ateatro
numero 2 - 18 febbraio 2001
a cura di Oliviero Ponte di
Pino (per ora)
Il numero 2 raccoglie
diversi contributi che mi sono stati inviati in queste settimane.
Riflettono ovviamente le convinzioni e posizioni degli autori,
ma mi sono sembrati per diversi aspetti interessanti, soprattutto
come stimolo alla discussione.
INDICE
Il
teatro è ecologico? Scena ambiente antinatura
di Massimo Zanasi (Arka
Teatro)
Come si salvano le balene?
Moby Dick in liquidazione volontaria
di Isabella Scaramuzzi
Metafore,
metonimie e sineddochi
Un mail di Stefano Bartezzaghi sulla Lolita ronconiana
(cfr. Lolita videogame di Oliviero Ponte
di Pino su "ateatro 1").
Im
Museum der Moderne
Peter Steins monumentaler Faust" in Berlin, endlich
mit Bruno Ganz
von Thomas Irmer (in tedesco)
Il teatrino della animazioni flash
Andrew Wyley agente della Royal Shakespeare Company
Imperdibile: Chi non legge questo libro è un . I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, Milano, 1999. |
Il
teatro è ecologico?
Scena
ambiente antinatura
di
Massimo Zanasi (Arka Teatro)
Gli
spazi naturali, sia quelli selvaggi che quelli degli ambienti
<arredati> nei borghi e nelle città, svolgono una funzione
essenziale nella comunicazione artistica, sia come linguaggio che
come sistema di riferimenti topologici e simbolici. Nella natura
ci muoviamo e agiamo quotidianamente ed artisticamente: sia in
quella terra dove <perdersi> a la Thoreau, nelle
campagne, nei mari e nei monti, che in quella tecnologica dove
<ritrovarsi>, negli spazi urbani, nei giardini, nelle
piazze, nei viali, lungo i fiumi che attraversano le città.
Dallo spazio che ci circonda, o in cui ambientiamo le nostre
ricerche, dipendono pure i messaggi che ci giungono dalle varie
parti del mondo.
C'è infatti omologia tra i tipi di comportamenti, che possono
essere considerati come testi della cultura scenica, e la
continua progettazione e rimanipolazione della Terra, del mondo.
Dal momento che i testi di una cultura sono riconducibili ad un
modello astratto che assume spesso figure naturali, è possibile
anche utilizzare i luoghi o le ambientazioni terrestri come
metalinguaggio per la ricerca e la sperimentazione nella cultura.
Le interpretazioni semantiche, le chiavi di lettura più semplici
sono quelle che procedono per opposizioni: interno/esterno,
dentro/fuori, vicino/lontano, corpo/spazio, natura/cultura, etc.
Ebbene, le culture teatrali contemporanee e di avanguardia
tendono a far scorrere il punto di vista lungo i confini di
questi opposti o addirittura a capovolgere il senso dei modelli
più o meno tradizionali.
Queste ricerche, naturalmente, si complicano a seconda dei
contesti storico-culturali e definiscono meglio i loro nuovi
contorni nella azione scenica, dai rituali mutuati dalla
festa alle forme più raffinate del teatro colto, dal cosiddetto
teatro di poesia sino alle attuali forme dello spettacolo
multimediale e dell'installazione.
Il teatro, che si fondava pure su una precisa codificazione degli
spazi <naturali>, dà oggi forte rilevanza alle frontiere
di tali spazi, attraverso una permeabilità tra tutti gli
elementi della scena, fino alla rinuncia alle stesse architetture
teatrali per una ricodificazione dei linguaggi in altri ambienti,
naturali e simbolici.
Ma lo spazio teatrale è sempre spazio significativo, cioè
spazio che produce senso anche quando si scaglia contro di esso.
Il teatro e' il regno delle forme simboliche anche quando va <contro
natura>. In teatro la natura e' spazio da scoprire o spazio
vissuto, invenzione e creatività. E' vero che anche la terra e'
sempre in qualche modo connotata, ma lo spazio scenico e' come
una seconda pelle, che viene sovrapposta al luogo naturale per
caricarlo di valenze estetiche o per conquistare al cosmo della
cultura parti crescenti di quel territorio non massificato,
talvolta inesplorato, che costituisce la cosiddetta wilderness
nelle dimensioni dell'<oltre>.
