Nel segno della croce
Alcune riflessioni prima di vedere Il Principe Costante con la regia di Pier'Alli
di Oliviero Ponte di Pino
Leggere o assistere a una rappresentazione del Principe Costante di Calderón dopo l'11 settembre porta con sé , o riporta alla luce, una serie di domande - alcune inedite, altre accantonate, altre cui credevamo di aver trovato una risposta. Un'ulteriore dimostrazione dell'implacabile attualità dei classici, verrebbe da commentare, e precisando subito che Pier'Alli e il Teatro Metastasio avevano deciso di portare in scena questo testo diversi mesi prima di quella data.
Dopo l'attacco suicida contro le Twin Towers si parla per esempio con insistenza crescente della possibile "guerra di civiltà" tra cristianesimo e islàm : negli ultimi mesi si è acceso un vivo dibattito intorno al saggio di Samuel Huntington Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, peraltro pubblicato alcuni anni fa . Se oggi ci chiediamo se effettivamente sia in atto, e in quali forme, per i protagonisti del dramma di Calderón e per gli storici nel 1500 il Mediterraneo era senza dubbio al centro di un secolare e feroce conflitto geopolitico - anche se val la pena di ricordare che le due rive del Mediterraneo non sono mai stati due mondi impermeabili.
All'inizio della tragedia di Calderón - o meglio, all'inizio di questo rituale in forma drammatica - l'Infante Fernando del Portogallo è un principe di stirpe regale, uno strenuo combattente della fede cristiana. E nella sua fede resterà saldo fino a perdere il suo rango e ogni suo privilegio. Il re musulmano che l'ha preso prigioniero gli offre la libertà in cambio di Ceuta: ma quella città, argomenta l'ostaggio, non è né mia né del Re mio padre, bensì di Cristo. Il riscatto non deve essere pagato, l'Infante Fernando sceglierà di restare prigioniero. Avrebbe voluto diventare un eroe, un conquistatore di città che massacra torme di miscredenti, e tuttavia accetta con piena consapevolezza il proprio destino di vittima sacrificale. Il Principe Costante si abbasserà fino alle più vergognose umiliazioni, verrà percosso e deriso, affamato e offeso, fino alla morte. Ma proprio quella umiliazione e l'atroce martirio porteranno al trionfo. La sua estrema debolezza - la capacità di affrontare il sacrificio di sé fino ad annullarsi - sarà l'arma della sua vittoria.
Al livello più superficiale, con la sua provocatoria ostinazione l'Infante Fernando ci dimostra che la fede ha una forza terribile. E con il suo martirio ci chiede per quali valori saremmo disposti a mettere a rischio la nostra vita, o addirittura a morire in piena consapevolezza. E' la stessa domanda a cui si sono dati risposta i kamikaze che hanno guidato gli aerei negli attentati dell'11 settembre e i palestinesi che si sacrificano in missioni suicide nelle strade di Gerusalemme e Tel Aviv , in una forma pervertita: "Per quali valori sono disposto a morire e a uccidere degli innocenti?"
Noi "occidentali", cullati da un secolo di nenie sul "tramonto dell'Occidente", educati al relativismo culturale e al politicamente corretto , al rispetto e al fascino dell'Altro, noi che rifiutiamo il fanatismo e ci commuoviamo quando ad Assisi Giovanni Paolo II grida ancora una volta che nessuna guerra può essere combattuta in nome di Dio, noi che forse (secondo alcuni) siamo stati resi imbelli dagli agi del consumismo – noi, di fronte a simili questioni avvertiamo un brivido lungo la schiena, ci ripetiamo compunti che niente sarà più come prima e ci aggrappiamo ai nostri riflessi condizionati e alle nostre piccole verità. E continuiamo imperterriti a perseguire le nostre piccole ambizioni, a sognare i nostri sogni, a guardare i nostri film…
Anche se poi la realtà – o meglio, quel surrogato di realtà che sono i nostri telegiornali – ha fatto collassare sulla realtà proprio l'immaginario di mille film e fumettoni catastrofici, di mille angosce inconfessabili trasformate in show business. E continua a farlo, implacabile, con Bin Laden che sembra il capo della Spectre in un film di James Bond e il Mullah Omar che all'arrivo delle squadre speciali scappa nel deserto a bordo di una moto (o magari su un risciò) come in Rambo. Così, per tornare a Calderón, non c'è dubbio che in queste settimane le icone più vicine alle tribolazioni del Principe Costante siano il volto terrorizzato del Taliban americano scampato chissà come al massacro di Mazar-i-Sharif e i prigionieri afghani nella gabbie di Guantanamo. Anche se, a differenza dei Taliban in catene a Cuba, il Principe Costante non mordeva la mano del suo guardiano...
Perché la mano dell'aguzzino non la mordeva neppure colui che insegnava di porgere l'altra guancia, il Cristo, di cui il protagonista del testo di Calderón è con ogni evidenza un doppio, una imitatio, oltre che un militante, un combattente in suo nome . Come Ferdinando, anche Cristo, prima sulla croce e risorgendo dal sepolcro (se ci si crede) , e poi attraverso l'affermazione della civiltà e della filosofia cristiana nella storia (e questa è un'evidenza, al di là di qualunque implicazione filosofica di questo fatto) , dimostra che la debolezza può vincere la forza e la sapienza. L'apostolo Paolo ha espresso con estrema chiarezza questa posizione , con la propria testimonianza e con le proprie parole :
"Anch'io, fratelli, alla mia venuta da voi non venni ad annunciare il mistero di Dio con sovrabbondanza di parola o di sapienza. Non ritenni, in effetti, di sapere altro tra voi che non fosse Gesù Cristo e questi crocifisso. E io mi presentai a voi in stato di debolezza e timore e tremore." (Paolo, Cor. I, 2, 1-2)
Il Principe Costante è sconfitto quando combatte con le armi, ma vince quando lo "stato di debolezza e timore e tremore" lo porta a morire. Allo stesso modo, pochi e spauriti discepoli destinati al martirio hanno dato un seguito bimillenario (per ora) a quella che Friedrich Nietzsche ha definito "religione di schiavi". E con il cristianesimo hanno dato un seguito anche alla nostra civiltà occidentale (e colonialista), che al cristianesimo è indissolubilmente legata e che ha fatto propri molti dei suoi valori , e che la storia ha posto – in questo snodo tra il secondo e il terzo millennio dell'era cristiana – dalla parte dei vincitori, dei potenti, dei ricchi.
Ovviamente il problema del legame tra cristianesimo e civiltà occidentale è assai complesso (e controverso), e a un'analisi appena serrata tradisce infiniti punti di convergenza e divergenza. Tuttavia, se cerchiamo il senso profondo del cammino parallelo del Principe Costante e del Dio che si è fatto uomo, c'è un nodo (o una prospettiva, una chiave di lettura) che sembra rendere impensabile lo sviluppo dell'Occidente senza la svolta cristiana.
"La chiave di volta di tutto questo discorso è il termine 'secolarizzazione'. Con esso, come si sa, si indica il processo della 'deriva' che slega la civiltà laica moderna dalle sue origini sacrali. Ma se il sacro naturale è quel meccanismo violento che Gesù è venuto a svelare e a smentire, è ben possibile che la secolarizzazione - che è anche perdita di autorità temporale da parte della Chiesa, autonomizzazione della ragione umana dalla dipendenza verso un Dio assoluto, giudice minaccioso, così trascendente rispetto alle nostre idee del bene e del male da sembrare un sovrano capriccioso e bizzarro - sia per l'appunto un effetto positivo dell'insegnamento di Gesù e non un modo di allontanarsene. Insomma: forse lo stesso Voltaire è un effetto positivo della cristianizzazione (autentica) dell'umanità, e non un blasfemo nemico di Cristo." (Gianni Vattimo, Credere di credere, Garzanti, Milano, 1996, pp. 33-34)
In questa prospettiva, il Principe Costante ci appare oggi una figura paradossale, sospesa tra due letture del cristianesimo. Da un lato è il militante, il combattente della fede, il fanatico pronto a uccidere e morire per un valore trascendente. Dall'altro, come doppio del Cristo, il Dio che si è fatto uomo e che proprio attraverso questo avvilimento ci ha portato la redenzione, esemplifica nella maniera migliore il senso della svolta cristiana così come emerge da alcune interpretazioni contemporanee, certo radicali, ma anch'esse pienamente compatibili con la tradizione cristiana.
"L'unico grande paradosso e scandalo della rivelazione cristiana è l'incarnazione di Dio, la kenosis, e cioè la messa fuori gioco di tutti quei caratteri trascendenti, incomprensibili, misteriosi e credo anche bizzarri che invece commuovono tanto i teorici del salto nella fede. In nome del quale, poi, è facile far passare anche la difesa dell'autoritarismo della Chiesa e di tante sue posizioni dogmatiche e morali legate all'assolutizzazione di dottrine e situazioni storicamente contingenti e per lo più di fatto superate. Dovremmo tutti rivendicare il diritto a non essere allontanati dalla verità del Vangelo in nome di una sacrificio della ragione richiesto solo da una concezione naturalistica, umana troppo umana, e in definitiva non cristiana, della trascendenza di Dio." (op. cit., pp. 50-51)
E' un modo , questo, per non dire che "Dio è morto", o meglio per scoprire che – dopo la morte del vecchio Dio - in questo senso può essere ancora vivo. Non a caso una riflessione di questo tenore viene da un pensatore come Gianni Vattimo, che molto ha riflettuto sulla nostra condizione post-moderna e sulle sue implicazioni.
Inevitabilmente questo cambiamento di prospettiva sul trascendente (e la "fine dei valori" e la "morte delle ideologie", che ne sono solo una conseguenza per così dire pratica) si riflette anche sulle possibilità di rappresentazione della realtà e sullo statuto del segno, che hanno perso il loro fondamento. La crisi finisce per riverberare anche sul teatro, per quanto possa apparire un'arte marginale e "in ritardo" rispetto alle altre.
Per questo diventa un esercizio assai utile interrogarsi oggi , sotto il segno del post-moderno e dunque con parametri affatto diversi, su un testo come Il Principe Costante, così profondamente radicato dalla propria epoca e al tempo stesso posto in uno snodo della storia dell'occidente che getta la sua luce fino a noi.
Non è un caso che questa esemplare parabola sia stata portata in scena da Jerzy Grotowski nel 1965, in quella che è la sua rivisitazione contemporanea più nota (seppure filtrata dalla riscrittura del testo di Calderón a opera del poeta polacco Tadeusz Slowacki). In quegli anni Grotowski e il suo Teatr Laboratorium si misuravano con la crisi delle forme tradizionali di rappresentazione e con quella che George Steiner aveva definito "la morte della tragedia".
