ateatro
numero 3 - 3 marzo 2001
a cura di Oliviero Ponte di
Pino (per ora)
INDICE
Il Teatro di Roma ha (per qualche mese) un nuovo direttore
Organizzare teatro
di Mimma Gallina: in anteprima per "ateatro" l'introduzione del libro che verrà pubblicato da Franco Angeli
ai primi di maggio.
Per una politica della creatività
Una conversazione con Pippo Delbono su Esodo
Glance=Sguardo
(Sull'Orfeo dei Motus)
di Anna Maria Monteverdi
Da Moby Dick al futuro
Che fare? La lettera del Comitato
Si può fare qualcosa per la nuova drammaturgia italiana?
La proposta del Teatro Nuova Edizione al ministro Melandri
Imperdibile: Chi non legge questo libro è un . I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, Milano, 1999. |
Il Teatro di Roma ha (per qualche mese) un nuovo direttore
La crisi del Teatro di Roma, culminata nelle dimissioni del direttore Mario Martone,
ha trovato un provvisorio equilibrio. Fino al dicembre il nuovo direttore è Antonietta Rame, attualmente è Direttore del Dipartimento Programmazione, Produzione e Decentramento. Dunque una soluzione interna, e provvisoria: anche perché il CdA del Teatro scade a settembre,
e sarà rinnovato in un diverso quadro politico-istituzionale.
Il comunicato stampa sottolinea la volontà di nominare "direttori-consulenti" per le diverse sale del Teatro di Roma (Argentina, Ostia, India): di fatto questo significa (oltre alle prebende per queste nuove figure) aumentare i poteri del CdA nei confronti delle direzioni artistiche.
Un'altra curiosità è che al comunicato stampa è allegata una lettera di Maurizio Scaparro (uno dei candidati alla successione di Martone), che presenta il suo "progetto Don Giovanni" (da realizzarsi in Italia, Francia e Spagna) e lo offre generosamente al Teatro di Roma. Il CdA apprezza e ringrazia.
Organizzare teatro
di Mimma Gallina
In anteprima per "ateatro", l'introduzione del libro di Mimma Gallina (che verrà pubblicato da Franco Angeli
ai primi di maggio). In appendice a questo testo, l'indice del volume. Nel sito, una prima versione dell'intervento di Oliviero Ponte di Pino sulle forme del nuovo.
Introduzione
Questo libro nasce dall'esigenza,
derivata tanto dalla pratica professionale che da quella di
insegnamento, di riflettere, analizzare, comunicare le
caratteristiche del sistema teatrale italiano ed i meccanismi
concreti del fare teatro dal punto di vista dell'organizzazione.
E dalla convinzione che sia più sia mai importante, per chi
intende prendere questa strada o per chi già opera nel teatro
italiano, sviluppare l'attitudine al pensiero organizzativo -
nelle grandi e nelle piccole cose, nelle strategie generali come
nelle singole scelte e azioni che le concretizzano - che non
deriva dalla somma di conoscenze tecniche (anche se le richiede),
ma dalla sintesi fra la consapevolezza della realtà generale
in cui si opera, l'analisi e l'intuizione della sua evoluzione, l'interpretazione
della propria, specifica realtà e della sua missione.
Contributi determinanti come l'introduzione di tecniche
gestionali, ormai acquisite o almeno accettate come strumenti con
cui confrontarsi, rischiano di essere astratti e non poter essere
correttamente applicati, perché la cultura degli operatori (già
attivi o da formare) risente spesso di una carenza di fondo: l'assenza
di una conoscenza critica e fattiva dei meccanismi generali e
delle specificità nazionali dell'organizzazione teatrale. Il
teatro italiano è fatto di stratificazioni, consuetudini, atti
mancati, eredità pesanti e presenti con cui è necessario
misurarsi, per capirle, per accettarle o rifiutarle, per
cambiarle. Molti studi hanno affrontato singoli aspetti di questa
tradizione, e alcuni, soprattutto recenti, analizzano le
specificità economiche e forniscono indicazioni gestionali, ma
mi è sembrato che mancasse una riflessione complessiva e
"dall'interno" su questi problemi, e che potesse essere
utile.
Il tema è sviluppato in due direzioni.
- Un'analisi del sistema teatrale italiano come risultato di un
processo storico e come quadro dinamico: con particolare
riferimento alle forme della produzione (dagli Stabili, alle
compagnie, al teatro di ricerca e per i ragazzi), al rapporto con
lo Stato, al tessuto distributivo.
Da questi
ragionamenti emergono gli elementi per affrontare alcune
caratteristiche e questioni di fondo: la dialettica fra il
carattere itinerante, tuttora prevalente, e un controverso ma
progressivo processo di stabilizzazione dell'attività teatrale,
la centralità (la vitalità malgrado tutto) e la crisi della
compagnia come forma produttiva primaria, i rapporti e la
contaminazione di pubblico e privato, l'evoluzione dell'idea di
teatro d'arte e delle funzioni di servizio, il ruolo degli enti
locali in un sistema misto, la questione della ricerca, del nuovo,
dell'area giovane del teatro. Sono problemi che si intrecciano e
che, pur offrendo alcune chiavi di lettura, non mi è sembrato
giusto e possibile schematizzare, lasciando che ciascuno sviluppi
le proprie considerazioni e posizioni. La prima parte di questo
libro offre quindi il quadro in cui si inseriscono le pratiche
descritte più avanti, ma resta intenzionalmente problematica,
e mi auguro stimoli la riflessione: nessuno dei nodi indicati
porta con sé conclusioni e soluzioni acquisite (non sono dati
una volta per tutte, ad esempio, il finanziamento pubblico, il
significato della ricerca o il valore della stabilità) ed è
elemento costitutivo di un fare teatro consapevole, la necessità
di ripensarlo o rifondarlo, o anche di difenderlo (ciascuno in
rapporto alle sue scelte).
- Una descrizione pratica e
sistematica di come si organizza il teatro nel nostro paese oggi
(ma anche in questo approccio il presente è il risultato di un
percorso e di un processo storico). Si analizzano tecniche e
metodi consolidati di una corretta pratica organizzativa, anche
con indicazioni operative quindi, ancorate all'esperienza, così
importante in un lavoro artigianale e antico come il nostro (perché
sono queste le particolarità del teatro di prosa che più
precisamente emergono nell'evoluzione dei settori della
comunicazione e più in particolare dello spettacolo). Come in
ogni buona pratica artigiana, tuttavia, non ci sono ricette: ogni
realtà, ogni spettacolo, ogni progetto è unico, e sta alla
fantasia e creatività del singolo gruppo e operatore applicare,
adattare, inventare, forti della tradizione, dell'esperienza,
della tecnica (questo vale per tutte le professioni del teatro,
incluse quelle organizzative).