Di fatto, quando l'attore o il performer entrano in
contatto con la natura in un'area non tradizionalmente
predisposta, il luogo fisico dove opera diventa spazio scenico
codificato. Questo spazio scenico naturale trasforma a sua volta
tutte le persone che hanno superato i confini del posto riservato
al pubblico e in generale del mondo che si trova fuori di tale
spazio e sono entrati nel suo regno. Forse per questo rimaniamo
tanto affascinati dai templi, dai teatri e dai ruderi della
storia sparsi per la Terra, dalla campagna mediterranea alle
foreste dello Yucatan.
Certo, quando il teatro (la scena) entra nella natura tende a
impossessarsi di questo spazio <magico>, può manipolarlo,
plasmarlo, ma ne risulta a sua volta condizionato. Mentre gli
spazi interni, attrezzati all'uopo, sono prevalentemente neutri,
stagnanti, come in attesa d'una azione scenica, gli spazi
terrestri naturali (e spesso magici) sono costituiti proprio dal
loro ininterrotto divenire ed acquisiscono la stessa flessibilità
della parola poetica, condividendone gli stessi rischi.
In questo spazio contaminato (reso <luogo deputato>),
l'attore/attante, il regista, il performer, l'artifex che dir si
voglia, articola e in-scrive (o riscrive) il suo discorso scenico
sullo ambiguo confine che separa i segni della natura e le tracce
della storia. Qui il percorso si fa impervio e si affaccia sul
baratro che ci separa pure gli uni dagli altri...
Ci troviamo ora ben oltre la dimensione del <paesaggio>,
dello scenario naturale da utilizzare per rendere appetibile una
<rappresentazione>.
Per intenderci, facciamo un passo indietro. L'arte si sviluppa
dal momento in cui gli esseri umani si separano dalla loro
comunità. Nel corso della preistoria non ci e' arte. Cio' che si
e' soliti isolare con questo termine e' la materializzazione di
una facoltà conoscitiva, attraverso la quale l'uomo rappresenta
il mondo da cui non vive ancora separato, autonomizzato. Si
tratta dunque di un elemento della conoscenza non astratta, cioe'
non basata unicamente su quella modalità della astrazione che si
avrà in seguito; una conoscenza che, come dice Leroi-Gourhan (1), deriva da un
pensiero multidirezionale che si irradia ed instaura un dialogo
con quanto lo circonda, giacche' non si e' ancora verificata la
frattura. Cosi' questa arte, per definirla con termini attuali, e'
simultaneamente linguaggio, scienza, magia, rito, teatro, etc., e
al tempo stesso parte di un tutto da cui riceve e a cui
conferisce significato.
Una volta prodottasi la frattura, la arte e il teatro
diventeranno un mezzo attraverso il quale far rivivere la antica
comunità, la <totalità perduta>; e, dal momento che il
legame immediato non opera più, si porranno come mediazione che
cerca di ristabilire la comunicazione, il <fenomeno radiante> (2) .
Da qui nasce pure la figura dello sciamano, del mago esploratore
e regista dello oltre, esperto di tecniche esoteriche che con i
suoi <drammi esistenziali> ed esorcistici cerca di
proteggere la sua etnia da tutte le forze dissolutrici e di
riscattarle da una terribile confusione con gli elementi più
incontrollabili della natura stessa (3) .
Con il teatro greco, l'opera, il cinema, con tutti i tentativi di
realizzare l'arte totale in epoca contemporanea (lo si può
constatare anche in alcuni progetti di land-art ed in certe
performances multimediali), questa nostalgia, questa ricerca
della comunità perduta si afferma, anche se per gli operatori la
cosa non può più manifestarsi in tali termini.
E' interessante notare, a proposito di mancanza, di assenza
(o di fine), che Mircea Eliade, nel 1963, affermava proprio che
la arte contemporanea delle origini (tra 800 e 900) nella sua
fase di distruzione-creazione del mondo precedente - e pur
saccheggiando le giovani forze dei popoli cosiddetti primitivi,
amerindi o africani - coltivava un forte interesse per le origini,
rivalorizzando in fondo il mito della fine del mondo in epoca
contemporanea (4) .