"L'avanguardia degli anni Cinquanta ha dimostrato l'impossibilità del tragico tradizionale a teatro. Il tragico infatti può esistere unicamente allorché i valori hanno garanzie trascendenti; allorché sono considerati una sorta di sostanza. Quando muoiono gli dei il tragico è rimpiazzato dal grottesco: la smorfia dolorosa del buffone al cospetto del cielo vuoto. Le premesse dell'avanguardia da questo punto di vista sono irrefutabili: il tragico tradizionale oggi è sterile, sublime retorica oppure triviale piagnisteo da melodramma. Una domanda si pone: come ottenere a teatro il tragico che non sia posa morta, pittoresca, ma che nel contempo vada al di là della clownerie? Come raggiungere quell'antichissimo sentimento, oggi smarrito nella memoria emozionale, di pietà e orrore?
La risposta pratica è: disonorando i valori, i valori ultimi, elementari, Ad essi, in ultima istanza, appartiene l'integrità dell'organismo umano. Quando ormai non c'è più niente, asilo della dignità umana rimane il corpo, l'organismo vivente che è come il garante materiale dell'individuo, della sua particolarità di fronte al resto del mondo . Quando l'attore getta sul piatto della bilancia la sua intimità, quando rivela senza freni il suo vissuto interiore, incarnato nelle reazioni materiali dell'organismo, quando la sua anima diventa in un certo senso identica alla fisiologia, quando sta in pubblico disarmato e nudo, offrendo il suo essere inerme alla crudeltà dei partner e alla crudeltà della platea; allora, in virtù di un ribaltamento paradossale, riacquista il pathos. E i valori profanati rinascono - grazie allo shock dello spettatore - su un piano superiore. La miseria della condizione umana, da nulla velata, oltrepassando nella sua sincerità tutte le barriere del cosiddetto buon gusto e della buona educazione, culminando nell'eccesso, permette di raggiungere la catarsi nella sua forma - oserei affermare - arcaica. Esempio della tragicità così intesa è Il Principe Costante di Grotowski, che il pubblico francese ha avuto occasione di vedere ". (Ludwik Flaszen, Dopo l'avanguardia, 1967, in Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969, a cura di Ludwig Flaszen e Carla Pollastrelli con la collaborazione di Renata Molinari, Fondazione Pontedera Teatro, Pontedera, 2001, p. 129).
La via d'uscita è dunque il corpo, la fisicità elementare dell'attore (lo straordinario Ryszard Cieslak) e del pubblico che vi si può rispecchiare: questa la chiave per ritrovare l'autenticità perduta e la potenza del rito. E poi accanto a questa nudità del corpo, la parodia e il grottesco, ovvero l'accentuazione del gioco teatrale, e al tempo stesso l'enfasi sulla dissacrazione dei simboli per resuscitarne l'aura (nell'Ecce Homo il Cristo deriso a volte assume la maschera di un clown) .
Negli stessi anni in Italia Pier'Alli imbocca una strada diversa. Sta iniziando a lavorare in teatro, guida di un gruppo teatrale dall'emblematico nome di Ouroboros, il serpente che si morde la coda, alchemico emblema dell'infinito e dell'eterno ritorno. Con i suoi spettacoli Pier'Alli reagisce alla stessa crisi della rappresentazione, ma in maniera affatto diversa. Nel 1972 mette in scena Signorina Giulia di August Strindberg.
"Noi non possiamo più accettare il naturale come piattaforma, come conditio sine qua non lo spettatore può salire alla pura essenza, percepire gli archetipi o il demone.
Il naturale, a questo punto, viene a scoprire la sua natura di gioco, il suo travestimento. Il VEROSIMILE come
cornice plausibile per gli scontri può essere una definizione accettabile in questa determinazione generale di lotta, dove il linguaggio sembra sussistere solo per contraddire un deuteragonista.
Scoperto il travestimento, il linguaggio non è più nella rete dei codici, e la rete diventa trasparente e indica soltanto uno schema di fondazione, come una città millenaria ci ragiona con i solchi delle sue arterie e intorno la morte.
Ora come in una città millenaria
noi diamo vita a questa morte che si racconta,
con un gioco di fanciulli attratti e scandalizzati dal mistero. Senza leggerlo completamente,
saldiamo sulle memorie una rete nuova, aperta, ricostruendo una storia colma della pazzia presente: questa voglia di essere completamente nuovi e l'impossibilità di esserlo completamente" (Spazio di tempo per una tragedia naturalistica, in Franco Quadri, L'avanguardia teatrale in Italia (Materiali 1960-1976), Einaudi, Torino, 1977, vol. I, pp. 432-433)
Da questi spunti – che partono dalla medesima consapevolezza della crisi della rappresentazione e del tragico, ma che si contrappongono consapevolmente alle divergenti forme di contaminazione tra teatro e vita praticate dal Living e da Grotowski – Pier'Alli ha condotto in questi anni , spettacolo dopo spettacolo, una ricerca analitica che si misura con la tradizione, attenta alla costruzione di forme che scaturiscono dalla dinamica interna del testo. All'inizio sono tappe teatrali (la già citata Signorina Giulia, cui seguirà anni dopo un Giulia round Giulia, il lavoro su Beckett in Winnie dello sguardo con una indimenticabile Gabriella Bartolomei, e poi l'episodico ritorno alla "prosa" con il lavoro di contaminazione cinematografica sulla Caduta della casa Usher di Edgar Allan Poe) ma poi è soprattutto attraverso una lunga frequentazione con il teatro d'opera che si sviluppano le premesse implicite in quella dichiarazione – e già questa scelta indica in quale direzione abbia lavorato , privilegiando forme non immediatamente significanti come quelle visive e musicali, e il rapporto dialettico con la tradizione.
Ora, in questo nuovo ritorno al teatro di prosa (e già questo a modo suo è un evento), l'elemento fondante è con ogni evidenza lo statuto del segno sulla scena. E , per dirlo con tutta la chiarezza possibile, del segno intorno a cui ruota l'intera vicenda dell'infelice Infante: la croce, con tutte le sue stratificazioni di significati. Il segno per eccellenza, il segno della cancellazione (e della censura), lo strumento della più umiliante e atroce delle condanne, che diventerà simbolo della salvezza e dunque è destinato a cancellare tutti gli altri segni.
"Infatti la parola della croce è insensatezza per quelli che vanno alla rovina, per quelli invece che sono sulla via della salvezza, per noi, è potenza di Dio. E' scritto infatti: 'Distruggerò la sapienza dei sapienti e l'intelligenza degli intelligenti abolirò.' Dov'è il sapiente? Dove lo scriba? Dove l'indagatore di questo mondo? Dio non ha forse reso insensata la sapienza del mondo?" (I Cor. 1, 18-20)
Una delle immagini più ambigue e discusse di questi anni è opera dell'ispano-americano Andres Serrano: nella fotografia, un crocefisso capovolto in un bicchiere di orina. Come prevedibile, l'immagine è stata attaccata, perché ritenuta blasfema e oltraggiosa . Ed è stata difesa in base a due ordini di motivi: da un lato la qualità estetica della fotografia (soprattutto l'originale, non le riproduzioni di giornali e riviste) e l'equilibrio "classico" dell'immagine; e dall'altro perché quell'immagine non farebbe altro che radicalizzare il processo di kenosis che come abbiamo visto è alla radice del messaggio cristiano , e dunque lo renderebbe ancora più vero. E' una tesi che a questo punto non dovrebbe apparirci così strampalata, fermo restando che il nostro rapporto con i segni è sottilmente ambiguo e intricato, soprattutto quando si tratta di segni che s'incrociano con il regno del sacro e con il regno dell'estetico. Altri due esempi tratti dalla cronaca di queste settimane fanno risaltare la natura complessa e ambigua di questo segno.
Il primo è la conclusione di una vicenda tutta italiana. Il 18 gennaio 2002 i registi Franco Maresco e Daniele Ciprì , il produttore Duilio Rean Mazzone e lo sceneggiatore Calogero Iacolino sono stati assolti dall'accusa di aver offeso la religione con il loro film Totò che visse due volte. Secondo la sentenza emessa dal tribunale di Roma presieduto da giudice Vittorio Pazienza, le croci, le statue e le edicole votive utilizzate in alcune scene del film non erano "realmente ed effettivamente oggetto di culto o consacrate, ovvero destinate all'esercizio di culto" (requisito essenziale perché si configuri il reato previsto dall'art. 404 del codice penale), ma "fabbricate appositamente durante la produzione, ovvero noleggiate al momento presso negozi specializzate".
Il secondo episodio è invece ambientato, a chiudere questo cerchio intorno alla croce del Principe Costante, a Kabul, sotto il regime dei Taliban. Per l'ospedale in cui opera Alberto Cairo, il medico italiano che da anni si occupa delle numerose vittime della guerra e delle mine, i problemi con le autorità islamiche sono stati numerosi. Lo stesso Cairo ha raccontato sulla "Repubblica" che controllore particolarmente assiduo dell'ospedale era il Mullah Enayatullah, un giovane "studente coranico" ossessionato, oltre che dalle donne, dalla Croce Rossa, che egli considerava un simbolo religioso. Un bel giorno il Mullah vede l'ennesima Croce Rossa e ordina: "Toglietela!". Le difese di medici e infermieri, basate su argomenti di carattere pratico, non servono a nulla. Scrive Alberto Cairo:
"Chi lo ferma adesso. Ma ecco un aiuto insperato. Mi viene dalla rivista italiana che sta aperta sulla mia scrivania. Con la foto di un cieco guidato da un cagnone, sul cui fianco sta una grande croce rossa. 'E' simbolo di aiuto, la mettiamo su tutto, persino sui cani. Guarda!' Ammutolisce. So di aver colpito giusto. Fissa a lungo la rivista. Incredulo. (...) So cosa gli passa nel pensiero: il cane è un animale sporco, da non toccare. La croce non può avere un significato religioso, se gliela mettono su. Se ne va confuso. E ci lascia in pace per qualche settimana." ("la Repubblica", 12 gennaio 2002)
a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Teatro e nuovi media è il titolo che abbiamo scelto per questa sezione di "ateatro" ovvero teatro e comunicazione, nuove tecnologie per il teatro. Naturalmente in questa rete a maglie così larghe può entrare qualunque cosa. Non ce ne dispiace, porteremo esempi, segnalazioni, letture e analisi di questo enhanced theatre (termine decisamente appropriato, coniato da Dan Zellner) ovvero quel teatro in cui la presenza tecnologica non è da sola, evidentemente, requisito sufficiente, né la generica "commistione" di linguaggi o di generi ("teatro dei mezzi misti" - theatre of the mixed means - era la definizione data da Kostelanetz agli happening degli anni '60), ma lo è invece la sperimentazione di una nuova dimensione ed esperienza teatrale plurisensoriale, che coinvolga attivamente il pubblico, recuperando un rapporto più stretto tra spettatore e il palco a partire proprio dalla mutazione prodotta dai mezzi di comunicazione. Una tecnologia, dunque, che amplifichi percezioni, sguardi, modalità, che renda reale e necessaria la partecipazione e la condi-visione dell'evento teatrale oltre l'architettura che contiene entrambi, attori e spettatori. Al centro, l'idea della tecnologia come parte integrante del nostro mondo (la tecnica "come ambiente dell'uomo", ricorda Galimberti; insomma: There is no off switch to the technological). Proveremo a verificare, seguendo la riflessione di Andrea Balzola se la scena possa diventare "un laboratorio di una cultura integrale dove arte e tenica ritrovino la loro comune etimologia in un confronto serrato con la scienza e la filosofia per restituire al sociale una virtualità realizzabile insieme a un SAPERE TECNOLOGICO DIFFUSO. Un laboratorio di sperimentazione antropologica che in un momento particolarmente grave di perdita di identità umana a vantaggio delle illusorie e devastanti conflittualità interrazziali, interetniche e interculturali, contribuisca alla riprogettazione di un modo possibile di rigenerare un mondo reale divenuto impossibile" (A. Balzola, La scena mutante, in A. Balzola, F. Prono, La nuova scena elettronica).