Questo secondo percorso
si sviluppa in due parti relativamente autonome, secondo l'articolazione,
classica anche per le attività di spettacolo, in produzione (cui
è dedicata la seconda parte), distribuzione e esercizio (sviluppate
nella terza).
Il ragionamento sulla produzione parte
dall'analisi delle tipologie di impresa e dei meccanismi che
stanno a monte delle scelte artistiche, per arrivare in concreto
all'allestimento (inteso come percorso e come realizzazione
materiale) di uno spettacolo: particolarità e organizzazione
del lavoro, analisi e realizzazione delle diverse componenti,
organizzazione delle prove, per finire con una modalità
operativa sempre più frequente, la coproduzione. Con questa
materia siamo nel cuore del fare teatro, dove è più forte
la convenzione e si avverte con più urgenza la necessità
dell'innovazione. Ritengo che ciascuno debba cercare i propri
modi di produzione, tuttavia, a livello delle pratiche
organizzative, mi sembra che molti valori, tecniche, metodi
vadano conosciuti (non vadano dimenticati), e probabilmente
possano essere valorizzati e usati anche da chi persegue linee
innovative (penso all'organizzazione del lavoro ad esempio, o ad
alcuni vecchi mestieri). Ho compreso meglio, nell'analizzare e
descrivere queste pratiche, che pure conosco bene e non sempre
condivido, la "solidità" di questa tradizione.
Nella seconda parte, l'esercizio teatrale, il luogo dell'incontro
fra attore e spettatore, è analizzato da due punti di vista:
la sala (l'edificio teatrale, la sua specificità tecnica, le
problematiche connesse alla sicurezza) e la sua gestione. Anche
qui, ho voluto sottolineare l'interazione dello specifico
organizzativo con quello artistico, con le linee, i progetti, l'identità
di un teatro: pensiamo alla doppia valenza, artistica e
organizzativa, di un cartellone, ad esempio, o di una proposta di
abbonamento. Una riflessione particolare riguarda i mezzi e i
modi tradizionalmente utilizzati per la promozione e la
distribuzione di uno spettacolo, così importanti nel sistema
italiano, ancora prevalentemente itinerante (il mercato, quindi,
e il lungo percorso per arrivare al pubblico) e la sua gestione
in tournée. Analizzando la particolare modalità
organizzativa e il sistema dei festival, punti di riferimento
qualitativamente e quantitativamente sempre più rilevanti, ci
muoviamo in una dimensione più aperta del teatro, che
approfondiamo con l'analisi dei meccanismi delle relazioni
internazionali. Per concludere si inquadra il problema nodale
della comunicazione: anche in questo caso, conoscere quello che
si fa a livello di ufficio stampa e promozione e valutare le
prospettive aperte dalle nuove tecnologie, è un punto di
partenza per applicare tecniche più innovative e pensare in
termini di marketing.
Questo libro si rivolge
soprattutto ai giovani che si avviano attraverso diversi percorsi
alle professioni organizzative del teatro, o che individuino
nella conoscenza pratica di questo settore un aspetto
significativo della propria formazione (penso ai corsi
universitari dell'area umanistica ed economica, o a master e
corsi professionali orientati, ad esempio, ai beni culturali, al
turismo, allo spettacolo in genere) e ai giovani attori, registi,
tecnici che vogliono capire di più del sistema in cui andranno
ad operare. Ma anche agli operatori già attivi, che potranno
ricavarne, forse, lo stimolo ed il contributo ad una riflessione
non contingente sul sistema teatrale e sui meccanismi del loro
lavoro, per una volta non immediatamente legata a scadenze
normative o urgenze operative. Ma mi auguro che il respiro della
riflessione potrà interessare anche qualche spettatore curioso
del back stage.
Con questo lavoro ho inteso
anche dare sistematicità ai presupposti e ai metodi applicati
dalla Scuola d'Arte Drammatica Paolo Grassi (ex Scuola del
Piccolo Teatro di Milano) che, dalla fine degli anni '60, a
fianco degli attori e dei registi, ha formato organizzatori
teatrali attivi a livelli dirigenziali ed intermedi in tutti i
settori del teatro italiano, nonché nel campo radiotelevisivo
e dell'informazione. Tento una sintesi della linea didattica (ma
potrei dire anche etica) che ha caratterizzato fino ad oggi la
"Paolo Grassi", e che mi sembra non sia invecchiata,
anche se sono mutati i contesti: sulla conoscenza teorica e
pratica del fare teatro in Italia, si innesta la consapevolezza
della funzione pubblica e della dimensione economica del teatro,
presupposto per la formazione di un operatore critico, aperto al
confronto con altri sistemi
Ho cercato di fare il
possibile perché il linguaggio ed il filo dei ragionamenti
restasse sempre ancorato alla concretezza del fare teatro: altri,
opportuni, approfondimenti potranno riguardare e addentrarsi più
correttamente nel marketing o nelle diverse tecniche gestionali,
che qui sono parte di un approccio più globale. L'esperienza
di insegnamento è stata determinante in questa scelta: è
molto frequente che chi sceglie di occuparsi di organizzazione
teatrale lo faccia per passione, abbia una formazione
prevalentemente umanistica e che l'incontro con la pratica non
sia semplice; per contro è difficile a volte per chi ha una
formazione tecnico-economica, cogliere il collegamento di queste
discipline con lo specifico teatrale. Ho pensato a queste due
tipologie di giovani - che conosco - e mi auguro che il metodo ed
il linguaggio adottati, aiutino entrambi a consolidare,
concretizzare e orientare il loro interesse per il teatro.
L'argomento trattato è molto ampio e articolato,
certo non è stato possibile analizzare tutti gli aspetti dell'organizzazione
teatrale, e alcuni sono solo accennati, ma era importante, a mio
avviso, dare un'idea dell'insieme, dell'intreccio di elementi e
della complessità del fare teatro: sono infatti convinta -forse
ancora una volta in collegamento con la dimensione artigianale -
che in teatro tutti debbano essere il più possibile
consapevoli di tutto e che solo su questa consapevolezza si
possono innestare le specializzazioni. Ma questa ampiezza è
stata possibile grazie ad alcune collaborazioni particolarmente
qualificate e appassionate, che ho sollecitato in particolare per
gli aspetti più specialistici e per gli argomenti per cui
ritenevo fondamentale la testimonianza di professionisti
coinvolti in prima persona: si tratta di schede, di interi
capitoli, o del confronto (e del conforto) rispetto a specifiche
materie.