In pratica si potrebbe constatare che gli attori-attanti-autori,
gli scrittori-scompositori della scena, i demiurghi del nulla,
lungi dallo essere i nevrotici di cui talora si parla, hanno
invece capito che un vero ricominciamento può avere luogo solo
dopo una vera fine; e i primissimi avanguardisti, come i
cubofuturisti e i dadaisti, si sono adoperati veramente per
distruggere il loro mondo nel tentativo di ri-creare un universo
artistico nel quale l'uomo potesse nello stesso tempo esistere,
contemplare e sognare...
In realtà, quello che si e' venuto a creare in occidente (e non
solo) dopo gli anni 30 e' un mondo in cui l'uomo ha sempre meno
importanza e significato - e non certo dal punto di vista
umanistico - proprio perche' ha subito una profonda e forse
definitiva spoliazione ad opera delle esteriorizzazioni e
rappresentazioni dello io causate dalla psicanalisi volgare.
In questa fase il soggetto stesso diventa arte (di mercato) e la
arte diventa il sistema di comunicazione internazionale per
eccellenza, con i suoi crediti e le sue fughe in avanti (e
indietro), e le sue fabbriche di arte: la moda, la pubblicità,
la critica come promotion e censura, il nome.
Non a caso, lo stesso Leroi-Gourhan segnalava già negli anni 60(5) la tendenza tutt'altro
che innocente a far scomparire la separazione tra attori e
spettatori perche' lo spettacolo deve essere allestito con la
complicità di tutti gli esseri umani, messi in movimento da
alcuni orchestratori della illusione che hanno proprio il compito
di mediare, sono di fatto i mediatori tra i linguaggi della arte
e le esigenze del mercato: quelli che oggi si chiamano,
erroneamente, operatori culturali.
Percio' si pone una alternativa alla interpretazione che il primo
Ernesto de Martino - coniugando il suo scetticismo storicistico
con il linguaggio analitico-esistenziale di Heidegger -, diede
delle tecniche sciamaniche atte a rafforzare <lo esserci nel
mondo> di fronte al rischio di non-esserci (6) : nelle società di
oggi molti artisti (o almeno quelli che potrebbero essere
considerati gli attuali sciamani della Terra), poeti e teatranti
in particolare, scelgono le amodalità di un <non-esserci>
di fronte al rischio di esserci come presenza alienata dalla
spettacolarizzazione diffusa, dalle stesse forme della
comunicazione massmediatica.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
1. Cfr. Il gesto e la parola, di Leroi-Gourhan, Torino,
Einaudi, 1977.
2. v. Il disvelamento, di Jacques Camatte, Milano, La
Pietra, 1978.
3. v. Il signore del limite, di Placido Cherchi, Napoli,
Liguori, 1994.
4. v. Mito e realtà, di Mircea Eliade, Milano, Rusconi,
1974.
5. Op. cit.: Il testo, nella prima edizione francese, e' del 1964.
6. v. Il mondo magico, di Ernesto De Martino, Torino,
Boringhieri, 1973.
Come
si salvano le balene?
Moby Dick in liquidazione volontaria
di Isabella Scaramuzzi
La
cooperativa Moby Dick di Mira (VE) (Stagioni dei Teatri della
Riviera, Festival delle Ville, produzioni come Il
Milione di Paolini, laboratori
teatrali, Ville Aperte) è stata posta in liquidazione
volontaria ("Gazzettino" e "Nuova Venezia",
10 febbraio 2001).
Non so
quanti e quali siano i creditori di Moby Dick. So che io sono tra
i suoi debitori.
Si tratta di uno di quei debiti immateriali che 'non danno da
mangiare' e forse fanno bene solo all'anima.
Come frequentatrice del teatro di Mira, come spettatrice degli
eventi in villa, come studente dei laboratori so di essere stata
'esposta alla cultura', che Moby Dick ha fatto passare sulla
Riviera, ha ospitato e prodotto.
Se, come dice una stimata Banca Italiana, investire in cultura
arricchisce, l'investimento che oggi Moby Dick rischia di pagare
insieme ai suoi creditori, cioè a persone che hanno, a loro
volta, lavorato per la cultura, ha arricchito anche me. Sono
sicura che nel produrre una tomaia di calzatura si impieghino
creatività e professionalità: ma di queste imprese la Riviera
è ricchissima, mentre nella 'manifattura culturale' rischiamo di
perdere un patrimonio che non è solo una 'impresa in difficoltà'.