In questo primo numero Pericle Salvini, che ha svolto una brillante tesi di laurea su alcune interessanti sperimentazioni inglesi di tecnologia in scena, ha intervistato appositamente per ateatro, Steve Dixon regista di vari "multi-media show" tra cui Chamaleons 2 (da cui ha realizzato anche un cd rom allegato alla rivista "The Drama Review"). Il secondo contributo è di Simonetta Cargioli, una delle più attente e attive studiose di videoarte già segretaria di produzione al Cicv di Montbéliard-Belfort, co-direttrice del Festival video di Clermont-Ferrand e organizzatrice di eventi video. Si tratta di una recensione (apparsa recentemente sul "manifesto") del saggio di Sandra Lischi Visioni elettroniche appena uscito in stampa, attenta riflessione sui principali autori video internazionali raggruppati per tematiche e per generi (con accenni anche al videoteatro), con un'utile appendice di "lettura" di alcune video opere in cui riconosciamo l'impronta e il metodo di analisi del teorico delle "arti della visione", Carlo Ludovico Ragghianti.
Infine, in occasione della prima assoluta di Twin rooms dei Motus il 9 e il 10 febbraio 2002 all'interno della rassegna Temps d'images. Smascheramenti di immagini e corpi in tempo di Carnevale della Biennale di Venezia, una mia lettura del "cantiere teatrale" Rooms nella sua veste-mascheramento cinematografico.
Teatro e nuovi media
una conversazione con Steve Dixon
a cura di Pericle Salvini
Steve Dixon è sicuramente uno dei protagonisti - sia a livello teorico, con i suoi scritti, sia a livello pratico, con le sue performance - di questa "nuova" ondata di sperimentazione teatrale scaturita dall'avvento delle nuove tecnologie elettroniche. La novità di questa sperimentazione riguarda l'originalità dei media utilizzati, internet e la realtà virtuale. Infatti, già in quella che Walter Benjamin nel 1936 chiamava "l'epoca della riproducibilità tecnica", gli artisti teatrali si misuravano con il film, la radio e poi la televisione (Marinetti, Mejerhold, Piscator, Brecht, R. E. Jones, Beckett e tanti altri)
Questa nuova fase sperimentale "elettronica", dunque non è altro che il seguito della precedente fase "meccanica". Sia nell'una che nell'altra, diverse sono state le intenzioni e le modalità con cui gli artisti teatrali hanno impiegato o subìto le tecnologie del loro periodo. Oggi, dopo quasi un secolo di sperimentazione, dopo anni di studi sull'evoluzione dei media e soprattutto sulle differenze e somiglianze tra teatro e cinema, credo che sia possibile individuare tre tendenze principali. La prima consiste in un netto rifiuto di tutto ciò che è mediatizzato, registrato o ha a che fare con la tecnologia (purismo). La seconda aspira alla creazione di una nuova forma d'arte attraverso l'unione di linguaggi e pratiche espressive diverse (ibridazione). La terza difende la specificità del teatro ma non rifiuta l'apporto delle tecnologie meccaniche e/o elettroniche (Enhanced theatre). Steve Dixon, secondo me, rientra proprio in quest'ultima tendenza, si colloca cioè tra coloro che non rifiutano le possibilità offerte dai nuovi media elettronici, ma allo stesso tempo sono consapevoli del pericolo che l'impiego di questi linguaggi implica e quindi stanno bene attenti a non compromettere la natura specifica della forma d'arte da loro usata, in questo caso il teatro. Questo modo di servirsi della tecnologia intensifica l'evento teatrale senza pregiudicare la sua essenza, i suoi principi base: la liveness, il corpo, il feed-back tra attori e spettatori, il concetto di presenza, la natura effimera della performance, il senso di rischio e fallibilità, il senso di comunità. L'esperienza teatrale dunque non viene stravolta, non diventa né cinema né videogame, ma risulta arricchita, "aumentata" ("enhanced") - da qui il termine "Enhanced Theatre" - dagli strumenti tecnologici ed elettronici. In un certo senso si prosegue quella tendenza secolare per cui il teatro si è sempre avvantaggiato delle scoperte in campo scientifico e tecnologico: si pensi per esempio alle macchine rinascimentali o agli effetti prodotti dal passaggio dalla luce a gas a quella elettrica nel XIX secolo.
Chiusa questa parentesi teorica, vorrei, prima di lasciare spazio alla conversazione, dirvi qualcosa di più su Steve Dixon. Steve insegna alla "School of Media, Music and Performance" presso l'Università di Salford (UK). E' stato attore, regista (per il cinema e per la televisione), e - leggo dalla sua nota biografica - ha persino prodotto un'opera. Durante la sua carriera ha lavorato con artisti del calibro di Richard Eyre e Steven Berkoff e Nicholas Hynter.
Nel 1993 ha fondato The Chameleons Group, una compagnia teatrale intenta a sperimentare e sviluppare nuovi metodi di recitazione e formazione attoriale volti alla creazione di performance multimediali per il teatro, la televisione e i nuovi media. Scopo del gruppo è indagare le possibilità di integrare completamente diversi stili e media nella performance, facendo ricorso alla teoria artaudiana, alla scrittura automatica ed usando simultaneamente performance live e registrate.
Dixon ha prodotto due CD-ROM - entrambi hanno riscosso molto successo a livello internazionale - che sono vere e proprie opere performative, ma al tempo stesso servono per documentare il suo lavoro con i Chameleons Group. L'ultimo, intitolato Chameleons 2: Theatre in a Movie Screen, è del 1999 ed è stato pubblicato insieme ad un interessante articolo intitolato: Digits, Discourse and Documentation su “The Drama Review” (no. 161, Spring 1999). Nel dischetto non solo è possibile vedere l'intero spettacolo Chameleons II: In Dreamtime, ma anche le prove, il processo creativo, le riflessioni degli attori, i videoclips, ascoltare i commenti critici e concettuali, per esempio sulla teoria artaudiana o sulla semiotica del teatro multimediale, il tutto, espresso in modo artistico, teatrale, tale da rendere il processo di navigazione non solo divertente ed interessante, ma anche performativo.
Nel 1999 insieme a Barry Smith della Nottingham Trent University (UK), Steve ha creato The Digital Performance Archive, un archivio in cui vengono raccolte tutte le forme d'arte performativa - dal teatro alla danza - che incorporano o fanno uso dei vari media digitali. Sfortunatamente, essendo un progetto legato a dei finanziamenti pubblici, oggi l'archivio non è più attivo e quindi non può essere aggiornato. In esso è raccolta una vasta quantità di eventi, tutti grosso modo collocabili tra il 1990 e il 2000. Tuttavia è ancora possibile consultare l'archivio.
Attualmente, Steve sta lavorando al terzo dischetto dei Chameleons Group, stavolta un DVD, che accompagnerà anche un suo libro di prossima pubblicazione intitolato Digital Performance: New Technologies in Theatre, Dance and Performance Art.
A conversation with Steve Dixon
Questa conversazione ha avuto luogo in Inghilterra, all'università di Salford, nel mese di giugno del 2000, tranne la domanda n.12, che si riferisce ad un evento posteriore che Steve Dixon mi ha raccontato via e-mail. Ci scusiamo con i lettori per non aver fornito una traduzione italiana, ma nel caso le richieste fossero numerose cercheremo di provvedere in uno dei prossimi numeri.
1) What kind of relationship do you think exists between the live and the recorded? Are they friends or enemies?
Well, this is the big debate! I think they can be both. I think there are specific differences, especially aesthetically and subconsciously. I think the spatial difference is the most considerable: you are watching theatre in three dimensions and you also obviously are watching a spontaneous act, a live, ephemeral, temporal event that can't be caught on video well. And then you also have this pre-recorded, therefore not live, not immediate element, less true in some way. This is a common complaint: the live is "true" but mediated video is "false", and I think those differences in the problems of integrating the two can mean that film or video can be an enemy to theatre or live art. In terms of multimedia performance - for this interview I am taking it to mean live theatre with media projections or television monitors also on stage - I see many examples where I dislike the video work because it doesn't add, it just detracts, it tries to upstage the performer or it becomes visual wallpaper. Or most often it lacks creativity, it lacks a meaningful intellectual or symbolic commentary on the live action, and therefore it isn’t integrated. In all these cases it is not adding to the event, it is really a kind of taking away, it is a distraction. And what is more, it is predominantly used in a cerebral way, so the audience thinks: "Oh I see, it is making comment on that" so you may have, for example, someone who is very sad and in a desperate situation on stage, whilst on screen there is video footage of urban deprivation. So the audience is guided to make a very simplistic analogy between the two - “so this is the political state, it is about the person’s position in society” or whatever. I think there has been too much crass, poorly conceived, poorly technically executed work. That's it. So, what I am trying to do with The Chameleons Group is about finding unusual and original relationships that are not simply symbolic, but are psychologically more subversive and immersive within the theatre space. You can’t make the distinction between the live and the recorded completely indistinguishable, but I want to break down the barriers between them, and where the interrelationship actually works not just on an intellectual, cerebral, interpretative level, but also at a visceral level, at an emotional level, a subconscious level.
2) What do you think about the "quarrel" between those who use new technologies in their performances, such as videos, screens, projections, etc. and those who detest all kinds of technologies because they are against the essential elements of theatre that is liveness, sense of community, sense of presence, etc?