In particolare sugli argomenti più
controversi, non mi è sembrato che si dovesse rincorrere una
impossibile obiettività, ma che fosse utile ascoltare
motivazioni e problemi dall'interno: così è stato per le più
recenti linee di riforma del teatro, la funzione delle compagnie
private, il Sud (in questo caso sulla linea di "cosa si pu\'f2
fare", con l'analisi di un intervento concreto, più che
del lamentare ritardi), anche l'analisi di quelle che abbiamo
chiamato "le forme del nuovo" (senza ritenere con
questo che il nuovo sia solo lì) è criticamente coinvolta.
In ogni caso il coinvolgimento e la passione (una condizione che
forse è inevitabile in teatro) accomuna anche i contributi più
tecnici, e spero sia un po' contagiosa. Spero che questo fattore
comune e l'impostazione unitaria del lavoro, rendano accettabile
(e forse apprezzabile in termini di professionalità), qualche
scarto linguistico-stilistico.
Hanno collaborato i
colleghi del Corso Operatori della Scuola "Paolo Grassi",
coinvolti fin dall'inizio nel progetto, a loro volta attivi in
diversi ambiti professionali e accomunati dall'intendere l'insegnamento
come un'occasione per riflettere sul proprio lavoro e comunicarne
i contenuti: Patrizia Cuoco, Lorella Dall'Ombra, Anna Guri,
Giovanni Soresi, l'addetta stampa Alessandra Arcidiaco, il
direttore Mario Raimondo e Giorgio Guazzotti (maestro indiscusso
del nostro corso e dell'organizzazione teatrale in Italia, cui
devo, anche in questo caso, il confronto su alcuni punti nodali).
E (in ordine alfabetico): Enrico Bellezza, Fioravante Cozzaglio,
Onofrio Cutaia, Francesco Florian, Pierpaolo Forte, Adriano
Gallina, Giuseppe Pizzo, Oliviero Ponte di Pino, Enrico Porreca.
Indice
INTRODUZIONE GENERALE
I PARTE. IL SISTEMA TEATRALE ITALIANO
Introduzione
1) Teatro "all'italiana" e
teatri "all'italiana"
2) Teatro e Stato. Principi
e quadro normativo di Mimma Gallina, Lorenzo Scarpellini e
Pierpaolo Forte
3) Stabili e Stabilità
4)
Le Compagnie: l'interpretazione contemporanea di una
grande tradizione di Fioravante Cozzaglio
5) Le forme
del nuovo di Oliviero Ponte di Pino, Adriano Gallina e Mario
Raimondo
6) Il sistema distributivo di Mimma
Gallina con un contributo di Onofrio Cutaia
II PARTE. PRODURRE TEATRO
con la
collaborazione di Patrizia Cuoco (3,4,5) e Giuseppe Pizzo (4,5)
1) Quale impresa per quale teatro di Enrico
Bellezza e Francesco Florian 2) Prima e oltre lo
spettacolo: la scelta artistica come percorso e come
sintesi
3) In principio era il testo (autori
e diritto d'autore)
4) Il Teatro come lavoro collettivo
5) L'"allestimento"
6) La
coproduzione
III PARTE. GESTIRE,
DISTRIBUIRE, PROMUOVERE
1) L'edificio teatrale: spazi e
sicurezza di Giuseppe Pizzo e Enrico Porreca
2) L'esercizio teatrale: programmazione e gestione
con la collaborazione di Patrizia Cuoco
3)
Arrivare a pubblico: promuovere e distribuire uno
spettacolo
4) I Festival
5) Teatro aperto: confronti e mercati internazionali
6) Comunicare
il teatro di Giovanni Soresi, Anna Guri e Alessandra
Arcidiaco, Lory Dall'Ombra
Per una politica
della creatività
Una conversazione con Pippo Delbono
a cura di Oliviero Ponte di Pino
Questa intervista verrà pubblicata sul prossimo numero di "la porta aperta", la rivista del Teatro di Roma,
in occasione delle repliche romane di Esodo al Teatro Argentina.
Su Pippo Delbono e sul suo teatro, trovi altri materiali sia nel volume Barboni pubblicato da Ubulibri,
sia nel sito, con le interviste realizzate in occasione degli allestimenti
di Guerra
ad Astiteatro e di Her Bijit alla Biennale di Venezia.
Qual è il percorso
che ti ha portato a Esodo? Avevi presentato il materiale
di partenza in Her Bijit, lo spettacolo realizzato a
Venezia, alla Biennale nellautunno del 1999. Che cosa è
successo nel passaggio tra il lavoro presentato allArsenale
e Esodo in palcoscenico?
Si trattava portare quel
mondo sul palcoscenico. Her Bijit aveva una
dimensione itinerante, in cui molto forte era la possibilità di
lavorare su uno spazio per farlo diventare altro. Si è creato un
incontro tra la compagnia, gli zingari, i bambini rom, la
cantante africana e gli extracomunitari che poi sono entrati
nello spettacolo.
Her Bijit è stato
creato allArsenale, dovera in corso la Biennale dArte.
Nel percorso dello spettacolo sincontravano dunque alcune
opere che richiamavano una serie di cose presenti nello
spettacolo.
Per me era uno scivolare
tra cose che erano opere darte e cose che assolutamente non
lo erano. Per esempio a un certo punto gli spettatori passavano
accanto a un distributore di lattine di Coca Cola: non era
sicuramente unopera darte, ma è diventato un segno
forte per lo spettacolo. Altre scene erano fatte negli uffici, unazione
si svolgeva in una nave riadattata, che viene usata come bar dellArsenale.
Per me è stato un lavoro molto importante per quanto riguarda la
relazione allo spazio e la dimensione itinerante: era quasi
portare il pubblico in processione.
Her Bijit era anche
uno spettacolo politicamente molto esplicito, rispetto ad altri
tuoi lavori.
Non ho mai fatto
politica e non ho mai voluto vedere la realtà in termini
ideologici. Essere artisti significa essere trapassati dalla vita
che ti scorre accanto - e senti continuamente violenza e
ingiustizia. Ma in quel un momento avevo bisogno di dire alcune
cose. Forse sono un po masochista, perché mi piace
buttarmi a capofitto nelle situazioni di povertà, e anche di
dolore. E a quel punto avverto un bisogno di chiarezza, il
desiderio di non avere pudore di dire, di superare quella
timidezza un po "da artisti". Non voglio dire
semplicemente: "Questo è bianco, quello è nero",
perché non voglio essere retorico. La parola certe volte è
bella, ma in altri casi diventa una gabbia. Tra le parole che
dicevo a Venezia, era interessante scoprire che alcune fossero di
Pasolini o del Buddha. A un certo punto dico: "Noi non
vogliamo essere salvati, noi non chiediamo la vostra pietà":
sembrava Che Guevara ma era Buddha.
