bassorilievo, che fissa per sempre un attitudine all'azione, una potenzialità narrativa.
"Ora non andrò più a prendere acqua allo Scamandro", diventava: La ragazza con la brocca nel fiume.
"Dovrò fare la guardia alla porta d'altri": La donna con le chiavi del vincitore.....
Nella figura cogli il personaggio in opera, lo fissi in un'azione che diventa l'immagine della sua potenzialità narrativa, fuori dalla trama dell'opera.
Ogni figura, nella sua fisicità dinamica, deve contenere un racconto in potenza.
Una volta individuata la figura, dal personaggio, possiamo procedere alla sua precisazione, evondo memoria, gesti, relazioni, non previste dal racconto o dal giudizio iniziale...
A proposito di identità
Man mano che il lavoro procedeva, e i temi si precisavano, e sviluppavano, accanto al tema dello spostamento e del confine, si imponeva il motivo dell'identità.
Abbiamo ripreso alcuni punti dell'inizio, da Vandana Shiva a Gabriel Garcia Marquez, all'"uomo con la terra nelle scarpe": abbiamo letto alcuni racconti di frontiera: racconti d'emigrazione, fissati in un raggelante inventario di cose e azioni, abbiamo ripreso l'indagine sul personaggio, esemplificandolo sui personaggi de Il mercante di Venezia.
"Non ha occhi, un ebreo?
Non ha mani organi statura senso affetti passioni?
Non si nutre anche lui di cibo?
Non sente anche lui le ferite?
Non è soggetto anche lui ai malanni e sanato anche lui dalle medicine; scaldato e gelato anche lui dall'estate e dall'inverno come un cristiano?
Se ci pungete non diamo sangue, noi?
Se ci fate il solletico, non ridiamo?
Se ci avvelenate, non moriamo?"
(William Shakespeare, Il mercante di Venezia, Atto terzo, Traduzione di Cesare Vico Lodovici)
Nelle parole di Shylock il grido di dolore contro il pregiudizio chiama all'appello tutte le facoltà sensibili: il dato fondamentale di identità (e conflitto) viene orientato tutto sul corpo.
"Quando ormai non c'è più niente, asilo della dignità umana rimane il corpo, l'organismo vivo che è come il garante materiale dell'identità dell'individuo, della sua particolarità rispetto al mondo. Quando l'attore getta sul piatto della bilancia la propria intimità, quando scopre senza freni il proprio vissuto incarnato nelle reazioni materiali dell'organismo, quando la sua anima diventa in un certo senso identica alla sua fisiologia (....); allora, in virtù di un ribaltamento paradossale riacquista il pathos."
(Ludwik Flaszen, Dopo l'avanguardia, in Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski, Pontedera 2001)
Cercare una risposta puramente fisica, fisiologica, eppure, proprio per questo, in grado di reggere una trasposizione paradossale: accade anche per l'uomo che ha la terra nelle scarpe e "sta sempre sulla sua terra".
Un'altra osservazione: è strano, degno di indagine, questa accostamento fra il dato puramente fisico e l'uomo nello stato di "recitazione forzata" del tribunale.
Claudio Meldolesi aveva toccato questo argomento nel corso del convegno.
La teatralità di questi personaggi in fondo ci impone di spostare il punto di vista sul nostro tema.
Identità/corpo/costume
Terra/semi/proprietà
Nei nostri racconti i diseredati hanno come unica risorsa la fisicità pura, la materialità essenziale, pietosa nella sua elementarietà, degli oggetti.
Cercare personaggi che rispondano con una precisa fisicità a una affermazione che li nega, alla negazione della loro identità.
La pietà delle cose e degli animali.
Bisogna fare, fare, fare, per sapere come funzionano le cose, con tanta, tanta pazienza, e la percezione vigile.
Corpo di carne
Corpo di terra
Realismo e liturgia
I nostri incontri si chiudono con la visione di un documentario dedicato a Vandana Shiva: il racconto del suo pensiero è modellato, scandito sulla cerimonia dedicata a
Una mitica figura Indù della morte e della rinascita.
Vediamo poi Gli Ultimi di David Maria Turoldo.
La vicenda umana, il lavoro e i riti delle stagioni la liturgia e il racconto cristologico.
La lingua dei vinti e della pietà.
Ci fermiamo alle soglie di una possibile drammaturgia della nascita.
L'urlo del corpo
Un'immagine da Riccione TTV
di Alessandra Giuntoni
Ripensando alle immagini trascorse sugli schermi del TTV Festival, c’è un tema in particolare che mi è parso dominante, un motivo iconico vorrei dire, che nell’affastellarsi delle immagini nella memoria assume la luminosità iridescente di leitmotiv dell’intera rassegna. Immagini di corpi, ora smaterializzati e immillati su bianche superfici digitali a tralucere effetti di pura e inattiva visività, ora oltraggiati e vilipesi nella fitta oscurità di claustrofobiche camere da tortura, l’integrità figurale della persona orrendamente straziata in baconiani studi per crocifissione. Come non ripensare alle figure spettrali, agli attori-geroglifico del teatro filosofico della Socìetas Raffaello Sanzio: la cavità magica della scena ierofanica popolata da “masse carnose”, dalle folgoranti figure “segnate dal Dio”, dai corpi di possenti e arcaici animali portatori anch’essi della scintilla divina, testimoni di un mitico passaggio da “la morte di Dio” alla “nascita della tragedia”. Ancora una volta, la pronunzia del corpo dell’attore al centro della scrittura scenica: sia esso fulgido, glorioso e purissimo corpo, sia esso perduto entro l’oscenità della materia, sprofondato e corrotto nel gravame della carne, impossibilitato ad essere se non nella deiezione.