I think it is an interesting debate and I think there will always be purists who say: "oh no, the theatre must exist as live theatrical illusion, and to introduce other media, be that film, video or digital media is to use it as a gimmick, because it doesn’t ‘belong’ there”. Now, that is an understandable response in some way, particularly because, as I said before, I think a lot of companies have made the mistake of not properly integrating theatre and technology. And the mistake is that companies think "oh, yes, video is exiting, I've seen it done well, therefore I put on video”- without actually conceiving why it is there. Whereas I think the crucial fact with the introduction of video, film, new media and so on, is that it actually enhances the drama, the theatre, the live event. Otherwise you may as well work in film or video or digital media and forget the live performance, because for a start it is much more controllable. But I still believe that there can be an effective marriage of the technologies and the live performer. The live theatre space, and those ideas you are talking about, community, liveness, sense of presence and so on can still be enhanced by the multimedia elements, rather than the multimedia taking away from that experience.
3) Is it possible to consider new technologies as giving new life to theatre?
Yes, except what I am struck by actually, as I go and see some of these technological experimental performances, is that it is not particularly popular.
4) Would you like to try to explain why?
I think again because it is untested, this is experimental and also because of expectations being too high. People may have seen pieces that claim to be the new “virtual reality theatre” and so on, but actually, it wasn't very engaging, it wasn't as immersive and spectacular as they expected. Moreover I think budget is coming to be a problem as well, because most of the companies doing this work have limited budgets. For example, one of the most famous and interesting virtual reality theatre projects is the Institute for the Exploration of Virtual Realities (ieVR) which is actually being created with undergraduate student actors in a US theatre department at the University of Kansas. Theatre designer Mark Reaney creates real-time 3D VR scenographic backgrounds which the actors work in front of. I went over to Kansas to see one of their productions and it was really interesting and the creativity was amazing - the 3D virtual reality backgrounds were manipulated in real-time to move in synchronisation with the actors’ movements. But the budget was very limited, so the size of the actual main screen was only about four metres high and six metres wide, so it wasn't big enough to take away your peripheral vision, to immerse and surround you with a real spectacle. So you were still sitting in raked theatre seating looking at a traditional ‘box’ set, but it happened to be virtual reality. It was inventive and successful, but you were still very much a member of an audience looking at the play, it wasn't fully immersive, it didn't take your breath away. Disney and other theme park rides like the new virtual reality Spiderman, things that are happening in that field, because they have the money, they have millions and millions, can more easily actually take your breath away.
5) One of the problems in which I find myself every time I see one of these multimedia performances is "definition": how to call them, theatre, performance art, installations, or new, experimental forms?
Well, I think at this stage, the beginning of XXI century, all those kinds of distinctions have less and less meaning, particularly in the face of post-modernism. The boundaries have been broken down, so, really to categorise becomes fairly arbitrary. That said, with the Digital Performance Archive we are developing, we have had to categorise pieces as installations, multimedia theatre or whatever, we just have to make a decision about what definition is closest to the performance piece. We have also categorised pieces against 53 different technology categories such as Motion Capture, CD-ROM, software applications etc. In an archive this is necessary otherwise people, when they go online in the archive aren't able to navigate easily and find what they want if some boundaries aren’t set. So sometimes definitions can be helpful, particularly in the digital realm!
6) Can you tell us what is - in your opinion - the essence of theatre?
It 's a hard question. Again it is problematic, because we have inherited an academic context to that question: it defines drama as different to theatre and different to performance, to live art and so on. But I don't always see those boundaries, so, actually what I think theatre is, is from a personal context of where I first thought: "that is theatre!", or "I want to do theatre", which is a memory from when I was young and is now very different. So my definition of theatre when I was young was simple - actors on a stage playing characters and trying to create a credible world. Now, I think, if I go and see a post-modern contemporary company, that's no longer what they're doing, but I still see it as theatre, as opposed to live art. I don’t say that it isn’t performance or live art, but I say it is also theatre. So the essence of theatre - as opposed to performance - is no longer clearly definable, and you go to a football match now and there is the theatre, there is great theatre! But it is a different form and of course writers like Erving Goffman and Richard Schechner have for many years broadened our definitions of theatre and performance and related then to performance in everyday life. So there is all this kind of academic, personal and cultural baggage that we put into what theatre is that makes it impossible for me to answer that question.
7) Let's speak about the Chameleons 2 CD-ROM. As you say in your article, is it intended to link theory and practice and what does it mean that it can be considered as an "artefact"? Do you mean that it can be considered a form of art in itself?
Chameleons 2 existed as a live theatre performance so, one element of the CD-ROM is a video of the live performance. But some of it is actually inter-cut or changed, there are two cameras so you get all those problems related to recording live performance and whether it is accurate or a re-presentation, or a representation, all of these kinds of issues of authenticity which I am well aware of. Again, I don't want to come down on one side or another, I think video is very useful too in terms of people saying "oh well at least I could see what, years later, that performance looked like from some perspective, even though I couldn’t be there at it". So Chameleons 2 was originally a live performance and that had its own sort of ideas in relation to theory and practice, a new art form. It was about bringing together the live and the recorded to make a more subconscious and visceral experience for the audience, which can draw them in to an intense experience in the way that the theory of Antonin Artaud describes, rather than to make them pull away, to consider the action intellectually, as in Brecht’s theory.
The CD-ROM is also an artwork in its own right because of the time and care taken in the way Thomas Jachmann and I designed the hundreds of interface screens, video clips, animations and audio-visual sequences that document and analyse the processes and theories behind the creation of the original performance. The video of the performance itself is only a very small part of the CD as a whole. Also, during the rehearsals and devising of the performance I was always aware that I would make the CD-ROM, so I was documenting that work earlier with an ‘artistic’ sensibility, knowing that I wanted an ‘artefact’ that would be dynamic and aesthetically strong.
8) Suppose you are in front of your computer screen, wearing special 3D glasses and data gloves; you insert a CD-ROM entitled Hamlet and suddenly you are surrounded, immersed in a virtual environment in which everything is interactive. You choose from the menu to be Hamlet, and start acting the story, playing the game. But once arrived at the point in which Ophelia is going to drown herself, you decide to help her and so you start to create a new story. Do you think it possible to call all this theatre?
No, that would be an interactive multimedia experience that uses a theatrical model, and a cinematic storytelling paradigm. Also, if it is on the computer screen I believe it starts to be closer to cinema, it will be more a cinematic experience. But again it would be straddling so many definitions that you have to give it a generic name, like it is a ‘multimedia performance’ or an ‘interactive cinema’ piece. Some of this will depend on the style and content of the Hamlet experience also - for example acting and directorial styles - if it comes more from a live theatrical tradition or a cinematic one. In film, the acting convention is cooler, smaller, more contained, more psychological, whereas theatrical performance tends to be externalised, exaggerated, bigger in scale. So again we come back to this problem of definition. I think in some ways it is so much of a problem that I am discounting the problem and no longer worrying about the categories.
9) In Susan Bennet's book Theatre Audiences she speaks about the "emancipation of the audience", it seems that the audience wants to play a more active role in the game of theatre. Are we going towards a kind of acting, moving, participating audience, towards what Augusto Boal called the "spect-actor"?
I think it is too broad and general to say we are going towards that, I think there have always been examples of the audience also being participants since tribal ritual and the earliest forms of theatre. More recently since the 1960s there are lots of examples from happenings and environmental theatre where the audience is brought on to the stage, so there has always been that. It has also been a feature of live art work and street theatre and other work where the audience is involved. Groups like La Fura Dels Baus in Spain and Brit Goth in Wales really involve their audiences through risk and danger, for example they have to move quickly to avoid being hurt by pieces of machinery or the moving bodies of the performers. So that kind of involvement in the event has always been there and I think, yes, there is definitely more interest in that participation, in the ways Susan Bennett's saying. I think digital media again is extending that because we are used to being interactive and participatory.
10) So what do you think about interaction?
In my work with The Chameleons Group the interaction takes place between the live performers and the media projections, but there is no real interaction between audience and the live events. However there are lot of artists and companies who are working towards that kind of interaction, particularly with just you, one participant working in a kind of digital space, helping to create a fictional or performed reality. I think the most interactive thing we have really at the moment is video games, because you press right and you go right. So artists and theatre companies are actually starting to use those paradigms and trying to make them dramatically effective. I think one of the problems is that even advanced experiments are still using media that has to be pre-recorded or pre-programmed, so actually interactivity is only really a multiple choice situation. True interactivity means more than choice, to be truly interactive needs a live performer who improvises. So we are interacting now, if you say something I interact with that; but again companies are working in that direction. At the same time, I think that reaction to a lot of performance interactivity has been disappointment. There have been a lot of experiments where the audience can decide things and they vote on a push-button pad about whether the hero should die at the end or marry the beautiful girl. Actually most audience feed-back from those suggests they haven't been successful - people say "well, hang on, why do I want to interrupt, interact, change the course of events of the story? If it is a dramatic narrative, shouldn’t the scriptwriter know which is the best story?". Now there is another viewpoint which may be increasing where of course, we say the opposite: "no, ok, Rosencrantz and Guildenstern - they are the interesting characters, I want to follow them, let's look at their story" and so they become the lead characters.
11) This is the new environmental theatre?
There are a lot of those kinds of pieces where the audience are given roles and get involved, but it is usually limited to being like ‘extras’ in a crowd scene, like the wedding guests in Tina ‘n Tony’s Wedding. IOU Theatre also recently used the same wedding guest scenario well in their CURE show, and I remember seeing the original Hair in the late 60s and being really excited that you could go onstage and dance with the cast at the end (I was a schoolboy and my school drama teacher organised the trip!) In the early 1980s I also remember going onstage as an audience member of a Living Theatre show and being directed by Julian Beck to storm the Winter Palace as part of their re-enactment of the Russian Revolution. But I think the most successful participatory theatre is where there is a small audience and it is a journey and you are closely involved with the actors and the event. In terms of Internet performance, and why the Internet is so interesting is the genuine participatory dynamic of one-to-one and one-to-many interactivity that takes place in IRC, MOOs and virtual environments. Also, interactive ‘performance’ using webcams is already very well established, but most such ‘performances’ derive from the online sex industry. Now we wouldn’t call that respectable theatre, but I think that one-to-one and very private and personal performative interaction is an important model and way ahead for online interactive theatre. There is already some performance art activity along those lines and I think there will be more performances in those terms, artists working with audience members one-to-one via webcams.
12) Could you tell us about your latest performance for the Internet?