Nel dire le cose così
come sono, senza mediazioni, non corri il rischio di perdere la
dimensione artistica? A quel punto non conviene fare direttamente
politica?
Non sono mai stato un
grande amante del teatro, non mi interessa un certo tipo di
narrazione e di rappresentazione. Le mie passioni sono la
fotografia, la pittura, la musica e anche le parole. E quando
dico "la danza e anche le parole" voglio dire questo:
se faccio un comizio politico e mi metto in cima a una tribuna e
dico "Non dobbiamo fare così!", questo è un comizio.
Se invece in queste parole ci sono dei colori, dei tempi, delle
danze, dei ritmi, delle fotografie, delle immagini, dei suoni,
quelle parole forse sono "politiche", ma in qualche
modo dialogano con tutto il resto.
Con una parte degli
spettatori questa comunicazione diretta passava immediatamente.
Un certo tipo di pubblico preferisce uno spettacolo più chiaro
ed esplicito rispetto a uno più sottilmente metaforico.
Mi hanno scritto molte
lettere: donne, giovani... Per altri spettacoli non ne avevo mai
ricevute così tante. Alcuni critici invece hanno avuto maggiori
perplessità. Mi sono chiesto perché certe persone vogliano
questa chiarezza, che invece ad altre dà fastidio. Secondo me
viviamo in una cultura che ama molto fare metafora sulla guerra,
sulla malattia, sullAids, sulle dittature, sui mali del
mondo. Però questa stessa cultura quei mali non li ha sulla
pelle. Allora secondo me cè il rischio di diventare un po
chic. Perché quando vai nei posti dove la guerra cè
davvero, oppure cè stata, non incontri quella paura di
dire le cose; cè piuttosto la voglia di essere
retoricamente felici, di cercare retoricamente una felicità, una
gioia. Mi sarebbe piaciuto moltissimo andare a fare Her Bijit in
Sudamerica, volevo capire che tipo di reazione potesse avere la
gente di là, o la gente di Sarajevo, insomma persone che hanno
vissuto certe situazioni, un po come è successo quando
abbiamo fatto Esodo a Siena, dove tra gli spettatori cerano
molti argentini che la dittatura lhanno vissuta sulla loro
pelle.
A questo punto è il
caso di seguire il passaggio tra Her Bijit e Esodo.
E successo che Esodo
è diventato uno spettacolo.
Cioè richiuso in un
palcoscenico.
A quel punto è iniziata
ad intervenire più chiaramente una dimensione narrativa. Per me
è sempre più importante che niente sia lasciato al caso, le
cose che avvengono in scena devono essere significative. Non
voglio certo dire: "Con questa immagine ti do questo
messaggio", voglio costruire un dramma con la danza, un
racconto fatto di parole, musica, immagine. In Esodo,
rispetto a Her Bijit, ho avuto la necessità di togliere
molte parole, adesso ce ne sono sempre meno, perché spesso il
racconto passa attraverso le immagini. Alla fine questo porta a
reazioni curiosamente opposte: sono tutti daccordo, in Esodo
ci sono immagini visivamente molto belle, ma per qualcuno le
parole sono state vissute come eccessivamente politiche: "Non
è il caso di dire certe cose, non ne possiamo più di Olocausto,
non ne possiamo più di farci colpevolizzare da Delbono".
Altri invece hanno messo laccento proprio su quelle parole.
Qualcuno ha detto: "Perché dire le parole?", qualcun
altro: "E fondamentale dire certe parole". Per
alcuni spettatori è importantissimo che vengano date anche le
parole, anche parole semplici. Così è possibile portarli per
mano attraverso un percorso che comunque non è facile. E poi mi
chiedo: "Perché cè questa paura di dire? Perché non
vogliamo saperne più di Olocausto?" Credo che per le
casalinghe di Prato o di Ferrara le parole siano fondamentali,
che offrano un momento di riflessione. Allinizio di Esodo
leggo un brano di Brecht: "Torturano i nostri fratelli e noi
non facciamo niente, lui ruggisce dal dolore ma noi rimaniamo in
silenzio, prendono la prossima preda e noi diciamo: a noi non
faranno niente, intanto noi siamo fermi, se lingiustizia
trionfa in città che scoppi la rivolta, se non scoppia che la
città intera sia consumata nel fuoco prima che arrivi la notte..."
Sono parole dure, sicuramente, ma è importante anche il modo in
cui vengono dette. Quel brano di Brecht viene dopo lapparizione
di una attrice in rosso e di un grande applauso: quella donna ha
uneleganza, una qualità, sembra un po persa nel suo
mondo. Il mio è un tono quasi da presentatore. Così si crea un
contrasto interessante. Io non mi metto dalla parte di quello
buono, di quello che sente di aver capito e di avere il diritto
di dire agli altri delle cose. Queste parole le prendo da autori
di cui ho grande rispetto, e direi amore, come Brecht, Pasolini o
Primo Levi. Le parole che scrivo io sono molto più mediate.
Ma da questi autori
scegli brani molto diretti ed espliciti.
Sì, ma queste persone
si sono fatte forza proprio del loro essere così diretti. Il
teatro di Brecht ha avuto forza anche perché è stato così
diretto. Brecht parlava nei suoi testi con grande chiarezza,
viveva in un tempo di lotta. In questo brano di Madre Coraggio
questa chiarezza diventa un luogo di verità. Oggi il famoso
straniamento brechtiano consiste nel provare a superare una
convenzione, rompendo ogni schema teatrale, senza usarlo in una
maniera che è diventata ormai chic. Cè bisogno di
riportare lo straniamento brechtiano alla nostra situazione
attuale, quando tutto - teatro, cinema, televisione, politica -
prende una brutta dimensione di finzione.
Ma dovè che il
teatro può trovare la sua verità e la sua semplicità, in un
mondo dove i media fabbricano continuamente finzione?
A volte nel modo di
essere attore. Sono andato a vedere uno spettacolo di tradizione:
il regista aveva una sua poesia, un suo occhio, però non capivo
quel modo di recitare, oltre al fatto che il pubblico teatrale va
a spettacoli di quel tipo per sentirsi acquietato con la propria
dimensione culturale. Insomma, ammiro tantissimo il fatto che lattore
abbia trovato sette modi diversi, sette piccoli toni, per dire:
"Signorina, apriamo la porta". Ho un grande rispetto
per un lavoro così preciso, però dopo un po mi allontano.
Mi sembra che a lungo andare il lavoro dellattore diventi
solo quello, se tu non hai un tramite diretto con il tuo cuore. E
vero, gli attori che hanno una certa bravura riescono a
superare la tecnica e a comunicare altro ma non sono tanti.