“Una sensazione di bruciatura acida nelle membra, i muscoli torti e come a nudo, il senso d’essere di vetro e sbriciolabile, una paura, un ritrarsi di fronte al movimento, e il rumore. Un disordine inconsci dell’ambulazione, dei gesti, dei movimenti. Una volontà perennemente tesa per i gesti più semplici, la rinuncia al gesto semplice, una fatica sconvolgente e centrale, una sorta di fatica aspirante”.
(Antonin Artaud, L’Ombilic des limbes)
Nella prima fase della teatrologia artaudiana si assiste alla comparsa della metafora della “bruciatura acida delle membra” e della “vetrosità”, con specifica allusione al punto di sosta del sangue, emblema del soffocamento e del coagulo di qualsiasi flusso vitale o movimento di pensiero. A un’attenta analisi dei testi artaudiani (sulla scorta dell’imprescindibile studio di Artioli/Bartoli, Teatro e corpo glorioso) ci si avvede però che, sotto la categoria del gelo e del ristagno, della pietrificazione del corpo, l’autore de Le théâtre de la cruauté non vuole significare soltanto “il gran freddo” o la persistente siderazione dello spirito in quanto topoi della paralisi e del deserto mentale. Il fuoco che brucia le membra, infatti, e che, ossimoricamente, ha caratteri di freddezza, stasi, sprofondamento in un vuoto che è morte è anche fuoco che calcina e corrode, è forza attivante, elemento che dà la morte e la vita. Nel profilarsi di un doppio statuto dell’elemento carnale, inteso ora come esito di una maledizione, ora come nostalgia verso una mitica età dell’oro, vi è un riferimento costante al momento cosmogonico per eccellenza, all’attimo cioè in cui la vita è un pulsare indifferenziato, agitato da un fuoco febbrile non ancora rappreso. L’elemento che resiste all’esperienza della notte tragica in cui l’io pare sgretolarsi sotto i colpi dell’irrazionale, è proprio la materialità di questo corpo, il suo spessore tangibile, la sua dolorosità cogente. Artaud non ignora che, di fronte all’aridità del pensiero, vi è qualcosa in cui si accende la vertigine della vita universale, qualcosa in grado di eliminare qualsiasi scansione tra soggetto e oggetto. Egli, come Bataille, “sa bene che l’erotismo, come la poesia e l’estasi mistica, fioriscono in quel dominio oscuro dove l’essere, eccedendosi nella dismisura della morte, ritrova il tutto-pieno della vita” (Teatro e corpo glorioso). Come già aveva intuito Nietzsche
“il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso, una guerra ed una pace, un gregge ed un pastore” (Also spracht Zarathustra). Esso possiede una logica propria, una saggezza più vasta di quella appartenente al pensiero, quivi dimora “...un possente sovrano, un saggio ignoto - che si chiama Sé” e che è “superiore alla nostra coscienza, al nostro ‘spirito’, al nostro consapevole pensare, sentire e volere, quanto l’algebra alla tavola pitagorica”. Deleuze, riprendendo la felice intuizione nietzscheana sul carattere parziale e servile della coscienza, definirà il corpo “un campo di forze o di battaglia”, un prodotto “arbitrario” delle forze che lo compongono e che stanno, tra loro, in costante rapporto di tensione. Il corpo in quanto fenomeno molteplice sarebbe, dunque, il composto di una pluralità di forze irriducibili che danno luogo ad una “unità di dominio” (Nietzsche et la philosophie). Di qui il corpo come imponderabile frutto di un caso, meraviglioso coup de dés tirato a sorte dal combinarsi di forze chimiche, biologiche, sociali, politiche a dar luogo alla “cosa più meravigliosa” - “molto più della coscienza e dello spirito”- che l’uomo possieda.
In Artaud l’orrore verso la ferinità dell’elemento erotico, percepito ora come flusso desiderante, ora come Spirito Spossessatore, spinge il giudizio sulla tentazione del sesso a rimanere sospeso nella paralisi del gioco attrazione/repulsione: “c’è uno spirito nella carne pronto come la folgore. Lo scuotimento della carne partecipa della sostanza alta dello spirito” aveva affermato l’autore ne la Position de la chair, lasciando intendere che nel nodo cruciale originario, ove spirito e materia non si distinguono, l’anima sepolta possa finalmente aprirsi un varco per ricongiungersi al divino. E’ un afflato insieme fisico e spirituale quello che interessa Artaud, è la suprema tensione originantesi dal corpo, altrove definita “l’impulsività della carne mistica” (Correspondance de la momie). La messa a morte dell’io, la cessazione della superstizione del principium individuationis sono tutt’uno con l’esperienza della “emozione che restituisce allo spirito il suono sconvolgente della materia”. E, tuttavia, tali mistiche rivelazioni sono in Artaud indissociabili dall’esperienza dell’angoscia, un’angoscia atavica e totalizzante, esemplificata dal pulsare erotico della carne, insinuato nel corpo da Dio per pervertirne la forza originaria. “Sì, la carne pensa”, conclude Artioli: "c’è nel sesso un tremore ispirato che riversa dall’altra parte delle cose un sapore di peccato, di “vero peccato teologale” nelle cui convulsioni s’arroventano gli orrori, le immondezze, le scatologie, i crimini, gli inganni di cui è intessuto il fondo crudele della vita.” (Teatro e corpo glorioso).