Come cittadina del Brenta vorrei mantenermi la possibilità di
consumare cultura 'di rango': so di non essere sola e propongo
agli altri un ragionamento per il futuro.
1. Il capitale di Moby Dick (non suoni ironico) è rappresentato,
come e più che in qualunque altra impresa, dalle persone che ci
lavorano, dal loro saper fare e da una passione che raramente si
trova in produzioni meno creative, comunicative, esperienziali.
Ma è rappresentato anche dal loro pubblico, dall'educazione
dello spettatore, dalla esposizione alle arti dal vivo: dalle
scuole alla scena, dai laboratori alle prove aperte. Attività
diffuse, irradiate, molecolari che coinvolgono diverse categorie
di abitanti e che a questi ultimi verrebbero tolte, lasciandone
insoddisfatto il 'bisogno'. Questo capitale, di umani che
lavorano e umani che fruiscono, va considerato con grande
attenzione: la stessa dei debiti e dei crediti in moneta.
2. La professionalità della filiera artistica (non solo gli
attori, non solo quelli famosi) va valutata separatamente da
quella imprenditoriale e manageriale, in senso stretto e tecnico.
Quale integrazione, quale distinzione deve esserci è questione
che va ben oltre il nostro specifico: basta seguire la polemica
Messinis-Fenice. Nei libri di economia della cultura ci sono due
casi noti di 'fallimento economico' e di enorme riconoscimento
artistico, Salisburgo e Spoleto. Stiamo parlando di festival
pubblici e internazionali i cui conti finanziari sono o sono
stati disastrosi, sanati e salvati da iniezioni impressionanti di
pubblico denaro, alla ricerca di formule gestionali mai
completamente soddisfacenti e sempre ampiamente 'garantite'.
3. Il contesto di produzione e distribuzione culturale, nel ricco
Nordest, presenta una rosa di soggetti, pubblici, privati o misti,
tale da metterci in grado di compiere responsabili scelte di
investimento in Cultura, di garantirci l'efficacia della spesa
affrontata? Ovvero, morta una balena possiamo sceglierne un'altra,
brava sana e virtuosa, basta mettersi a guardarle passare? Si sa
che la balena è un'animale in via di estinzione, raro, preso di
mira da cacciatori senza scrupoli, con le sue abitudini di vita e
riproduzione, ingombrante e lento. Fuor di metafora, è
semplicemente questione di sostituire una impresa sana ad una in
difficoltà o c'è qualcosa di più complesso tra produzione e
servizio culturale, in un determinato territorio, e capacità di
gestire i bilanci? Tra esposizione alle arti dal vivo, rapporti
con la comunità locale, capacità di 'stare sul mercato'?
4. Qual è la 'disponibilità a pagare' per avere una offerta
culturale locale (disponibile in loco e/o prodotta in loco) da
parte dei cittadini del Brenta o dell'area metropolitana
veneziana? Diamo per scontato che questo 'pagamento' avvenga
attraverso la mediazione dei pubblici soggetti e dei denari che
questi investono per le stagioni teatrali, i laboratori, i
seminari, i festival? Siamo sicuri che la domanda si incontri
spontaneamente con l'offerta e venga indicata solo dagli
abbonamenti o dai biglietti venduti cioè dalle 'entrate'? E i
Comuni o la Provincia, o il Ministero, che gestiscono in parte la
'disponibilità a pagare' dei cittadini (entrate pubbliche
trasferite e ritrasferite ma comunque originate dalla collettività),
con quali criteri costruiscono o ricostruiscono la fiducia,
propria e del pubblico, nei confronti di un 'imprenditore
culturale' o di un altro? La fiducia è un bene rarissimo che
richiede tempo, che fa a pugni col fast-food culturale.
Non ho risposte coerenti e esaustive a queste domande, però sono
interessata a cercarle, come consumatrice di culura, come
cittadina non distratta del Brenta. Cosa ne pensano gli altri?
Chi deve fare questa riflessione, che sembra obbligata per 'quelli
di Moby Dick', ma che secondo me è un impegno civile del
territorio brentano e provinciale?
Innanzitutto chi con Moby Dick ha lavorato nella cultura: i
Comuni, la Provincia, il Ministero, gli artisti, le compagnie, le
scuole, le associazioni, i critici e così via. Loro per primi
hanno quello che io definisco come un debito e, insieme, un
solido interesse ad arricchirsi di cultura.