Esodo inizia con un ragazzino, Fadel, che entra in scena e
dice: "Nel mio paese ci sono tante stelle, nel mio paese la
luna è la luce della notte, nel mio paese cè un grande
silenzio...". Per formazione io sto molto attento alla voce,
ho approfondito molto il lavoro sulla voce, dei toni, dei ritmi,
dei suoni delle parole. Se sostituissi al tono di Fadel quello di
un attore, il risultato sarebbe, anche dal punto di vista della
tradizione, pessimo. Uno dei primi trucchi che si insegnano
quando si lavora sulla voce, consiste nel sostituire alle parole
una cantilena...
Perché se dici le
cose così come sono prendi un ritmo molto monotono, e la
tradizione ti insegna in qualche modo a spezzarlo.
E già un segno.
Una scelta. Io avrei potuto mettermi a lavorare in questo modo
con Fadel, ma non lo farei mai, perché nella sua cantilena,
nella semplicità e nellovvietà di questa cantilena
secondo me cè una verità profonda.
Diciamo che è una
qualità che viene dalla naturalezza. Ma non cè il rischio
che a furia di ripeterla questa naturalezza si perda?
Non è naturalezza, è
un altro modo di costruire una professionalità. Sarebbe
naturalezza se Fadel dicesse questo testo così come viene, ma
non credo che in teatro sia interessante la naturalezza. Io non
parlo di naturalezza, è giusto che a un certo punto Fadel fissi
quella cantilena, in modo che rimanga. Quella è la sua cantilena.
A un certo punto lattore prende consapevolezza, diventa
osservatore di sé stesso. Io fisso la qualità dei miei
attori: la qualità della loro voce, dei loro suoni, dei loro
gesti, che siano belli o brutti; poi loro ne diventano coscienti
e allora devono essere in grado di ripetersi. A quel punto la
coscienza di Fadel, pur non essendo un attore, è dettata da
questa qualità: quando entra sulla scena, ha un ritmo, ha un
tempo, ha una pausa, ha uno stop, ha un guardare, ha un colore
della voce che è la sua cantilena, ha un altro stop, ha un
girarsi, un guardare con gli occhi, ha un camminare dentro questi
ruderi con questo zoppichio... Segue un percorso totalmente
consapevole, che può ripetere, e che non si è irrigidito in una
maniera, in uno stile. In questa coscienza sta la professionalità
dei miei attori.
Io credo che questo
lavoro con gli attori abbia a che vedere con la natura del tuo
teatro e con la tua idea di attore. Ma volevo capire meglio.
Quando dici: "Io fisso la qualità", vuol dire
che vai a ricercare delle persone che hanno determinate qualità?
Il tuo compito consiste nellindividuarle, nel rendere gli
interessati consapevoli di questa loro qualità teatrale e nel
fissarla insieme?
E incredibile
scoprire che tutti hanno dentro di sé la possibilità di essere
artisti, un bauletto carico di luce, energia. Il buddismo dice
che ogni persona possiede i dieci mondi, dallinferno alla
buddità. Non bisogna necessariamente venire dal deserto del
Sahara, come Fadel, dal quarantanni di manicomio come Bobò,
dalla strada come Nelson. Magari questo bauletto ci mette molto
ad aprirsi, perché è necessario trovare la strada per far
uscire fuori le specificità di ciascuno.
Quando dici "tutti
noi", intendi qualunque persona, che sia attore o meno?
Questo bauletto ce labbiamo
dentro tutti. Però non posso incontrare tutti quanti per poi
farli recitare.
In effetti, nei tuoi
spettacoli non recita chiunque, i tuoi attori sono persone molto
particolari.
In realtà nellultimo
spettacolo cè stata una grande apertura. Nel Silenzio,
realizzato nellestate del 2000 sulle rovine di Gibellina, cerano
persone che provenivano da storie molto diverse. Tanto per
cominciare i miei attori...
...per esempio Lucia,
Gustavo e Simone, che sono attori con un percorso di formazione
canonico e con una certa esperienza di palcoscenico.
...cerano poi
quelli che lavorano con me da diversi anni, per esempio Bobò,
Nelson o Gianluca.
Dunque in qualche
modo "non attori" nei quali hai scoperto certe qualità...
...e che di fatto sono
ormai diventati dei professionisti, anche se non hanno seguito il
normale training degli attori. Poi cerano quelli che
avevano seguito i nostri seminari e avevano chiesto di venire a
Gibellina per collaborare a questo progetto.
E lultima
categoria?
Era formata da gente che
non avevo mai visto. Loro conoscevano me e i miei spettacoli ma
io non li conoscevo, magari li avevo incontrati per cinque minuti
dopo uno spettacolo.
A queste persone
avevi dei fatto provini?
No, assolutamente, però
erano motivate a lavorare con me. Una o due di loro si sono perse
per strada: forse erano venute in Sicilia sperando di fare un
altro seminario, con lansia di venire a imparare, mentre cera
un clima di gran confusione, di gran gioco. Ma quelli che sono
rimasti alla fine si sono resi disponibili ad aiutare, per
esempio vestire gli attori, occuparsi degli oggetti di scena.
Alla fine li ho messi tutti dentro lo spettacolo, e non per fare
loro un piacere o per dar loro una gratificazione, ma perché
ognuno di loro ha trovato una cosa, magari piccola, che secondo
me cera davvero. E quella piccola cosa era da
professionista. Per esempio cera una ragazza alta, che non
avevo mai vista né conosciuta. A un certo punto nel Silenzio entra,
è un po elegante, vestita di rosso, si sdraia a terra, fa
la morta e se umilmente ne va. Secondo me in quel piccolo gesto
è veramente giusta. Certo, non posso metterla a fare un monologo,
ma nel Silenzio fa quella cosa e in quel momento è
professionale. E cresciuta. E successa la stessa cosa
in Francia, quando ho fatto un seminario per i disoccupati e per
gente che proveniva da situazioni molto marginali. Non erano
attori, ma in ciascuno di loro sono riuscito a trovare qualcosa
in cui erano unici.
Dopo Barboni,
la natura della compagnia è cambiata, al di là del fatto che ci
sono persone in più o in meno?
Siamo più aperti. Sono
ormai lontani i momenti in cui rischiavamo di finire nel filone
"teatro-handicap". Ci siamo aperti a tante esperienze.
Era la mia idea di fondo: un teatro che portasse in scena vite
diverse non solo vite emarginate, ma comunque vite, vite...
E questo è successo: persone come Bobò, Nelson o Gianluca hanno
acquistato una diversa coscienza. Sicuramente gli è cambiata la
vita, non vivono più nei manicomi né per le strade, e questo mi
fa piacere. Ma hanno anche una grande consapevolezza del loro
essere in scena: quando ho visto nelle prove Bobò costruirsi la
partitura del reggae e rifarla, mi sono commosso. Quando lho
conosciuto nel manicomio di Aversa, questo ometto era una larva.