In questo dramma di carnale Passione, ove i possibili esiti di rinascita passano attraverso il presagio di membra straziate, nella paralisi che nasconde l’incandescenza ignea del germinare intensivo della vita, mi pare si possa collocare il video Il corpo di Stefano Bisulli, vincitore del Premio Speciale della Giuria al Riccione TTV Festival. Il video, premiato col Sole Blu dai giurati de Festival “per aver saputo fermare fissare in forma video le trasformazioni estreme suggerite da un testo particolarmente ossessivo...”, è stato costruito a partire dallo spettacolo Dovevamo scegliere (e siamo stati scelti) di Fabio Biondi. L’immobilità rovente di cui si diceva è resa, nel video in questione, da una rigidissima costruzione scenica che, eliminando stacchi e cambi di inquadratura a spezzare la tensione montante, crea un effetto di disagio fisico, accresciuto dal ritmo martellante di dizione del testo che non concede sosta all’attore. Costretto su di un letto simil-ospedaliero, l’enorme corpo seminudo si offre impudico e ansimante all’occhio implacabile della telecamera. Il collo è bloccato da una specie di collare che gli serra la gola, la pelle rosso sangue appare sgranata alla ripresa ravvicinata della telecamera; un tremolio gelatinoso tradisce i sussulti della carne straziata; la voce soffiata, impedita al passaggio verso l’esterno dalla postura costretta, narra di un moderno e infelice Minotauro, erede del mitologico mostro che aveva corpo d’uomo e testa di toro, già posto da Dante a simboleggiare “l’ira bestial” nel suo Inferno (Inf. XII, 33).
La leggenda è arcinota: si narra che la regina Pasifae, moglie del re cretese Minosse, s’innamorasse perdutamente di un toro inviatele da Poseidone. Decisa a consumare la sua colpevole passione la giovane donna, su consiglio di Dedalo, si fece costruire una giovenca così perfetta che l’ignaro animale s’ingannò. Dall’accoppiamento contro natura della regina Pasifae (“Nella vacca entra Pasifae / perché ‘l torello a sua lussuria corra”, Purgat. XXVI, 41-42) nacque Minotauro, il dio-toro sposo e figlio della dea madre, signore degli inferi e dell’oscurità. Rinchiuso da Minosse nel celebre Labirinto (simbolo da “esplorare ma non risolvere” secondo la teoria dell’accettazione del karma), l’angelo-demone della civiltà cretese divenne l’emblema della difficoltà dell’essere, del conoscere, del ri-trovare, insomma un mostro pauroso dell’anima, rinnegato e rimosso dalla civiltà razionalista. Il protagonista de Il corpo risulta affatto credibile nel restituire il senso e la pena delle sevizie subite dallo sfortunato dio-toro, sorvegliato e punito dai rappresentanti del Potere costituito. Attraversato da fremiti di ancestrale e indomita animalità, il Minotauro incarna il ritorno dell’uomo allo stadio bruto di un erotismo ctonio e spossessante, cui si addicono le parole di Artaud: “L’uomo, quando non lo si trattiene, è un animale erotico, c’è in lui un tremore ispirato, una specie di pulsazione produttrice di bestie senza numero che sono la forza attribuita dagli antichi popoli terrestri universalmente a dio. Ciò faceva quel che si chiama uno spirito” (Pour en finir avec le jugement de dieu). Se la maledizione della carne è evidente sin dalle prime inquadrature del video (il corpo è una prigione entro cui si dibatte lo spirito indomito; per i seguaci di Mani esso costituiva la “grande calamità”), l’essere mitologico o semidio imprigionato racchiude in sé i due massimi vettori di caduta del corpo dalla sua forza originaria. Per l’ultimo Artaud, Dio ed Eros fatalmente concorrono nel sottrarre l’uomo a se stesso, nell’aberrarlo depotenziandolo attraverso i metodi della martirizzazione. Da questa tragedia dello smembramento, in cui origine divina e bestialità regressiva convivono e si scontrano sino a creare, sul corpo del protagonista, un campo di forze laceranti, si leva un senso di impalpabile pietà, provocata nello spettatore, dal dolore innocente e quasi biologico cui è sottoposta la mostruosa creatura. Nello spalancarsi terrifico della bocca, la libertà dei movimenti negata insieme alle pause fisiologiche del respiro, fuoriesce un profluvio di parole che narra della crudeltà dei familiari, della paura mai superata di antiche e infantili esclusioni. L’espressione del dolore dell’uomo diventa, adesso, la rappresentazione senza speranza di un’agonia individuale e collettiva. Lasciato solo nella stanza-cella a consumarsi nel desiderio, a bruciare nel fuoco onanista che non trova requie, l’osceno mostro si offre quale metafora della brutalità del trattamento inflitto alle vittime di interni manicomiali, quale emblema della moderna repressione sociale verso ciò che è ritenuto deviante o blasfemo.
Il teatro delle interfacce
Focus on Emanuele Quinz
di Anna Maria Monteverdi
Théâtre des interfaces è il titolo di una delle sezioni di Digital performance, il libro curato da Emanuele Quinz e recentemente pubblicato in Francia per conto dell'associazione Anomos. Puntuale ricognizione tra quelle sperimentazioni artistiche della scena internazionale che tentano un'integrazione con i media, Digital performance si presenta come un'antologia molto "variegata" di artisti e autori (critici o teorici) provenienti da ambiti culturali e contesti produttivi piuttosto differenti. Tra gli artisti: Dumb Type, la Socìetas Raffaello Sanzio, Robert Lepage, Stelarc, Giacomo Verde, Roberto Paci Dalò. La prima parte riprende temi dal convegno Nouvelles Interfaces pour la danse (Parigi 2000) e ospita testi di Andrea Menicacci, Flavia Sparacino, Robert Wechsler/Palindrome Inter-Media Performance Group e un'intervista a Scott Delahunta. Si tratta di interventi che espongono le più diverse applicazioni alla danza del sistema motion capture. Il corpo come hyperinstrument, esempi delle sperimentazioni del Medialab del Mit, tra cui Dance space di Flavia Sparacino e Instrumented footwear for interactive dance (interfaccia per suono e movimento) di Joe Paradiso.