In August 2000 we combined a chatroom environment with live video-streamed performance to create two evenings of interactive cyber-theatre, called Chameleons 3: Net Congestion. It took place in a studio theatre, where the live actors performed in front of three large projection screens playing pre-recorded digital video. There was no live audience present in the theatre, but a three-camera Outside Broadcast unit relayed the performance over the Internet. People logged in to the live event from all over the world, their computer screen combining a video window of the performance with a chat room environment. The audience was invited to affect and help create the performance by typing in suggestions for images, characters or lines of dialogue that the performers could use and improvise with. As we performed, we also kept an eye on a screen in the stage space in order to react to the comments and suggestions the audience were typing in. Some sections of the show were pre-rehearsed, others were entirely improvisational - we responded 'on the fly' to the audience's suggestions, in the same way that contemporary improvised comedy works. I think one important difference between traditional theatre and cybertheatre from a performer’s perspective is the lack of presence (other than textual) from the audience, which we found adversely affected our sense of improvisational security, and our performance judgement and timing. What is particularly disturbing to the live cyberperformer is that they do not have the same sense of control that they have in a theatre. Just as cyberspace is conceptualised as a limbo, a non-space, so too was our experience of performing in an empty theatre to a disembodied audience. The experience was alien, anxious, cold, frightening and alienating. Though communicating wildly, we felt isolated and alone - an experience often noted in other forms of cyberspatial communication. The faceless anonymity and textual mischief of the chatroom spectators also led to a distinct feeling from the performers that the audience was far more scopophilic than it would be in a traditional theatre. As many have noted, in this type of interactive theatre the audience role is changed from spectator or consumer to interactive participant. But the audience experience is quite different from conventional theatre in other ways: the experience is largely de-ritualised, and the audience is not simply engaged in a dialogue with the performers, but with each other. Reading back through the logs it became clear that many in the chatroom barely wrote anything to the performers, preferring to interact with the others in the chatroom, who were able to reply more immediately to them. Many merely commented on the action rather than providing suggestions, or made jokes at the performer’s expense. The normal theatre hierarchy privileging the actors over the audience is no longer apparent in cybertheatre, and can indeed be reversed as new power and status relations are negotiated and played out not only from audience to performer, but amongst the audience members themselves. For this reason the performers felt the audience to be far more scopophilic than in traditional theatre.
The chatroom means that there are actually two performances going on, which criss-cross, overlap and feed each other. They both divert, the chat becoming cliquey and self-contained, as does the theatre, then they come together, before diverging and breaking apart once more. This engenders a new hybrid of social and aesthetic performance working simultaneously. Because there seemed to be greater interaction between the spectators than there was between the spectators and the performers, and because of the lack of a physical audience in the studio theatre, I think that for both the remote audience and for the performers that Chameleons: Net Congestion was closer to a television experience - where you sit with friends and chat during the show - than a theatre one, where you sit in the dark in respectful silence.
13) Interaction implies participation and participation means losing the critical distance with the work of art (be it theatre, painting, sculpture, or whatever) Is this distance something essential to art, something necessary to understand it, to look critically at it? Don't you think that with interactivity there would be a loss of objectivity?
Well, that may be true. My kind of interest in theatre and performance is about losing that objectivity anyway. I mean, you'll always come back and remember and make a critical judgement about the event and you can analyse and deconstruct what has happened, so I don't see that losing the critical distance is a problem whilst you are experiencing the event. In a sense, I think one of the problems of theatre in the last 20 or 30 years is that - I shouldn't say this because I am an academic - but everything has become too academicised. I think that generally before then there was theatre practice, and then that practice was theorised by others after the event. But today it is like theory is strongly affecting and driving practice and therefore the work of many groups is so intellectualised that you are not supposed to be involved as an audience, you’re supposed to merely observe, to look coolly and in a detached way. So it is primarily designed to only stimulate the brain. There’s nothing inherently wrong with that, but I don't find that exciting theatre. I think the current fields of academic analysis and deconstructive practice tend to stagnate drama. I think postmodernity has actually been a period of retrospection and stagnation, rather than advancement and looking forward. By contrast, I think the digital and multimedia developments are taking theatre and drama forward. Although the digital is always categorised as post-modern - understandably, because it is non-linear, fragmentary, democratic, mixing high and low art etc and there's been the tendency to say "oh yes this is the quintessence of post-modern culture" - I actually disagree. I think new technologies in general and digital art and performance in particular have much more to do with the modernist idea, with striving forward, with change, with progress, with big statements, with seriousness rather than the playfulness of postmodernism, and with sincerity. This is partly because it is so difficult to manipulate and to programme computers to create great art. People that are doing digital theatre tend to be very seriously minded and are often concerned with expressing big or ‘universal’ messages and meanings, which is more the artistic sensibility from the modernist age rather than a post-modern agenda that is suspicious of grand meanings and metanarratives. The post-modern age is about being playful and cynical and using pastiche, so contrary to most academics, I actually see digital arts development as a product of a more serious, progressivist mind-set, like one found in the early 20th century modernist avant-garde.
14) When Shakespeare in Henry V, in the prologue, asks the audience to help him using their imagination, do you think that he did so because he didn't have the means - that today we have, such as projections, lights effects, digital images, virtual reality, etc. - to create a perfect illusion? The point is, if Shakespeare had the cinema or the V.R., would he have used the theatre?
I think what is great about that opening prologue of Henry V is that it is an uplifting speech because it inspires us about the power of theatre and its firing of the imagination. At the end of the day theatre is just an actor on a stage with a costume, maybe a few props and a bit of set and a backdrop. But the miracle of theatre is that it can take us anywhere, real or imagined. We don't have a problem when someone says “I am in a forest” and there are no trees. If the production is good enough, the actor is good enough, we believe it totally and because of the live aspect, the communal experience and so on, it can seem much more ‘real’, believable and credible than in a movie or in V.R.. So we must never lose the sight of the fact that theatre has that power, that inspiration, that has to do with the imagination of the audience combining with the imagination and the technical skill of the actor. So, if you ask: "would Shakespeare have used V.R.?" the answer is: “Yes, maybe, if it was there”. But the essence of what Shakespeare is talking about in the prologue for Henry V still holds absolutely true. This is why there is this argument with theatre "purists", I don't say that in a derogatory or critical way, who say "oh well we don't need all this technology because the theatre can do it through empathy, through imagination and so on". This argument goes back to everything that Aristotle talked about centuries ago in The Poetics. At the same time, although I’m interested in combining digital and video media with theatre, I still personally feel theatre is a purer, even ‘superior’ medium to film and video. But this is personal, not theoretical. It is because I have had the greatest artistic experiences of my life in a theatre space rather than in a cinema. The theatre experience just has greater spiritual and emotional power for me. And I think that is because of the experience of the live event, because of that communion.
Although cinema or V.R. may have more complex and directly representational photographic tools to create illusion, it is all still acting upon the same imagination, you still have to kind of put yourself there, from the camera’s view. You are helped by the literal and ‘realistic’ in film, television, etc. it is easier, but also because it is easier, you can be less concentrated upon it and subjectively involved. I think we are increasingly desensitised to film and particularly with the onset of much more digital illusion in film, because we know they can do anything in film and our imagination is needed less and less. But the power of ‘imaginary forces’ that the Chorus talks about in Henry V is still an essential essence of theatre, but it also still a fundamental essence of digital theatre, virtual theatre and those developments.
Visioni elettriche
di Simonetta Cargioli
(da "il manifesto", 4 gennaio 2002)
"Questo libro racconta l'arte del video attraverso le poetiche degli autori, le teorie elaborate da studiosi e critici, le opere create nel corso di quarant'anni di ricerche e di elaborazioni audiovisive in elettronica." Cosi inizia l'ultimo libro di Sandra Lischi, Visioni elettroniche. L'oltre del cinema e l'arte del video, edito dalla Fondazione Scuola Nazionale di Cinema e in libreria da poche settimane. E' un lavoro che impegna il lettore in un complesso di rimandi, di incroci e di passaggi continui tra i linguaggi artistici e le tecniche - cinema, video, pittura, letteratura, arti plastiche, arti della scena - le opere citate e analizzate, i pensieri, le teorie, le poetiche. E' un lavoro che ha impegnato l'autrice in una sintesi di molti anni di ricerca dedicati all'arte del video, campo di studi marcato da un'apertura rivendicata: l'"arte video" è un insieme di produzioni eterogenee, complessivamente indisciplinato, difficilmente riconducibile a generi tradizionali, dai confini mobili e porosi. Gli strumenti per capire e ritrovarsi in questa materia sono pluridisciplinari, si elaborano nella circolazione di pensieri e pratiche di arti, tecnologie, culture. Sin dalla metà degli anni Ottanta, lo spazio di ricerca che Sandra Lischi si è ritagliata in contesto italiano e internazionale si è definito con il dialogo serrato tra il video e il cinema: tecniche, linguaggi, forme, culture e prospettive. Dopo Cine ma video (ed. ETS, Pisa, 1996), l'autrice approfondisce, problematizza e articola ulteriormente alcuni aspetti di quel dialogo, proponendo ora uno studio complesso e completo. Sandra Lischi è tra le persone che in Italia hanno accompagnato trent'anni fa le graduali comprensione e diffusione del video e della cultura legata alle arti elettroniche: titolare del primo corso universitario in Italia sulla videoarte, a Pisa, organizzatrice di eventi, studiosa, ha scritto saggi e libri. L'arte del video ha quarant'anni, ha la sua storia, la sue memorie, i suoi autori, i suoi studiosi, le sue opere, le sue ricerche; tutto questo è intrecciato nel libro, in una fitta narrazione. L'autrice ha scelto alcuni temi e snodi teorici che a lei paiono particolarmente fecondi per un discorso teorico e critico sull'arte del video: solo per fare pochi esempi; le relazioni tra il video, le arti e i media, le nuove forme della narrazione, le relazioni con la poesia, con la scienza, con il pensiero, le sinfonie urbane e lo sguardo sul mondo, le videoinstallazioni. Oggetto della ricerca sono prima di tutto le opere, che celano le poetiche con le pratiche tecniche e intellettuali degli autori: nel libro non è fatta distinzione tra immagine analogica e digitale, tra video monocanale e installazioni. Ogni capitolo termina con una sezione di "pensieri a confronto", dove è data la parola a citazioni di autori, teorici, studiosi, e con una "lettura di opere", dove una o più opere sono analizzate in modo dettagliato e approfondito. Dialogo con il cinema, la scelta di fondo: "Per capire come funziona, come si forma sullo schermo l'immagine elettronica, bisogna ricorrere ai manuali di 'fisica della televisione', che aiutano a individuare o a dedurre anche le potenzialità di linguaggio di questo medium; ma per illuminare le poetiche, le estetiche, le modalità creative nate dall'uso artistico di questa tecnologia è fondamentale e inevitabile il riferimento al cinema Perché l'immagine elettronica fa parte della "famiglia delle immagini in movimento", e perché, se c'è una cesura tecnologica, c'è comunque sempre da rilevare una continuità culturale tra cinema e video. Inoltre, uno spazio caro a Sandra Lischi nel quale la sua ricerca si addentra incisiva e dettagliata, è quello dei richiami ai sogni e alle utopie di certo cinema che in ogni epoca sfugge alle gabbie della produzione commerciale delle visioni atrofizzate, per dare corpo a altre visioni, impegnate, politicamente, esteticamente, culturalmente. Utopia: il video è anche il cinema che non c'è stato, e la televisione che non ci sarà. Le visioni scatenate del cinema delle avanguardie storiche, del cinema sperimentale, di certo cinema moderno d'autore, sono messe a dialogare con momenti e ricerche della ricerca video internazionale. Il dialogo è anche quello dell'autrice con coloro che, a livello internazionale, hanno animato un dibattito aperto sull'arte cinematografica; alcuni esempi, Gene Youngblood (teorico dell'expanded cinema negli anni '70); Adriano Aprà e Dominique Noguez (studiosi delle forme del cinema sperimentale); con un richiamo approfondito a certi teorici dell'arte quali Carlo Ludovico Ragghianti (teorico del cinema come arte figurativa, negli anni '50), Rudolf Arnheim. Roland Barthes diceva che è il lettore che fa il testo: in questo libro, il lettore - amatore o specialista - è libero di scegliere il senso e l'ordine della lettura, i vari capitoli non seguono un ordine progressivo; e è invitato a operare degli slittamenti e a far passare opere e riferimenti da un "capitolo" all'altro. Completano il libro, le schede sugli autori e sulle opere analizzate; riferimenti - quanto importanti - sulla reperibilità dei video citati. Invito, per tutti, a iniziare nuovi viaggi visionari e strapparsi alle abitudini audiovisive. Molto curato è l'apparato fotografico; ricca e completa la bibliografia.