Devono riflettere sul capitale da salvare, sulle professionalità,
sulla ricchezza del territorio (lungamente esposto ai benefici
della diffusione culturale), sui bisogni futuri (che si
alimentano in modo cumulativo), sulle alternative gestionali,
sull'assenza di risposte a tutto questo o, viceversa, sulle
soluzioni 'pret-a-importer', sul loro effetto nel tempo, passata
l'emergenza.
Sappiamo che le riflessioni dei pubblici soggetti sono lentissime,
difficoltose, contrastate: un 'pensiero troppo lungo' rischia di
generare vuoto e perdita, conflitti incancreniti, sfinimento. Le
colpe degli amministratori ricadono sugli amministrati.
Ad accelerare questo momento innovativo (non tutto il male viene
per nuocere) possono essere 'quelli che restano' di Moby Dick, i
quali si devono contare, come si dice, è valutare se le capacità
di cui sono portatori (sani) sono un cuore bastante a rimettere
in circolo virtuoso la produzione
e la distribuzione culturale brentana.
Un capitale di saperi molto concentrato può generare valore
dentro una nuova squadra: o si attraggono forze o ci si fa
attrarre. Non è detto che l'eredità di Moby Dick non possa, con
un produttore culturale di Orione, garantire servizi di qualità
sul Brenta. Dico Orione per escludere ogni e possibile
riferimento al reale e anche per indicare qualcuno o qualcosa di
futuribile, forse ancora da inventare.
Qui si intersecano il secondo e il terzo punto del mio
ragionamento. Qual è la formula, nessuna delle quali magica,
necessaria e/o adeguata per garantire il livello di servizi
culturali cui la Riviera è 'assuefatta' per esposizione? E'
privata, è pubblica, è mista? Deve fare profitto? Esiste già
nel panorama nordestino, italiano, internazionale o dobbiamo
progettarla 'intorno a noi''?
In quale 'incubatore' va messa la nuova creatura, chi deve
accudire la sua fase larvale e il suo passaggio all'operatività
piena, chi deve investire in questo, quanto e per quanto? Con
quale garanzia e quali arricchimenti?
Ci sono sponsor nell'area o nel Nordest interessati? Finanziatori
di tipo mecenatesco, enti pubblici disponibili, star generose, o
business men and women che vedono possibili profitti nel mercato
della cultura? C'è qualcuno per ognuno di questi tipi,
interessato a produzioni diverse: le visite, gli eventi, gli
spettacoli, i laboratori, i cantieri teatrali, l'educazione e la
formazione, la ricerca, l'animazione e l'intrattenimento?
Qualche altra attività culturale che manca? Mostre, gallerie,
musei, edizioni artistiche, musicali, multimediali, spazi di
lavoro artistico?
Infine. Gli attuali utenti possono e vogliono partecipare,
possono essere e in che misura azionisti culturali, diretti o
mediati dalle proprie Amministrazioni? E di chi si fidano, sulla
base della reputazione culturale e/o manageriale? E gli utenti
sono solo quelli espliciti, potenziali, locali o possiamo
immaginare dei consumatori 'differiti', per esempio i turisti,
rappresentati da chi già li attira e li ospita? Forse i prossimi
giorni, le prossime sere a teatro, le 'risposte' del pubblico si
faranno sentire: dirette, spontanee e casuali come si addice a
questo tipo di relazioni e reazioni.
Perché, dopo tutto, è anche questa una eredità importante di
Moby Dick, quella di aver generato una prossimità con la filiera
della cultura che è raro trovare in altre realtà provinciali,
oltre l'amatoriale e l' associazionismo, o da casi diventati -
appunto perchè eccezionali - famosi.
Questa confidenza e vicinanza, quasi quotidiana e domestica, va
oltre l'esposizione alla cultura e all'arte che può venire da un'ottima
distribuzione o dalla mobilità dei consumatori esperti. E' un
plus che fa parte dell'arricchimento più propriamente culturale
di un luogo e di una comunità.