Nella seconda parte si parla di interfacce che permettono di estendere la definizione di "ambiente sensibile" alla scena anzi, a tutto il luogo teatrale, poiché le nuove tecnologie dell'interattività modificano sia le modalità di azione del performer che la qualità della visione dello spettatore, estesa ad una condizione di "immersione totale", come chiarisce lo stesso curatore:
"L'environnement n'est pas seulement l'espace qui entoure un sujet, mais tout le complexe de conditions physiques et relationnelles dans lequel le sujet se trouve, agit, se définit. Le spectateur, autant que l'acteur se trouvent à l'intérieur de la nouvelle scène: sujets donc d'un nouvel univer où ils ne se confrontent plus simplement avec des textes, avec des objets ou des systèmes informatiques, mais aussi avec d'autres sujets".
Argomento centrale nel volume, la "scène numérique" i cui esempi sono divisi in base al rapporto con un ambiente reale oppure virtuale (dalle videoambientazioni interattive di Studio Azzurro all'Intelligent stage di Robb Lovell al V. R. Theatre di Mark Reaney e alla sua recente la produzione A Midcyber Night's dream).
Sono proprio le tecnologia dell'interattività, afferma Quinz, a permettere di recuperare l'a(u)r(c)a perduta: l'immediatezza, la trasparenza, la relazione tra scena e platea:
"La perte de l'aura ne se caractérise pas seulement comme une tranformation de l'interprète qui devient un élément parmi les autres de la machine de représentation, mais surtout comme clivage de la co-présence entre acteur et spectateur, comme explosion du “hic et nunc”. Le rapport à la technologie (la caméra, l'ècran) remplace le rapport directe entre acteur et spectateur. A tel point que, comme le souligne Benjamin, la distinction entre eux n'est plus substantielle mais fonctionnelle. La médiation technique s'oppose et empeche l'immèdiateté du corps. Mais avec l'interactivité, cette perspective se renverse: l'oeuvre retrouve une forme d'immédiateté...Immédiateté de l'action, du feedback interactif, de la transparence de l'interface, de la relation corps/environnement, qui n'est pas seulement celle de la scène (de la performance, du théâtre et de la danse) mais aussi celle de la vie".
Un occhio di riguardo, inoltre, è rivolto a quelle esperienze teatrali (definite dallo stesso Quinz dei "classici") di integrazione, scenografica e drammaturgica, con le nuove tecnologie: Robert Lepage, Dumb Type, Barberio Corsetti con Studio Azzurro. Un'incursione anche nel teatro che usa il live cinema (Blue Stories di Paci Dalò) e il web (Connessioni remote di Giacomo Verde ).
In questa seconda sezione, interventi di natura storico-critica: Andrea Balzola (Videodrammaturgie: dal videoteatro/videodanza alla drammaturgia ipermediale in Italia) ricorda le "origini" del videoteatro italiano e traccia una storia dell'evoluzione della scrittura scenica, soffermandosi su alcuni esempi di "drammaturgia ipertestuale", tra cui Storie mandaliche in cui lo stesso Balzola è impegnato nella veste di drammaturgo. In Storie mandaliche (che raccoglie l'eredità del tele racconto) lo spettatore teatrale, collocato dentro il cerchio mandalico, entra dentro la narrazione, nel crocevia di tutte le storie, e nel labirinto della scrittura ipertestuale nella sua forma non lineare e non sequenziale, con le immagini e i suoni in continua trasformazione generati da un software, il Mandala system.
Altri interventi: Robb Lovell (A bluprint for using a reactive performance space), artista, tecnico e studioso di "interactive theatre" espone nel libro le tappe di costruzione di un interactive media environment. Un esempio di reactive performance space è stato da lui creato in Arizona e ha preso il nome di "Intelligence Stage".
E inoltre Franck Bauchard (Théâtre des interfaces), Paolo Atzori (Hypertextual Dramaturgy), Carla Bottiglieri (Conversation avec Romeo Castellucci), Anna Maria Monteverdi (La tecnologia è la reinvenzione del fuoco. Conversazione con Robert Lepage), Keiko Courdy (Dumb Type, un corps interfacé entre signal et noise), Paolo Atzori (Hypertextual dramaturgy), Antonio Pizzo (Drammaturgia procedurale).
6 domande a Emanuele Quinz
1. Dall'Italia alla Francia, una cattedra all'Università di Parigi 8, la creazione dell'associazione Anomos, collaborazioni con artisti sperimentatori e con i massimi esponenti della critica e dell'estetica dei nuovi media, due libri sulle arti sceniche elettroniche e digitali di cui uno interamente dedicato alla danza. Puoi raccontarci il tuo percorso, la tua formazione?
E' il percorso di un nomade: una tensione inquieta mi porta a cambiare continuamente settore. In realtà, quello che mi interessa sono i contatti, gli incroci tra le arti. Cerco quindi ogni volta di partire da un punto di vista diverso: ho studiato composizione al conservatorio, poi mi sono laureato in lettere con una tesi sulla poesia visiva, mi sono occupato di arte contemporanea e di cinema, sto finendo un dottorato in musicologia ed estetica, insegno al dipartimento di danza.