Segnalazioni
Nell'ambito del Festival Temps d'images. Smascheramenti di immagini e corpi in tempo di Carnevale - Biennale di Venezia (1-10 febbraio 2002) appuntamenti con lo spettacolo: installazioni, performance, teatro e danza, proiezioni di documentari teatrali da Raisat e Arte
Per la sezione spettacolo tra le prime assolute: Motus, Twin rooms: la camera d'albergo - set cinematografico del gruppo riminese - si sdoppia, dotandosi di un enorme schermo o gigantesca lente di ingrandimento, che moltiplica gli sguardi e avvicina "pericolosamente" i corpi dei personaggi al pubblico sin nei dettagli più intimi e scabrosi.
E ancora, Hotel Modern che propongono Snail trails (Olanda): nel loro teatro un elaborato métissage di linguaggi (videoriprese live, miniaturizzazioni e macroproiezioni) "per dar vita a un singolare genere di spettacolo e film d'animazione insieme".
Programma Festival 'temps d'images' - biennale di venezia
info: das2@labiennale.com
venerdì 1- domenica 10 febbraio
Giardini della Biennale/Padiglione Italia ore 10 - 19 (venerdì 1 alle 15) DEEP IN THE WOOD (prima italiana) installazione di Thierry De Mey (Belgio) in coll. con Riccione TTV
sab. 2 febbraio
Teatro Piccolo Arsenale, ore 20.30 PALERMO PUO' ATTENDERE (prima assoluta) un progetto di Daniele Ciprì e Franco Maresco produzione Associazione Culturale "Il Genio", La Biennale di Venezia
venerdì 1-domenica 10 febbraio
Giardini della Biennale/Padiglione Italia IMMAGINI DEL TEATRO (proiezioni) proposte da ARTE (dall'1 al 5 febbraio) e da RAISAT / La Biennale di Venezia (dal 6 al 10 febbraio).
L'intero catalogo delle produzioni video che La Biennale di Venezia ha realizzato insieme a Raisat-show nel corso del 1999, del 2000 e del 2001. Si tratta di spettacoli che hanno avuto la loro genesi a Venezia prima di approdare sulla scena nazionale ed europea, come l'Otello di Eimuntas Nekrosius, testimoniato in tutte le sue fasi di ricerca (Schizzi da Otello, Progetto Otello, Otello), o eventi unici e irripetibili in altri luoghi, come Her Bijit, di Pippo Delbono, che apriva proprio nel 1999 la programmazione, da allora permanente, dei settori dello spettacolo dal vivo della Biennale, con il suo particolarissimo "viaggio" negli spazi dell'Arsenale. Presenze straniere come quelle di Igor Dromesko e i Fratelli Forman (figli del regista Milos), animatori di una Baraque dove non solo si fa spettacolo, ma si beve e si mangia in compagnia; o come quella del regista polacco Krystian Lupa, che soltanto a Venezia ha portato l'eco internazionale dei suoi Fratelli Karamazov. Ma anche le compagnie italiane di ricerca più internazionalmente note, come la Socìetas Raffaello Sanzio, o che cominciano ad affermarsi sulla scena anche europea, come Teatrino Clandestino. E ancora: la fittissima presenza di coreografie e danzatrici che Carolyn Carlson ha voluto a Venezia per Solo Donna, con Malou Airaudo, un'inedita Carla Fracci diretta dalla stessa Carlson, Susanne Linke, Marie-Claude Pietragalla, Sabine Kupferberg e tante altre artiste a costituire un panorama vario e sfaccettato per stili e scuole a cui va aggiunta la rara testimonianza del maestro di butoh Kazuo Ohno. Infine, un ciclo dedicato alle meno eseguite delle opere di Igor Stravinskij, la sua intera produzione cameristica e una testimonianza sull'opera contemporanea con Camera obscura di Marco Di Bari. In visione anche documentari del canale televisivo franco-tedesco Arte. Tra i materiali: sabato 2 febbraio, ore 13.30 lunedì 4 febbraio, ore 17.00 martedì 5 febbraio, ore 10.00 PATRICE CHÉREAU / SHAKESPEARE (1999) documentario trasmesso su ARTE il 21 novembre 2000 regia Stéphane Metge coproduzione ARTE France, Azor Films durata 88' "Ve ne dirò di tutti i colori..." A tavola gli apprendisti attori ascoltano religiosamente l'analisi che Chéreau fa di Shakespeare . sabato 2 febbraio, ore 11.45 lunedì 4 febbraio, ore 12.30 BROOK PAR BROOK (2001) di Simon Brook coproduzione ARTE France, AGAT Films durata 90'.
sabato 2-domenica 10 febbraio
Giardini della Biennale/Padiglione Italia 01 ZOOVENICE (prima assoluta) un progetto di Fabio Massimo Iaquone e di Art Draft Alexandro Ladaga e Silvia Manteiga prod.La Biennale di Venezia performance sabato 2, ore 16.00 e 17.30 dal 5 al 10 febbraio, h10.00-19.00
lunedì 4-martedì 5 febbraio
Teatro Fondamenta Nuove, ore 20.30 SNAIL TRAILS (prima italiana) uno spettacolo di Hotel Modern (Olanda)
martedì 5-mercoledì 6 /sabato 9-domenica 10 febbraio
Corderie dell'Arsenale, ore 16.30-18.00-19.30 LA NOTTE DEL QUINTO GIORNO (prima assoluta) di Franco Maurina (Italia) frammento di uno spettacolo di teatro automatizzato in maquette, scala 1:10 con Alvise Battain produzione Teatro Stabile di Bolzano, La Biennale di Venezia
martedì 5-mercoledì 6 febbraio
Teatro Piccolo Arsenale, ore 20.30 SC35c (prima italiana) coreografia Jean-Michel Frère e Namur Break Sensation (Belgio) ideazione e regia Jean-Michel Frère testi Tim Burton, J.-M.Frère
sabato 9-domenica 10 febbraio
Teatro Piccolo Arsenale, ore 20.30 TWIN ROOMS (prima assoluta) spettacolo ideato e diretto da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò/Motus (Italia) produzione Motus, La Biennale di Venezia
sabato 9-domenica 10 febbraio
Teatro Fondamenta Nuove, ore 19.00 SOLO FOR TWO (prima italiana) Coreografia, interpretazione e musica Niels "Storm" Robitzky.
Attraversamenti
Teatro e Cinema nel progetto Rooms dei Motus
di Anna Maria Monteverdi
Il luogo
Rooms come già Orpheus glance è costruito intorno ad una struttura "abitabile". In Orpheus la scena si definiva in funzione del corpo e dei movimenti degli attori all'interno delle stanze con cui era suddiviso il dispositivo scenografico a due piani: bagno, cucina, salotto, camera da letto; un vero ambiente domestico ricostruito sin nei dettagli che altro non era se non l'Ade, mitologico e cocteauiano, segnato dalla presenza di un'Euridice inseparabile ombra di Orfeo e suo oggetto-reliquia, oggetto-ricordo. In Room 969 un'unica struttura incornicia l'interno di una camera d'albergo; due soli gli ambienti contigui e comunicanti percorsi a vista dagli attori: stanza da letto e bagno. Personaggi in coppia, a gruppi o singoli la attraversano e la abitano lasciandovi impronte o cancellando tracce del loro passaggio; i loro movimenti sono circoscritti in questo spazio ristretto: le storie passano dal letto alla vasca e viceversa. L'acqua cancella i resti dell'intimità, sciacqua via i ricordi. Purifica.
Room è la residenza temporanea dove trovano spazio frammenti di vite di cui conosciamo solo l'inizio e la fine (l'entrata e l'uscita) senza un prima e un dopo. Quasi una sensazione di immobilità di azione in questa rigida delimitazione dello spazio, e di uscita dal tempo. E' il luogo stesso a suggerire questa dimensione astratta: la camera d'albergo è un (non) luogo intimissimo e anonimo insieme, isola di solitudine, boudoir per incontri veloci, lontani dal quotidiano, per attimi di affinità momentanea e per ogni genere di trasgressione possibile, che trasuda le mille identità dei suoi ospiti, salvo poi tornare alla condizione anonima originaria, room, appunto, una volta cancellati i segni del loro passaggio. Luogo-border line relegato ad ospitare della nostra vita le funzioni strettamente primarie: dormire, lavarsi, amare secondo un ordine ed un rito personalissimo e sempre diverso. Il luogo ha un'apparenza di familiarità (s)confortante e contemporaneamente di totale estraneità: arredi in formica, pareti rosa, televisore, frequenze da filodiffusione, piastrelle lucide, pulizia estrema: "Le piastrelle, come la pittura lucida e scivolosa, sono presenze rassicuranti, che permettono di sterilizzare anche tattilmente lo sguardo dal possibile rischio di un'intimità anonima che accumula e ispessisce l'aria. C'è forse un legame inevitabile, quasi vischioso, tra le azioni della persona e la scenografia momentanea... Nei luoghi chiusi, facilmente lavabili, si possono pensare le azioni più estreme, che finiscono presto risucchiate nella vertiginosa idea di scolo".
Un carattere le è proprio: l'esclusione dall'esterno. Interior. Tutto accade intra moenia.
La struttura è quadro che isola e insonorizza dal mondo. E' anche la scatola ottica davanti alla quale poter esercitare, con maggior fascino, la propria (voc)azione voyeuristica (in quanto spettatori).