Adesso vederlo lì, nella terza fase del lavoro, è stato
emozionante.
Che cosa vuol dire
"nella terza fase"?
Allinizio
improvvisi ed è divertente. Nella seconda fase devi fissare
quello che hai improvvisato, perché ogni spettacolo è una
costruzione, un montaggio di tante piccole azioni, e le azioni
che io scelgo dalle improvvisazioni lattore poi le deve
fissare, in modo da poterle ripetere sempre uguali. Questa
seconda fase è noiosa, ma se non la superi non arrivi alla terza,
quando allinterno della partitura ritrovi la vita originale,
come quando in una partitura di Bach ritrovi lanima. Bobò
è nella terza fase del lavoro, ha capito questo gioco, come deve
fissarsi le cose, e poi ritrovare la stessa identica vita del
momento in cui aveva improvvisato. Anche il signor Nelson è
diventato di una precisione incredibile.
Esodo è molto
giocato intorno a Nelson.
Nelson passa da figure
comiche come il presentatore che fa da filo conduttore allo
spettacolo, a figure melanconiche, ad anime violente quando grida
con il megafono, o quando vola con questo corpo scheletrito.
Mette in mostra tanti aspetti diversi, e insieme è
incredibilmente preciso sul tempo, sulle pause. Tocca spesso a
lui il compito di tenere le giunture tra una scena e laltra:
ha sempre lo stesso passo, lo stesso modo di muoversi, gli stessi
stop. Sembra che a un certo punto si dica: "Beh, adesso mi
alzo...", e invece si alza sempre nello stesso identico
momento e nello stesso modo, con lenergia di chi ha deciso
di farlo in quel momento. Le sue azioni, pur nella ripetizione,
hanno sempre la stessa intensità di quando le ha fatte per la
prima volta, e in questo cè una grossa sapienza. E
in questo che secondo me Nelson è cresciuto come attore. Ora
posso dire che il mio metodo di lavoro funziona anche con queste
persone. Certo, se pretendessi che di far parlare Nelson con un
tono di un certo tipo, probabilmente sarebbe un attore mediocre,
non ci riuscirebbe. Ma invece, cercando di fare luce sui suoi
toni e sulle sue qualità, cercando di farlo diventare
consapevole di queste sue qualità, che non sono mie imposizioni,
avvengono alcune cose interessanti. Tanto per cominciare,
teatralmente Esodo si è fissato in una partitura sempre
uguale. Certo, come sempre cè la replica che va un po
meglio e quella che va un po peggio, però nellinsieme
lo spettacolo è sempre quello, così come era successo con Guerra,
che ho fatto tantissime volte ed è diventato ormai un rituale
precisissimo. Questo secondo me è quello che è cambiato. Anche
se non siamo certo una compagnia che va al debutto con uno
spettacolo fatto e finito ma neanche lo voglio.
Dopo il debutto i
tuoi spettacoli crescono e continuano a evolvere.
Sì, anche perché
continuiamo a ripresentarli tutti.
E anche una
compagnia di repertorio.
In tre mesi, tra
novembre e gennaio, abbiamo fatto sette spettacoli: Il tempo
degli assassini, Enrico V, La rabbia, Barboni
in Francia, Guerra, Il silenzio, Esodo.
Quando vuoi criticare
quello che fanno gli altri, dici "E diventato chic".
Non cè il rischio che anche la compagnia di Pippo Delbono
diventi in qualche modo chic?
Sì, questo rischio cè.
Ma è un rischio che
hai già sperimentato e al quale hai cercato di porre rimedio?
Oppure il problema non si è ancora posto?
Chic non è un giudizio.
Per me vuol dire fermarsi a una maniera. Io lotto contro questo
pericolo. So che corro questo rischio, e dunque amo mettermi in
situazioni dove non cè certezza, ricominciare. La mia
compagnia è sempre aperta, non mi sono seduto. Mi piace
rimettermi in discussione, di recente ho ripreso a suonare il
violino, sono sette mesi che lo faccio, non riesco ancora a fare
ancora una scala ma insisto. Mi metto sempre e comunque in un
atteggiamento di ricerca, come se ricominciassi ogni volta dallinizio.
Forse questa potrebbe essere una cosa che non ti fa mai diventare
chic, rimettersi un po in discussione su tutto.
Si ringrazia per la
trascrizione Anita Morasso.
Glance=Sguardo
(Sull'Orfeo dei Motus)
di Anna Maria Monteverdi
Questo saggio verrà pubblicato sulla rivista "Cut Up" (sito attualmente in costruzione).
Cantare in verità
un certo altro respiro.
Spirare a nulla. Un soffio nel dio. Un vento.
Rilke, Poemi orfici 1, III.
Orfeo scende nell'oscurità degli Inferi alla ricerca dell'amata
Euridice per riportarla per sempre alla luce.
Il suo meraviglioso canto commuove le Creature
dell'Ade che gli concedono di rivedere la luce a patto
di non volgere il suo sguardo sull'amata prima
di uscire dal buio. Orfeo non attende la luce e
a causa di quello sguardo, Euridice torna tra le creature dell'oscurità.
Il tema di Orfeo è il tema della voce e dello sguardo, delle
tenebre e della luce, della felicità scorta e dell'eterna sua ricerca o ricordo.
Canto e sguardo (la vista e l'ascolto) riportano
all'origine del teatro: ad Orfeo, cantore di Dioniso,
sono dedicati quei riti misterici che ci offrono,
secondo Colli, un'altra via per esplorare l'origine della
tragedia (preparare l'estasi misterica attraverso
rappresentazioni sacre). Nelle laminette funebri
dedicate ai misteri orfici e nei frammenti della poesia orfica troviamo,
infatti, la conquista della "visione suprema"
propria della sapienza dionisiaca che permette di
desistere dal ciclo e prender fiato dalla miseria secondo
le stesse parole che la tradizione platonica attribuisce ad Orfeo.
Teatro, seguendo Dioniso e Orfeo, è luogo
privilegiato per vedere oltre (la radice della parola teatro
è theatron, ovvero spazio da dove si guarda), luogo di passaggio
estremo al di là della dimensione umana che si materializza
nell'immagine liminare e metamorfica della skenè,
ovvero soglia attraverso la quale intravedere inaudite verità.
Teatro nell'accezione greca e nelle sue due incarnazioni più importanti,
maschera e skenè, da porre proprio in relazione con il mondo
dei morti: il cimitero come culla della nascita del teatro, ricorda
lo studioso Giorgio Colli.
Ade e Dioniso sono la stessa cosa, così il filosofo greco Eraclito.