Affascinato dallo spirito "rivoluzionario" delle avanguardie, ho avuto modo di incontrare e di seguire da vicino diverse personalità che mi hanno davvero marcato, come John Cage, Grotowski, Greenaway, Lynch, Stelarc. Anche Anomos nasce da una serie di incontri importanti.
L'avventura di Anomos inizia nel 1995 a Bolzano, quando con Raimondo Falqui decidiamo di creare un quadro istituzionale per le nostre attività di ricerca e di sperimentazione artistica. Nel 1998, insieme al compositore Jacopo Baboni Schilingi e ad Anne-Gaille Balpe, abbiamo fondato la sede parigina, che si occupa più specificamente di arti tecnologiche, con l'obiettivo di riunire un gruppo di artisti e di ricercatori interessati all'impatto delle tecnologie nelle arti. Architetti, musicisti, videoartisti, programmatori hanno cominciato a reagire: prima di tutto, Anomos è un'energia. Immediatamente, abbiamo ricevuto il sostegno di diverse personalità, da Maurice Benayoun e Pierre Lévy (che tra l'altro è stato presidente di Anomos fino al 2000) e di qualche istituzione. Da allora, il gruppo continua a crescere, le attività si moltiplicano, l'energia si propaga.
2. Quale è attualmente la maggiore attività dell'Associazione e quale la sua struttura?
La struttura è una conquista recente. Fino all'anno scorso Anomos funzionava come un collettivo, basato a Parigi, con una rete espansa e internazionale di collaboratori. Ora disponiamo di un ufficio e di due persone che si occupano a tempo pieno della coordinazione e dell’amministrazione. Sempre quest'anno, con Armando Menicacci e e Andrea Davidson abbiamo fondato MediaDanse Lab, un laboratorio che si occupa della ricerca sulle relazioni tra la danza e il digitale, e che nasce dalla collaborazione con il Dipartimento di Danza dell'Università Paris 8. In questo momento, la danza è al centro di molte delle nostre attività, è un settore in enorme fermento. L'équipe di Mediadanse sta lavorando a diversi progetti di ricerca e di consulenza per centri coreografici, compagnie, festival. Inoltre, MediaDanse dirige all'Università Paris 8 otto corsi, sia pratici che teorici: dall'Estetica del digitale alla Videodanza interattiva, dai Software per la danza ai sistemi di Motion Capture.
Parallelamente, Anomos sta sviluppando anche altri settori, in particolare musica, architettura e moda.
In questo momento stiamo concludendo la quinta serie di "Face au Présent", incontri interdisciplinari informali che hanno luogo al Webbar (sempre a Parigi) e prepariamo i prossimi volumi di "Anomalie", la nostra collezione di pubblicazioni tematiche sulle arti digitali.
In settembre, durante il festival Villette Numérique (enorme festival di arti elettroniche che coinvolgerà tutto il parco della Villette), Anomos animerà un Media Lounge, uno spazio di discussione e di sperimentazione, in cui il pubblico potrà incontrare gli artisti presenti alla manifestazione e partecipare a una serie di happening.
Per noi, è molto importante legare la riflessione teorica alla sperimentazione pratica. Alla ricerca e alla creazione poi è necessario aggiungere una dimensione d'informazione e di formazione: abbiamo bisogno di conoscere quello che succede, quello che è successo, per poter aprire nuove prospettive.
Credo che il mondo di quelle che vengono chiamate le arti digitali, sia troppo spesso impigliato in una superficialità e in un'ignoranza pericolosa.
3. La scena digitale. Nuovi media per la danza (Marsilio, 2001) è un coraggioso tentativo di fare ordine nel vasto panorama di produzioni coreografiche tecnologiche che concilia l'aspetto tecnico descrittivo a quello storiografico e teorico. Troviamo interventi di studiosi come Scott Delahunta e di danzatori come Roberto Castello, "tecnoartisti" come Massino "Contrasto" Cittadini con il suo lavoro sul Mandala System. Come ti sei orientato tra produzioni e autori, quale è stato il filo rosso che li ha uniti?
La Scena digitale è un libro engagé, un cantiere. All'origine, il volume doveva limitarsi alla pubblicazione dei cinque interventi di un convegno, realizzato a Bolzano nel 1999. In seguito, molti altri autori ci hanno inviato dei contributi; il fatto è che non esistono pubblicazioni in questo settore, e i diversi ricercatori e coreografi sentono la necessità di fare il punto, di conoscere le altre realtà, di tentare delle sintesi, delle analisi. La selezione si è fatta piuttosto naturalmente, i progetti di danza e tecnologie non sono ancora così numerosi. Il problema è che troppo spesso, la funzione delle tecnologie è semplicemente decorativa. I progetti che ci intessano sono invece quelli in cui gli apporti del digitale creano una nuova scrittura coreografica o drammaturgia, dei nuovi dispositivi scenici, delle nuove relazioni con lo spettatore.
Inoltre, nel volume abbiamo voluto dare spazio ad un'indagine a più voci sulla "scena" italiana. In Italia, c'è un nucleo di artisti e ricercatori, purtroppo spesso ignorato dalle istituzioni e dal pubblico, che sta aprendo delle prospettive davvero promettenti.
In questo momento, con Armando Menicacci, stiamo lavorando alla versione francese del volume, e ci rendiamo conto, due anni dopo, che molte cose sono cambiate. Ma allo stesso tempo, ci appare sempre più chiaro che l'impresa era davvero necessaria.