Ancora una volta, teatro come luogo dello sguardo:
"Quando entri e ti serri nella tua stanza d'albergo puoi essere ovunque e non sei da nessuna parte, se lì e basta, come a teatro" (Motus, appunti per Vacancy room).
Dialoghi come citazioni letterarie, atmosfera da b-movie. Tutto rimanda ad un già visto, ad un già sentito: è accaduto, accade continuamente, accade sempre così. Passioni e perdite. Orfeo ed Euridice. Anestesia totale dentro un luogo asèttico, "come un discorso d'amore letto da uno speaker". Ogni storia è come se avesse la sua musica e i suoi dialoghi già incisi su un registratore o impressi su una pellicola. (come la statua in Le Testament d'Orphée di Cocteau dalle cui bocche escono romanzi, poemi e canzoni in forma di nastri).
Lo sbattere di una porta, e la musica riparte.
La stanza continua ad essere la stessa. (E' la stessa?) Cosa trattiene di tutte le storie? Cosa assorbe? Polvere: "Squame della nostra pelle che si depositano come impronte digitali sulle lenzuola, nella stanza; nient'altro che granelli luminosi che brillano attraverso i raggi di sole dalle persiane della camera".
Teatro o cinema?
Lo svolgimento dello spettacolo rivela, come già Orpheus, molte affinità con il procedimento filmico. In Room 969 progettata per Oltre90 a Milano il soggetto stesso è un vero e proprio topos a lungo esplorato e rivisitato dalla cinematografia e da un certo film di genere (il cosiddetto blue movie) .
La struttura (che ricorda i due schermi contigui e non sincronizzati di Chelsea Girl di Warhol) richiama lo schermo cinematografico ed un set, mentre le situazioni stesse sembrano prelevate dal cinema (nella sua forma non definitiva di installazione, i dialoghi erano effettivamente presi a prestito da film di Bigas Luna). Tutte le scene sono organizzate secondo la tecnica del film: tagli, dissolvenze incrociate, effetti tendina, sequenze accostate insieme seguendo una logica di montaggio. Se tutte le brevi storie sono concepite come azioni continue, i passaggi da un episodio all'altro sono pensati come veri e propri "raccordi". Il contenitore-ambiente, ad un primo colpo d'occhio, produce, inoltre, una clamorosa impressione di "inquadratura" (di cui le pareti laterali sarebbero i bordi) mentre lo sguardo dello spettatore, costretto ad inseguire da una stanza all'altra (ovvero da un estremo e l'altro del palcoscenico) i personaggi, diventa l'occhio mobile della macchina da presa.
La scena si divide in campo attivo (il visibile) e in fuori campo (l'invisibile), delimitato quest'ultimo, dalle porte che permettono l'uscita sul fondo dei personaggi. I due campi interagiscono (come in certi film di Warhol: Kitchen) ma solo in un unico momento: gli attori, che rivestono più ruoli, escono dallo spazio a loro assegnato per andare a cambiarsi d'abito intorno e di fianco allo spettatore uscendo, cioè, doppiamente e dal campo focale centrale e dal luogo teatrale convenzionale, attraversando la soglia che delimita il confine del dispositivo scenico, oltrepassando, in sostanza il limite della rappresentazione (annullando o negando, così, la rappresentazione stessa). I personaggi entrano nel "fuori campo" (in questo caso, lo spazio dello spettatore) producendo, così, un effetto percettivo, straordinariamente détournante, di "uscita dallo schermo". Immediato il richiamo a La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen ma (soprattutto) a Videodrome, il film manifesto di Cronenberg: dallo schermo televisivo esce una pistola di carne che spara realmente al protagonista; la finzione (mediatica) sconfina nella realtà.
Il progetto teatrale nella sua forma di cantiere in costruzione permanente - come è tipico delle creazioni dei Motus - prevederebbe anche un ulteriore sguardo: l'introduzione di microcamere per registrare ("guardare") il movimento degli attori; le immagini, proiettate su uno schermo all'esterno della struttura (che "doppierebbe" come specchio, la struttura stessa), contribuirebbero, così, a dare l'impressione di assistere ad un "doppio film". Questa la struttura prevista all'interno del Festival della Biennale di Venezia, in cui il progetto teatrale prende il titolo significativamente di Twin rooms.
Vacancy room (titolo dell'opera nella sua versione in progress) mostra, ancora una volta, il volto del Nuovo Teatro secondo i Motus, la sua vera (e doppia) natura, la sua "nuova carne": una perfetta simbiosi con i linguaggi della comunicazione della contemporaneità, una vocazione per l'attraversamento dei territori più svariati della visione, una visio eclettica e poliedrica, irrispettosa delle specificità dei generi. L'artmaker organizza a teatro il proprio materiale drammaturgico in forma di "montaggio" e in forma di percezione schermata, attraverso, cioè, un'esperienza mediata: televisiva, letteraria, cinematografica, video, fotografica, grafica, musicale, architettonica, lavorando sul cut up di burroughsiana memoria, sul découpage di "oggetti già fatti", sulla tecnica del mixer e su quella artigianale dell'intarsio. Questi frammenti, prelevati da ogni contesto, incastonati insieme contro ogni classificazione sistematica, fanno ricordare le parole dell'Anti Edipo di Deleuze-Guattari: "Siamo nell'età degli oggetti parziali, degli avanzi e dei residui. Non crediamo più a quei falsi frammenti che, come pezzi di una statua antica aspettano di essere completati e incollati per comporre un'unità che è un'unità d'origine. Non crediamo più ad una totalità d'origine né ad una totalità di destinazione".
L'amministrazione e il teatro a Palermo
Una leggenda e un'istantanea
di Clara e Giovanni Gebbia, Teatro Iaia
I. La leggenda
Abbiamo sentito questa storia. Non sappiamo se sia vera. Non sappiamo chi sia stato il primo a raccontarla, da questo punto di vista sembra una di quelle ricette di cucina che tutti ripetono, ma nessuno ne conosce l'autore. Come le leggende popolari.
Durante il commissariamento dell'amministrazione comunale due esponenti di un gruppo di ricerca palermitano prendono un appuntamento con il responsabile di una rassegna cittadina, per proporre uno spettacolo. Parlano prima regolarmente con la segretaria. Fanno anticamera, le poltrone sono abbastanza comode. Arriva il loro turno. Bussano. Sono ricacciati indietro. Fanno ancora anticamera. Le Frau hanno la pelle scorticata ma sono comode. Finalmente riescono ad entrare. Il responsabile non li guarda negli occhi e loro cominciano a parlare. Dopo qualche secondo vengono interrotti: "Guardate io ho molto lavoro, quindi voi potete anche parlare ma io non vi ascolto e continuo a lavorare... Avete visto la ragazza che è entrata prima di voi? Lei ha parlato per circa dieci minuti ma io non ho ascoltato una parola quindi... decidete voi...".
Sul finale della storia ci sono due versioni. La prima dice che uno dei due teatranti abbia fatto una tirata di cinque minuti sulla deprecabile pratica di ignorare qualsiasi criterio meritocratico o curriculare per scegliere gli spettacoli da inserire nelle rassegne cittadine, abbia poi sbattuto la porta decidendo di trasferirsi in un'altra città, mentre il funzionario ha continuato a lavorare.
La seconda versione narra invece che l'altro teatrante, notoriamente scettico sulla positività dei criteri di valutazione estetica e affetto da un inguaribile gattopardismo, abbia rinunciato a parlare e questa sua apatia ha contagiato il collega. I due sono andati via lasciando semplicemente il materiale cartaceo dello spettacolo sul tavolo del funzionario, che ha continuato a lavorare.
Ci siamo chiesti quale sia il significato di questa storia.
Anche in questo caso c'è un bivio, che porta a due interpretazioni.
La prima si basa sulla linfatica sfiducia dei siciliani nei confronti di qualsiasi istituzione e ci porta a ritenere che la storia sia semplicemente un prodotto mitopoietico di tale sfiducia, come corollario questa interpretazione ha l'ovvia conseguenza che la storia non sia vera.
La seconda interpretazione si basa invece sulla situazione contingente in cui la storia è ambientata. Il commissariamento del comune palermitano ha azzerato la sua valenza politica e ha fatto sì che da ogni criterio di giudizio, dal campo economico a quello artistico, siano state purgate le componenti terrestri, dalle simpatie personali al clientelismo. Il giudizio, approdando alle coste dell'Iperuranio, è così diventato una sorta di oracolo inappellabile e al di sopra della comprensione umana. Questa esegesi ha come conseguenza che i due teatranti abbiano in realtà incontrato la sacerdotessa di un culto a loro sconosciuto.
Ma, al di là delle leggende, come stanno veramente le cose?
Tentando di superare la nostra quasi inguaribile propensione a dar credito alle favole come struttura profonda della realtà, proponiamo questa sommaria istantanea, tenendo conto che quella che segue è una descrizione nuda e cruda, che dà brevemente conto della cosiddetta "rinascita palermitana", senza peraltro approfondirne adeguatamente le cause (cosa impossibile in questa sede) né tantomeno gli effetti.
II. Un'istantanea
Dopo le ultime elezioni regionali e comunali lo scenario politico - amministrativo di Palermo è cambiato. Per chi fa teatro, lavorando con gli enti pubblici, si apre quindi un periodo di incognite legato alla necessità di relazionarsi con nuovi responsabili che fanno capo a correnti politiche diverse rispetto alle precedenti.
La sensazione di incognita, come si evince dalla leggenda, è stata in un certo senso preparata dal periodo di "vuoto politico" che ha vissuto la città durante il commissariamento dell'amministrazione comunale, in seguito alla candidatura di Orlando alla presidenza regionale.
Gli anni dell'amministrazione Orlando, anche sull'onda di una volontà di rinascita civica seguita agli attentati che hanno causato la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, hanno significato certamente una sorta di rinascita per la cultura palermitana. Il punto di partenza di tale rinascita è stata senza dubbio la volontà precisa di riqualificare, ristrutturare e restituire alla città, dei luoghi preziosi conosciutissimi o misconosciuti e in disuso da anni.
La riapertura del Teatro Massimo chiuso dal 1974 e riaperto nel 1997 è stata quasi uno choc per ogni cittadino palermitano, che la credeva impossibile quasi quanto la cattura di Totò Riina.
La scoperta, per molti palermitani, dell'esistenza della chiesa dello Spasimo, divenuta luogo suggestivo di eventi teatrali e musicali e anche, forse per la straordinaria commistione di bellezza e rovina, simbolo della città, è un altro evento che ha segnato questi anni.
Anche grazie al fatto che si è puntato sulle manifestazioni culturali per promuovere un'operazione culturale che desse una nuova immagine della città, si sono succedute una serie di iniziative che non hanno precedenti.