Nel regno dell'altrove il dio Orfeo, che da lì trasse l'ampia natura (Rilke), sperimenta l'unica verità:
"Chi sa se il vivere non sia morire
e il morire invece vivere."
Terreno, ultraterreno, estasi, demoni e angeli: Orfeo, dio "fonocentrico" è
secondo i Motus - raccontato, nello spettacolo, da una nuova mitologia
metropolitana e underground (nel duplice significato di "sotterraneo,
infernale" come tutta sotterranea è la vicenda di Orfeo alla ricerca di Euridice
e, per traslato, nel significato di "cultura indipendente"). Orfeo
incarnatosi nell'icona vivente Nick Cave, dopo un mascheramento del mito
greco in chiave pop, è alla ricerca dell'amata Euridice che indossa le vesti
rosso fuoco della donna fatale e che nella tragica avventura dalla colonna
sonora vivente (raccontata in parte attraverso alcuni stereotipi narrativi
dei film d'azione), diventa sua inseparabile ombra, oggetto-reliquia,
oggetto-ricordo.
La scena si definisce in funzione del corpo e dei movimenti degli
attori all'interno delle singole stanze di cui è composta la struttura
scenografica tecno-glamour-costruttivista: bagno, cucina, camera da letto,
salotto, un vero ambiente domestico ricreato, incorniciato e raccontato sin
nei dettagli.
La struttura a due piani è in realtà il regno dell'Ade abitato da un
enigmatico Lucifer (o l'angelo Heurtebise del film Orphée di Cocteau)
piena di tracce della presenza di Euridice, che là nell'Ade abiterà
per sempre ma che viva rimarrà solo nello sguardo della memoria di Orfeo,
diventando così immortale.
E' proprio Mnemosine, la dea orfica della memoria, ad insegnarci che
dissetandosi alla sua fonte, si recupera la vera conoscenza del passato e
l'origine di tutti i ricordi in una dimensione sottratta al tempo e al
divenire umano grazie alla quale si rinasce a nuova, immortale vita:
"(...)Sono riarso di sete e muoio; ma date, subito, fredda acqua che scorre
dalla palude di Mnemosine.
E davvero ti mostreranno benevolenza per volere del re di sotto terra;
e davvero ti lasceranno bere dalla palude di Mnemosine;
e infine farai molta strada, per la sacra via che...percorrono... gloriosi anche gli altri iniziati e posseduti da Dioniso."
(Laminetta aurea 4A62)
Lontana da una concezione classica di unitè di tempo, di spazio
e di azione, la scenografia ci ricorda le macchine a messinscena fissa
e multipla dei miracle plays medioevali, strutturate come piccoli
palchi allestiti uno a fianco all'altro simultaneamente alla vista
(i décor simultanées) in cui non veniva rappresentato solo
un luogo ma una quantità di luoghi contemporaneamente. Lo spettatore, ieri
come oggi, deve tenere conto unicamente dello spazio "agito"
dagli attori in quel momento (ed evidenziato dalla luce) e dimenticare
il resto degli ambienti.
Ma la scenografia funziona anche e soprattutto come "installazione"
scenica, con una sua presenza e un suo respiro, con dei veri e propri
quadri visivi e sonori a se stanti affiancati quasi "fotogramma per
fotogramma".
Lo sviluppo diacronico dello spettacolo sembra risultare proprio da
una sorta di montaggio cinematografico di tutti i pezzi, o un "seguito
di visioni" - come avrebbe detto Ragghianti - di immagini staccate
direttamente dalla superficie di una tela (dipinta) o di un telo
(cinematografico).
Ecco quindi la storia d'amore vissuta e raccontata attraverso un gioco
di interni ed esterni ed un gioco di riflessi, specchi, e di ricordi in
forma di fotografia-souvenir card. Lo specchio è quello del Narciso
liberato di Rilke: lo specchio non inganna. Restituisce la verità.
Ma lo specchio è anche il giocattolo di Dioniso fanciullo,
contemporaneamente fonte e soglia di verità, simbolo per eccellenza di
conoscenza attraverso cui il dio vede riflesso non se stesso ma il mondo.
Riferimenti
G. Colli, La Sapienza greca, Vol.I.
E. Rohde, Psiche, Vol. 2.
F. Mastropasqua, Metamorfosi del teatro.
Da Moby Dick al futuro
Nel numero 2 di "ateatro" abbiamo pubblicato un intervento sulla situazione di "Moby Dick". Molte informazioni si trovano sul sito dei
Teatri della Riviera, dov'è aperto anche un forum con vari interventi sulla questione. Intanto, ecco la lettera-programma
del Comitato "da Moby Dick al futuro".
22 febbraio 2001
Cari cittadini,
è stato costituito il Comitato "da Moby Dick al futuro".
Esso si prefigge di salvaguardare il patrimonio culturale maturato con l’esperienza
che ha fatto capo alla Cooperativa Moby Dick, attualmente in liquidazione volontaria, nel desiderio di mantenere al territorio quella che ormai deve ritenersi parte della sua identità, preservandone la progettualità e recuperando le professionalità che nel corso degli anni si sono affermate.
L’eredità ideale dell’esperienza culturale di Moby Dick è stata raccolta da un soggetto di nuova costituzione, la Cooperativa "Echidna", che noi intendiamo concretamente aiutare.
Sono note a tutti le difficoltà in cui si dibatte ogni realtà culturale, stretta fra l’indifferenza dei più e una carenza endemica di risorse finanziarie.
Del resto una società abituata a misurarsi sui valori economici, non può che vedere con diffidenza iniziative imprenditoriali tendenti al soddisfacimento di bisogni immateriali non suscettibili di immediato ritorno economico.
Valorizzare il bene cultura alla stregua degli altri beni, facendolo rientrare nella logica di mercato, far capire che quello culturale è un bisogno primario, anzi è il prerequisito indispensabile per una economia sana, perché elemento generatore di fiducia sociale, è la sfida che il Comitato vuole affrontare.
Esso si pone perciò quale cerniera operativa fra quanti, riconoscendosi nei suoi obiettivi e nei suoi scopi, intendono contribuire con il loro appoggio, anche economico, ad aiutare Moby Dick nell’ultimazione della stagione in corso ed "Echidna" nella programmazione delle future iniziative.
Per il raggiungimento di questi obiettivi il Comitato si doterà di un fondo per costituzione del quale viene indetta una pubblica sottoscrizione.
I contributi raccolti verranno depositati nel conto corrente n. 44/63000 acceso presso la sede di Mira della Banca del Veneziano ed intestato al Comitato "da Moby Dick al futuro".
Nella speranza che l’iniziativa possa essere condivisa dal maggior numero di persone, porgiamo i nostri migliori saluti.