4. Digital Performance, concepito in tre lingue: italiano, francese e inglese, tratta in maniera sistematica di autori e registi che hanno utilizzato i media in un'ottica di sempre maggiore integrazione con la scena, attraverso le loro stesse testimonianze o descrizioni analitiche dei loro lavori, offrendo un panorama sia "storico" che attuale delle più significative sperimentazioni di interactive theatre e di media enviroment (da Mark Reaney a Robb Lovell) con uno sguardo anche alle tecnologie web. Puoi raccontarci quale era l'intenzione del libro?
L'obiettivo di Digital Performance è di cercare di leggere il presente, secondo due prospettive: da una parte guardando al passato, documentando i percorsi storici importanti che precedono direttamente le esperienze attuali (come le scenografie di Polieri, la stagione del video-teatro italiano, etc.); dall'altra cercando di individuare le direzioni future.
Stelarc, Dumb Type, Robert Lepage, Romeo Castellucci, Barberio Corsetti e Studio Azzurro sono, nel loro campo dei pionieri, sono già divenuti dei "classici". Le loro ricerche sono preziose perché indicano delle strade da seguire, propongono nuove (e riuscite) definizioni dell'opera spettacolare, coreografica o teatrale.
Ma esiste una generazione più giovane di artisti, programmatori e ricercatori, che apre ulteriori vie alla sperimentazione scenica: attraverso le possibilità offerte dalla rete e dalla connessione remota (Verde, Atzori), attraverso l'utilizzo delle Realtà Virtuali (Reaney), del video interattivo (Paci Dalò), attraverso le interfacce integrate e i wearable computers (Palindrome, Saracino, Paradiso), o ancora attraverso l'Intelligenza artificiale (Pizzo).
5. Quanto, secondo te, gli artisti stanno effettivamente contribuendo - e ne hanno consapevolezza - a modificare la percezione-visione del mondo attraverso la lente della tecnologia e a divulgare ed estendere questioni nodali come il concetto di virtuale e di interattività oltre la sfera puramente estetica?
Ci troviamo davanti ad un nuovo orizzonte, ad un territorio inesplorato. L'introduzione di una nuova tecnica o tecnologia provoca sempre una violenta scossa sismica nel sistema delle arti, seguita spesso da altre scosse di assestamento: la creazione artistica cerca di definire nuovi linguaggi. Il digitale, in particolare permette delle forme di convergenza e di dialogo tra i diversi codici artistici, prima considerate come pura utopia. Questa è la dimensione più sotterranea dello scambio interattivo: il dialogo tra i codici (grazie all'isomorfia del "meta-codice" digitale). Allo stesso modo, la dimensione più apparente, quella del dialogo tra sistemi informatici e soggetti umani richiede una riconfigurazione globale delle strutture dell’opera e delle posture dei diversi soggetti implicati.
In ogni caso, non serve a niente ostinarsi ad annunciare il cambiamento (o ancora peggio, denunciare l’ennesimo declino dell'umanesimo, l'ennesima catastrofe), senza approfondire, senza cercare di decifrarlo. Dobbiamo cercare di disegnare la mappa dei nuovi territori. Credo che in questo momento (ma forse è sempre stato così), gli artisti con i loro esperimenti (spesso precari e provvisori) vedano più chiaro che i critici. Sono soprattutto più liberi da pregiudizi. Nella maggior parte dei casi, la critica non è ancora riuscita a sottrarsi a dei modelli analitici inadatti e superati, e rischia di inalare nel pubblico dubbi e inutili rimpianti, paralizzando il grande fermento che anima il mondo della creazione. Altro punto, credo che i critici sottovalutino il pubblico. L'arte interattiva ha delle enormi potenzialità di coinvolgimento, anche estetico e questo il pubblico lo capisce, i critici troppo spesso fanno finta di non accorgersene. Da parte loro, gli artisti devono superare il livello superficiale di un'interattività meccanica e della poetica del gadget, passare da un'estetica reazionale ad un'estetica relazionale.
6. A Firenze poco tempo fa mi parlavi della differenza di impostazione che nel libro si nota dalla "scuola" critica o storico-critica italiana rispetto a quella francese e americana. Quale ti sembra più efficace?
Si tratta di metodologie e quindi di stili diversi. In Digital Performance, i vari saggi critici sono davvero rivelatori di questa diversità: da un lato, gli autori italiani mantengono il loro rigoroso impianto storicistico e direi, filologico; dall'altra i francesi, più leggeri, sfiorano i concetti e avanzano a colpi bruschi d'intuizione; gli americani infine seguono il modello del "paper" scientifico: abstract - che mi sono permesso di eliminare - ipotesi di base, dimostrazione, conclusioni. Forse per riassumere, possiamo dire che gli italiani hanno un approccio storico, i francesi letterario (quasi poetico) e gli americani scientifico. Ma questa è un’analisi superficiale. Quello che è interessante, è verificare quali punti questi approcci privilegiano e forse tentare una mediazione. Da un lato ci rendiamo conto che è necessaria un'indagine storica, capace di esibire le radici nascoste delle pratiche e delle poetiche attuali. E' necessario tracciare una linea che dalle avanguardie storiche porta al contemporaneo (e magari oltre): ciò ci permette di identificare le pulsioni che sono alla base delle configurazioni attuali del sistema delle arti. Ci permette di capire non solo cosa cambia con le tecnologie, ma soprattutto cosa resta, malgrado le tecnologie.
Allo stesso tempo, non bisogna trascurare l'aggiornamento continuo sulle evoluzioni tecnologiche.