- Il "Festino" di Santa Rosalia che, da festa strettamente popolare e legata ad alcuni quartieri e ceti sociali e al tradizionale banchetto a base di "babbaluci", è invece diventato un momento di coesione e di visibilità per l'intera città.
- L'istituzione di una rassegna estiva di teatro, cinema e musica (Palermo di scena) che è servita sia da occasione produttiva per le realtà locali sia da veicolo di promozione per eventi che prima non avevano possibilità di raggiungere la città.
- Maggiore riscontro a livello nazionale ha avuto il festival di Palermo sul Novecento la cui prima edizione risale al 1996, prima affidato alla direzione artistica di Roberto Andò e attualmente diretto da Moni Ovadia. Il festival ha ospitato artisti internazionali del calibro di Kusturica, Greenaway, Pinter, Barberio Corsetti, Stein, Nekrosius e ha dato l'occasione per la messa in scena di testi di autori siciliani come Consolo, Perriera, Rebulla e altri.
- Va inoltre ricordata la riapertura del Teatro Garibaldi affidato a Carlo Cecchi con un progetto di residenza triennale che ha dato occasione ad alcuni attori palermitani di lavorare all'interno di una compagnia di rilievo nazionale ma che ha anche, con la partecipazione del teatro nel circuito del festival dei teatri d'Europa, inserito Palermo nel panorama culturale continentale.
- Il progetto legato al Teatro Garibaldi è nato sulla base delle precedenti ospitalità di Tierry Salmon e Virgilio Sieni che avevano l'obbiettivo di far incontrare le realtà palermitane con artisti di fama internazionale in modo da favorirne la crescita.
- L'attività degli anni d'oro dell'amministrazione Orlando è legata anche alla volontà dell'Assessore alla Cultura Francesco Giambrone di creare all'interno dei cantieri Culturali alla Zisa una cittadella dell'arte. La strategia dichiarata dell'assessore era quella di veicolare attraverso la cultura una riqualificazione del territorio, non a caso sia gli interventi al Garibaldi che quello alla Zisa si situano all'interno di quartieri ad alta densità mafiosa.
L'aspetto positivo di queste esperienze è legato proprio a quell'operazione di promozione di cui si parlava, se essa avrà un'efficacia a lunga scadenza è questione diversa.
Il fallimento dell'idea di stabilità al Garibaldi, o almeno il momento di incertezza sulla sorte del teatro, coincide con la rottura del sodalizio tra Matteo Bavera e Carlo Cecchi che ne sono stati i responsabili in questi anni. Cecchi ha peraltro accolto l'invito del candidato sindaco Francesco Musotto a proporsi come assessore alla cultura della sua "squadra", sconfitta nell'ultima tornata elettorale dal neosindaco italoforzuto Cammarata (anche dal candidato del centrosinistra Crescimanno, per dovere di completezza).
Ma tale fallimento è ancor più evidente ai Cantieri Culturali alla Zisa i quali piuttosto che divenire una cittadella dell'arte, con le strutture e i progetti che una tale impostazione comporta, hanno vissuto sulla base di attività estemporanee, tale esito spinge a porsi degli interrogativi sulla capacità dell'amministrazione di creare delle strutture sorrette da una progettazione culturale lungimirante e sganciata da una prassi di semplice finanziamento a pioggia per gli operatori culturali.
Giovani su misura
In risposta all'intervento di Federica Fracassi
di Sisto dalla Palma
Con il dibattito sulla questione dei giovani, mi torna in mente Benedetto Croce il quale a proposito del problema dei giovani osservava che l'unica soluzione che lui conosceva era quella di aspettare che diventassero maturi.
Si, ma intanto?
La tentazione di indulgere a classificazioni generazionali è la più ricorrente, ma si finisce col perdere di vista i dati reali, la concretezza del fare artistico, l'analisi dei processi linguistici, culturali e politici in atto. Tanto per fare un esempio fra i più giovani artisti proposti dal CRT c'è stato il vecchio Kantor.
Il fatto generazionale è un dato del tutto irrilevante e sviante dal punto di vista critico. Cosa altrettanto sospetta è il problema delle teniture brevi di uno spettacolo all'interno di una programmazione che va affrontato tenendo presente una serie di variabili operative: le esigenze della calendarizzazione interna, il raccordo con programmi nazionali o internazionali; le esigenze tecniche e organizzative, i parametri posti dalle normative ministeriali e locali sia al teatro che ospita o che produce sia alla compagnia ospitata. Altro che "ciarpame burocratico" come sostiene qualche critico superficiale, dimentico che la erogazione del denaro pubblico è legata a criteri rigorosi: discutibili e modificabili quanto si vuole, ma che vanno pur sempre rispettati finché sono in vigore.
E ancora occorre tener presenti gli orientamenti del pubblico, la necessità di esplorare, in una formazione sperimentale, spesso non conosciuta, l'impatto con il segmento del pubblico destinatario; la politica di sostegno nei confronti di formazioni giovani che il CRT persegue. A volte la tenitura è breve perché è nell'interesse di una formazione avere il tempo di saggiare "in itinere" il risultato del proprio lavoro. Il che non toglie che poi il CRT riprenda, rilanci e insista su una proposta quando ne ricorrano le condizioni. In alcuni casi siamo arrivati a riproporre delle "personali" con una programmazione articolata per un artista che aveva debuttato in stagioni antecedenti. Altre volte uno spettacolo può esser tenuto per poche sere perché troppo oneroso dal punto di vista economico e organizzativo: ci sono spettacoli che comportano un passivo per il teatro anche quando si fa il tutto esaurito. In altri casi ci sono gruppi che hanno necessità di essere presenti a Milano per ragioni di pubblico, di critica e di riconoscimenti ministeriali. Il CRT, che è da sempre impegnato sul fronte della documentazione delle varie tendenze, non può sottrarsi al dovere di dare ospitalità anche a formazioni minori, o, non ancora affermate. Quando ai carnets dei cosiddetti "addetti ai lavori" così carichi di impegni confesso che preferiamo privilegiare le ragioni dei gruppi e del pubblico.
Tutto il resto, Federica, è frutto di analisi sommarie di critici che sentenziano senza conoscere le esigenze complessive poste dalla dinamica organizzativa entro un quadro cogente di prescrizioni e norme per ora ineludibili. Parlare di palcoscenico all'italiana, di sedi in cui gli spettacoli sarebbero destinati al grande pubblico, significa aver perso il contatto con le istanze della espressività, della ricerca e della sperimentazione, e soprattutto con le proiezioni che queste pongono in essree a livello della prassi. Significa in definitiva riproporre la pregiudiziale reazionaria che tende a ghettizzare i processi non omologabili con i quadri di riferimento attribuiti a un supposto ruolo istituzionale e negare la pari dignità delle varie aree culturali. Oltre tutto i dati di frequenza del pubblico, in costante crescita, sono per noi incoraggianti, come è vero che il CRT ha avuto il riconoscimento dal Comune di Milano per l'incremento degli spettatori.
E, dunque, "Sutor, non ultra crepidam"
Milano, 21.01.2002
London Calling
di Francesca Lamioni |
MIME FESTIVAL
Mime Clown Visual Theatre
Londra, 12/27 gennaio 2002
Dove
BAC (Battersea Art Centre)
Lavender Hill, London, SW11 5TN
020 7223 2223
The Circus Space
Coronet Street, London, N1 6HD
020 7613 4141
Croydon Clocktower
Katherine Street Croydon, London, CR9 1ET
020 8253 1030
ICA
The Mall, London, SW1Y 5AH
020 7930 3647
NT (National Theatre)
South Bank, London, SE1
020 7452 3400
Royal Festival Hall
Belvedere Road, London, SE1 8XX
020 7960 4242
Interessante festival che vede in scena gruppi di teatro, oltre che inglesi, statunitensi, costaricensi, sudafricani, spagnoli, italiani, russi, francesi, tedeschi.
L’Italia ha proposto l’intervento di Marcello Magni , fondatore del Theatre de la Complicité, con Arlecchino e Zanni, rivisitazione dell’antica commedia dell’arte.
(Mart. 22/Merc. 23 , BAC)
L’italiana Simona Levi, residente in Spagna dal 1990, ha proposto Femina Ex Machina con la compagnia Conservas.
Lo spettacolo e’ uno sguardo lucido ed ironico - a tratti crudele sulla condizione femminile: macchinari complessi, film, musica dal vivo e situazioni paradossali creano uno spettacolo dinamico e disinibito: da segnalare il tableau della donna che congela le proprie lacrime e le ricicla in seguito come cubetti di ghiaccio.
La Levi ha collaborato con noti gruppi teatrali spagnoli, come la Fura Del Baus e General Electrica.
Lo spettacolo e’ consigliato ad un pubblico adulto.
(Ven. 25/Dom.27, ICA )
«Inteligente e vitale, un teatro che cerca nuove forme espressive : fantasioso e coraggioso» (“El Pais”)
La Compagnie Josef Nadj (francese) ha proposto Comedia Tempo, ispirato alla vita e alle opere dell’artista ungherese Geza Csath, scrittore e psichiatra, morto all’eta’ di 32 anni alla fine del ventesimo secolo.
Comedia Tempo evoca il mondo misterioso e allucinato di Freud, Kafka, Csath nell’Europa centrale.
Misto di danza e teatro, con un set che sembra aver vita propria, la visionaria produzione di Nadj conduce come una giostra in un mondo di sogno e incubo.
Josef Nadj, nato nella ex Yugoslavia, si e’ trasferito in Francia negli anni ottanta e ha studiato con Marceau, lavorando in seguito con coreografi come Mark Tompikns, Catherine Diverres e Francois Verret.
Ha fondato i Cri du Camelon per la French National Circus School, e’ stato regista del Centre Choregraphique National d’Orleans dal 1995 e col suo ensamble ha girato il mondo.
(Ven. 18/ Dom. 20, Queen Elisabeth Hall (National Theatre)
“Un design anarchico ed eccentrico, giochi di equilibrio ed acrobazie inverosimili. L’inesauribile immaginazione di Nadj ha creato un incanttao mondo di meraviglie» (“Le Figaro”)
WORKSHOPS
Angela De Castro : How to be stupid
The Why Not Institute, 020 8987 6661
whynotinstitute@aol.com
Anner Eisenberg: Clown Theatre
Diorama Arts Centre, 020 7916 5467
Avner@diorama-arts.org.uk
Desmond Jones School of Mime: Physical Story-telling for the theatre
The Desmond Jones School of Mime and Physical Theatre
020 8747 3537
enquiries@desmondjones.co.uk
Nola Rae: Broaden your mime
Diorama Arts centre
Theatre de l’ange fou et Ecole de Mime corporel dramatique: Making visible the invisible
Ecole de Mime Corporel Dramatique
020 7263 9339
Belgravia worshops, 157-163 Marlborough Road, London N19 4NF
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