Il Comitato "da Moby Dick al futuro"
Il Presidente
Avv. Giampaolo Fortunati
Studio Legale Fortunati e associati, tel. 041 415307 fax 041 5101237
e-mail: damobydickalfuturo@libero.it
Si può fare qualcosa per la nuova drammaturgia italiana?
E' uno dei dibattiti che ciclicamente s'accendono nel piccolo mondo del teatro italiano: che fare per la drammaturgia nostrana?
La discussione sale di tono non appena balena la possibilità di un qualche sostegno economico da parte dello Stato o degli enti locali.
Fermo restando che
- non si possono produrre capolavori per decreto ministeriale;
- i drammaturghi hanno continuato a lavorare in questi anni di vacche magre producendo risultati di notevole interesse (avete dei nomi?);
- uno dei compiti del teatro pubblico è proprio quello di promuovere la ricerca drammaturgica;
- drammaturgia non vuol dire solo scrivere l'Amleto del XXI secolo),
per dare un primo punto di riferimento agli interventi sulla questione, ecco intanto la lettera (e la proposta) inviata al ministro Melandri dal Teatro Nuova Edizione.
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
al Ministro Giovanna Melandri
p. c. Dott. Oberdan Forlenza e Avv. Pier Paolo Forte
Oggetto: DL n.492 1988 - art. 8, lett.C
Signor Ministro,
a quanto si può apprendere è in preparazione da parte del suo Ministero un provvedimento di prossima emanazione riferito alla regolamentazione degli aiuti finanziai agli 'autori e soggetti teatrali impegnati nella produzione contemporanea' di cui al DL n. 492/1988 art. 8, lett.c.
Riteniamo che il tema della promozione della drammaturgia contemporanea sia di estrema importanza per tutto il nostro teatro e non riguardi solo 'gli autori'. Senza una drammaturgia nuova un teatro è probabilmente destinato a invecchiare e a diventare accademico. E non ci sono formule certe per dare diffusione e forza a una nuova drammaturgia, specialmente dopo che per decenni e da diverse parti essa è stata depressa e scarsamente incoraggiata.
Tuttavia il riconoscimento (e relativi interventi finanziari) a delle strutture associative orientate alla promozione lascia perplessi: in linea di massima il nostro teatro non ha bisogno di intermediari (ce ne sono fin troppi: vedi il ruolo delle agenzie di distribuzione, di cui tutti tacciono), ma di protagonisti. E da parte nostra riteniamo che i protagonisti della promozione appunto della nuova drammaturgia debbano essere, oltre agli scrittori, le compagnie di produzione, quale che sia la tipologia. I 'centri per la drammaturgia', come vengono chiamati, possono svolgere un utile compito di autonomo supporto (suggerimento, incentivazione, diffusione ecc.)
Ricordiamo (e per questo alleghiamo copia) che in data 15/4/00 abbiamo fatto pervenire a codesto ministero qualche considerazione e proposta che riteniamo possano essere prese in considerazione, non trascurando, ovviamente, le più ampie consultazioni del settore.
Alla nostra lettera e alle proposte contenute fu data a suo tempo risposta con dichiarazione di interesse da parte del dott. Forlenza; in seguito non siamo più stati contattati.
Infine vogliamo annunciare che la nostra compagnia con il sostegno della Provincia di Bologna, Assessorato alla Cultura ha in preparazione per la fine del mese di maggio un convegno intitolato SCRIVERE PER IL TEATRO che nella durata di due giorni prevede interventi di organizzatori, politici, studiosi ma soprattutto un numeroso gruppo di drammaturghi (o scrittori per il teatro che forse è una più bella definizione) che testimonino quale sia il loro apporto e la loro fattiva poetica teatrale. E' ovvio che questo annuncio anticipa un invito formale che sarà inviato al più presto e che speriamo venga accolto.
Nel frattempo, in attesa di un cortese cenno di risposta e restando a sua disposizione per qualsiasi chiarimento voglia gradire e nostri più cordiali saluti.
Luigi Gozzi e Marinella Manicardi
Teatro Nuova Edizione
Bologna, 8/02/2001
Proposte per il calcolo degli incentivi a favore della drammaturgia italiana
In un momento in cui comincia ad esserci interesse da parte del pubblico verso la drammaturgia italiana e gli autori contemporanei, ci sembra giusto chiedere al Ministro Melandri di dare un segnale preciso a sostegno della produzione e distribuzione della drammaturgia italiana, così come è stato fatto per il cinema. In questi anni sono state soprattutto le compagnie legate a piccoli teatri a produrre opere italiane, mentre sia gli stabili sia la grossa distribuzione non hanno mai (o pochissimo) rischiato sul contemporaneo, trincerandosi dietro la giustificazione che il pubblico non avrebbe gradito.
La verità è che il teatro, come qualunque altro prodotto artistico, può ottenere l¹attenzione e la curiosità del pubblico solo con l¹unione di più forze. Come per il cinema occorre incentivare la produzione, la distribuzione, lo studio e il marketing di opere di autrici e autori italiani.
Ciascuno con la propria funzione può collaborare a far conoscere, discutere, confrontare ciò che gli autori del nostro tempo intuiscono, pensano o raccontano per il teatro e la scena contemporanea.
Rispetto al regolamento e alla futura legge pensiamo che vadano modificati i parametri a sostegno della drammaturgia italiana. Abbiamo individuato 2 criteri di assegnazione degli incentivi:
1. sostegno ai teatri di produzione e distribuzione e non al singolo autore o al singolo progetto.
1/a. per le compagnie di produzione, teatri stabili pubblici, privati.
Incentivi del 30% per quegli organismi riconosciuti dal Ministero che abbiamo nel loro repertorio triennale il 60% di opere di autrici e autori italiani. L'attuale regolamento a proposito della drammaturgia italiana assegna un 10% della quantità a chi produce un testo di drammaturgia italiana: questo può andar bene per chi saltuariamente inserisce nel proprio repertorio un'opera italiana. La modifica proposta invece tende a valorizzare una linea culturale chiara e continuativa.
1/b. per i circuiti e teatri di sola ospitalità.
Incentivi del 20% alla programmazione in misura significativa di spettacoli di drammaturgia italiana contemporanea. Così come per il cinema o per qualsiasi prodotto é importante sostenere non solo la produzione ma anche la distribuzione, senza la quale non si rende visibile l'investimento produttivo.
2. riconoscimento della figura professionale di drammaturgo.
Incentivi a quei teatri di produzione e circuiti che ospitino in forma permanente o per progetti triennali un drammaturgo nella sue funzioni di scrittore di testi, ma anche di traduttore, adattatore, consulente per le scelte drammaturgiche.
Appuntamento al prossimo numero.
Se volete scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
copyright
Oliviero Ponte di Pino 2001