E al di là di questo, bisogna evitare che la complessità del contesto e delle ramificazioni convergenti ci impediscano di cogliere l'intuizione poetica degli artisti. In ogni caso, oggi è ancora forse troppo presto per poter giudicare realmente quello che sta succedendo. Per quello che mi riguarda, sono alla ricerca di un equilibrio tra queste diverse esigenze, ma mi rendo conto che sono troppo implicato, sono troppo "dentro".
E' il classico dilemma, chi scrive non vive, chi vive non scrive. In questo momento, preferisco vivere.
Full Play copyright (c) P. Atzori.
London calling
di Veronica Picciafuoco |
Racine per sport
La Fedra del Wooster Group
To You, The Birdie!
(Fedra, adattamento di Paul Schmidt)
diretto da Elizabeth LeCompte
produzione: The Wooster Group
Londra, Riverside Studios
Il Wooster Group è un po’ come una salsa “Wooster” (anche se il nome viene da una via di Manhattan):
un gruppo di artisti provenienti da formazioni differenti, che collaborano ormai dagli inizi degli anni ’70 allo sviluppo
di produzioni teatrali e non, sempre alla ricerca di nuovi mezzi mediatici. Suoni, video e installazioni sperimentali lo hanno reso
un gruppo cult dell’avanguardia.
Il gruppo ha sede al St. Ann’s Warehouse, uno spazio ricavato da un vecchio mulino in un sobborgo di Brooklyn,
38 Water Street.
***
Ce l’ho fatta! All’ultimo momento ho trovato un unico biglietto per assistere al nuovo spettacolo del Wooster Group.
E' stato presentato in occasione del London International Festival of Theatre, presso i
Riverside Studios che come sempre propongono un
programma di spettacoli teatrali e cinematografici innovativi e con nomi di eccezione.
Non conoscevo il Wooster Group, ma nei giorni passati era l’argomento principale di riviste, giornali e passaparola.
I commenti generali, piuttosto contraddittori e talvolta arrabbiati (!), mi hanno convinta del fatto che si dovesse trattare
di qualcosa di molto interessante e, se non altro, bizzarro.
Incamminandomi lungo le rive ovest del Tamigi (Hammersmith), ho incontrato alcuni personaggi che, ho intuito,
si stavano dirigendo verso la mia stessa meta. Erano l’immagine un po’ arrugginita degli anni ’70, con forme un po’
rilasciate ma ancora coperte di colori brillanti, barbe e capelli ribelli che hanno scatenato la mia immaginazione rivestendoli
da capo a piedi di pantaloni a zampe di elefante e magliettine leggiadre. Silenziosa, percepivo il loro entusiasmo di rivedere
qualcosa che in passato era stata una “colonna visiva” della loro esistenza, come Lou Reed e tanti altri ne erano stati la
colonna sonora.
Quando finalmente conquisto il mio scomodissimo posto, ecco la scena: trasparente, ma più la guardo e più gli elementi che
la compongono si mostrano.
Intravedo il corridoio di un ospedale, asettico, con colori non colori, acciai e plexiglass.
A sinistra del palco una sedia a rotelle per incontinenti messa di traverso e parzialmente sospesa.
Un punto rosso, rosso acceso, molto piccolo rispetto all’insieme eppure uno spot che richiama un fiore rosso, rosso
pallido dalla parte opposta; due video sospesi, uno davanti e uno dietro più grande; al di là del palco ci sono due panchine,
il tutto delineato da una cornice sospesa e mobile su rotaie, il ciak si gira, che a ciascuno dei cinque atti viene spostata a suon
di vero e proprio fracasso amplificato. Ma è anche una piscina, ed è allora che noto le maniglie di ferro come quelle per
scendere in acqua senza tuffarsi, a U rovesciata, che si appoggiano qua e là ai bordi della scena (o sponda della piscina)
che i suoni, più tardi, riempiranno del movimento dell'acqua e delle ire di Nettuno. Ora invece la scena si è trasformata in un
campo di badminton, da cui il titolo, che è la traduzione dal francese dell’espressione “à vous, le volant” (o “Tocca a te” dove
lo scambio di battute crea il gioco delle relazioni interpersonali). Spazio immaginario ma assolutamente percepibile grazie alla
precisione dei movimenti dei due giocatori, Ippolito (Ari Fliakos) e Teramene (Scott Shepherd) che nel frattempo sono entrati
in campo e stanno realmente giocando la loro partita e ne hanno definito le traiettorie, la rete e gli angoli. I punti (“Fault!”
con voce meccanica) sono giudicati dall’arbitro, Venere (Fiona Leaning), deus ex-machina della situazione.
Uomini il cui potere è al servizio degli Dei.
Ma che nesso c’è tra Fedra (Kate Valk) e una partita di badminton? Il match ha impostato l’atmosfera di tutto lo spettacolo
stabilendo fin dall’inizio le relazioni tra i personaggi e il loro status. Il gagliardo Ippolito con Teramene, suo compagno di vita
e di giochi, e poi beffardo commentatore; Fedra, allo stremo delle forze che a malapena riesce a reggere la racchetta in mano
e che sembra dover svenire da un momento all’altro e Enone che l’aspetta, la sorregge e la guida.
Dipendente della sua ancella (Sheena See, vincitrice di un oscar con Fargo), Fedra come ogni regina che si rispetti non
alza un dito, ha bisogno di lei per scegliere e mettersi le scarpe, rosse, nere, cambiare il guardaroba e svolgere le sue funzioni
personali. E’ in queste occasioni talvolta umilianti (la nostra Fedra è qui rappresentata come incontinente) che a viva voce
impone la sua autorità con regale antipatia. Ma in realtà spicca la sua dipendenza dall’ancella Enone. Fedra è debole e
facilmente colta da crisi di isteria paralizzante dove perde il suo focus: solo grazie ai suggerimenti di Enone riesce a ritrovare
una direzione e “funzionare”, come un semi-robot.
Questa visione robotica viene rafforzata dall’introduzione, in diverse occasioni, di un ricco uso di video dove i corpi sono divisi
tra immagine sullo schermo e realtà, volutamente scoordinate.
Disordine tecnologico, in realtà regolato con precisa maestria, che divide la realtà dalla finzione, dettagli del passato accostati
a particolari futuristici, come nella scena in cui nel video si proiettano gambe e piedi che si muovono meccanicamente
nell’azione di mettere e togliere diversi paia di scarpe, e Fedra che da dietro esprime e traduce l’insoddisfazione e il senso
di vuoto.
C’è anche un video sospeso che fa da sfondo alla scena dove per tutta la durata dello spettacolo si guarda un film muto
di una giovane con camiciola verde pisello, labbra rosse e capigliatura corvina, che per tutta la durata dello spettacolo
commenta questa partita delle relazioni. Sembra la vetrina di un acquario pieno di pesciolini colorati.
Il tutto è accompagnato da suoni ridicoli, buffi. Ogni battuta durante la partita di badminton corrisponde ai rumori
di un cartone animato, il rumore dell'acqua, i cocci rotti, gli spostamenti in scena dei video con i rumori delle rotaie a tutto volume,
gran fracasso, ma ogni suono perfettamente sincronizzato. Fedra, eccetto in rari casi, non parla ma i suoi pensieri sono doppiati
dalla comica voce di Teramene.
Il testo rivisitato in chiave ironica e l’interpretazione degli attori hanno trasformato Racine in un autore di soap-opera
tecnologiche. (Racine si starà probabilmente ribaltando nella tomba per il paragone. Pare che a un certo punto della sua carriera,
Racine abbia deciso di cambiare il corso della sua vita dopo che la sua Fedra venne riscritta in forma di sonetto).
Lo stile assurdo ma esplicito dei dialoghi del tipo “I vestiti nuovi mi fanno sempre sentire meglio, ma questa volta non bastano,
non funziona…”, o “Come posso governare un paese, quando non riesco neanche a controllare me stessa…”, o “m’ama /
non m’ama” mentre Fedra stacca pezzettini di volano… o quando Ippolito e il suo compagno, che nelle movenze si mettono in
competizione con la plasticità delle statue greche, dimostrano di essere addirittura pensanti e capaci di porsi profondi quesiti
sull’essenza dell’esistenza umana del tipo: “Supponiamo che tua madre non avesse superato gli scrupoli della sua verginità…
dove saresti ora?” (Teramene a Ippolito, durante la partita) o quando Teseo (Allan Defoe) torna dal suo lungo viaggio e riesce
a conferire al suo personaggio l’essenza dell’antico guerriero, la stazza mitica del gigante, mostrando giocando allungando
gonfiando la cassa toracica: osservavo a bocca aperta questi virtuosismi corporei. Muovendosi come un Dio grande, più grande
di tutti noi, lento incedeva sulla scena, e assumendo posizioni statuarie, quasi aspettando che venisse scattata una bella foto
ricordo, asseriva: “Look at this!” (Guarda qua che cosa sono capace di fare, IO!). Teseo il vero macho per cui valeva davvero
la pena aspettare per tutti questi anni.
Schmidt mi sembra che ritragga questi personaggi eroici nella loro semplicità e debolezza, ego e stupidità, laddove comunque
non possono decidere nulla perché tanto saranno sempre soggetti a un potere trascendente. Ma se il testo ha comicamente
alleggerito i contenuti della tragedia, i movimenti influenzati dallo stile di Graham o Merce Cunningham (“Ballet de Lorraine”
al Royal Festival Hall a ottobre), restano teatralmente molto veri
senza mai diventare melodrammatici. Spinti all’estremo dei loro opposti, mostrano lo strazio interiore, i tumulti e le angosce
vissute. Ogni palpitazione filtra lentamente arrivando in superficie, in particolare attraverso il corpo di Fedra che ne diventa
canale conduttore. Mi è parso che si contrapponessero due ritmi diversi, quello verbale della commedia e il ritmo movente
della tragedia.
È proprio il flusso dei movimenti e il silenzio dell’ultimo atto che restituiranno a Fedra la sua dignità tragica.
Guardando questo spettacolo mi sono ricollegata a un articolo di ”ateatro n. 5” dove si commentavano le produzioni
di Lepage “(…) a formare un soffitto riflettente restituisce percettivamente agli spettatori l’impressione di un corpo duplicato
sulla scena avente movimenti uguali ma rovesciati dell’attore stesso steso in terra e impegnato in una danza quasi in assenza
di gravità”. Mi sembra che il Wooster Group manchi della poesia che questo commento ispira, ma sicuramente c’è una forte
similitudine nell’uso della tecnologia.
Non essendo un’interpretazione che rientra nei canoni standard del teatro classico e spiazzando il pubblico più tradizionale,
lo spettacolo è stato criticato. Personalmente, e in accordi con molti altri, ho trovato questa performance spettacolare,
ricca di inventiva, originale e fresca, nonostante l’argomento tragico. Un invito a guardare le situazioni che viviamo anche
da fuori, ogni tanto.
Non emerge necessariamente il leader, l'attore trainante, ma ci si trova a guardare un vero lavoro di insieme.
Si guarda per prima cosa, si ascolta contemporaneamente, si razionalizza un secondo dopo. Ecco che questo dà la possibilità
di godersi le situazioni che per un attimo si arrestano e si imprimono nella memoria.
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