Voglio chiudere, precisando che Marco Paolini, emblematico in
quanto noto tra i meriti da riconoscere a Moby Dick, è un
talento naturale che ha trovato in Riviera una congiunzione
eccezionalmente felice del proprio transito: nessuno può dire se
il suo apprezzamento sarebbe maturato anche altrove e comunque. E'
legittimo ritenere che la contaminazione sia stata importante. Se
pensiamo questo, abbiamo un ulteriore pulsione a salvare l'eredità
di Moby Dick: la 'costruzione' di altri incontri, tra ricerca,
produzione, lavoro teatrale, luoghi, pubblico fedele e neofiti,
come un modo che permette ai talenti di rivelarsi e al cittadino
di arricchirsi, con i tempi lunghi e gli incerti guadagni propri
della cultura.
Propongo che invece di una raccolta di firme, per salvare la
balena, si raccolgano idee.
Metafore,
metonimie e sineddochi
Un mail di Stefano Bartezzaghi sulla Lolita ronconiana
(cfr. Lolita videogame di Oliviero Ponte
di Pino su "ateatro 1")
caro
Oliviero,
"ateatro" è una bellissima idea, e ha anche una sua
eleganza, sobria e comme il faut. Bravo!
per Lolita ho visto che sei partito da un punto molto
elevato, teorico, si vede che non sentivi ditero le tue spalle l'occhio
aggrottato del caporedattore pronto a dirti: la notizia! gli
addetti ai lavori! i sempliciotti che ci leggono!
nello specifico, vedi che segui Jakobson e Lacan considerando
metonimie le sineddochi: per carità, basta intendersi, ma come
in tutti gli equivoci c'è sotto qualcosa. La metonimia in realtà nomina
qualcosa attraverso qualcosa che gli sta accanto, che gli è contiguo,
una sua pertinenza collaterale (esempio manuale: "Per la
lezione di domani portate il vostro Cesare",
intendendo il De Bello Gallico: l'autore per il
libro) mentre è la sineddoche che prende la parte per il
tutto e il tutto per la parte: la porta per la casa, eccetera.
Non mi intendo molto di termini cinematografici, ma forse per
fare una metonimia ci vuole un carrrello e per fare una
sineddoche ci vuole uno zoom. Il curioso è che si possono usare
gli stessi termini anche per l'operazione ronconiana su Lolita:
la riduzione teatrale è una sineddoche del testo, ma - ammesso
che Ronconi abbia ridotto qualcosa - la sua operazione
fondamentale è uno spostamento (portare L. a teatro).
l'oggetto più delicato di questo spostamento - secondo me - era
una certa merce da imballaggio che Nabokov fa sempre circolare
nei rapporti fra i personaggi e delle varie istanze di
enunciazione: qualcosa che possiamo chiamare ironia, scontando la
solita penuria nominale e la maledizione del doversi pur
intendere in qualche modo. Mi sono chiesto dove potesse comparire
questa bolla di vuoto in una realizzazione teatrale, e ho visto
che Ronconi ha scelto una via di amplificazione: il cursore
che va dalla sfumatura al grottesco in Nabokov si
assesta su valori di quattro decimi e in Ronconi sta
verso l'otto.
Ricorderò l'Humbert Humbert che cade culo a terra alla
vista di Lolita come una delle scelte più forti di Ronconi.
Im
Museum der Moderne
Peter Steins monumentaler Faust" in Berlin, endlich
mit Bruno Ganz
von Thomas Irmer (in tedesco)
Dieser
Faust" ist, man mag es kaum glauben, eine Uraufführung.
Genauer die erste Aufführung des vollständigen Textes beider
Teile von Goethes Werk durch ein Berufstheater. Faust II"
wurde seit der ersten Gesamtaufführung 1876 in Weimar immer nur
in mehr oder weniger gekürzten Bearbeitungen gespielt. Das ist
paradox, gilt doch gerade dieses Doppelstück als eherner Bestand
deutscher Bühnenliteratur und außerdem als Goethes Vermächtnis.
Peter Steins Faust" ist mit 22 Stunden Dauer, gespielt
an einem Wochenende als Marathon oder verteilt, als Sushi",
auf die Abende einer ganzen Woche, vielleicht die aufwendigste
und längste Theateraufführung, auf jeden Fall aber die teuerste
Theaterproduktion, die es in Deutschland je gegeben hat. 30
Millionen DM hat sie gekostet, Stein hat eigens ein
Theaterensemble dafür gegründet und der heute 64jährige
Regisseur einige Jahre diesem Lebensplan geopfert. Mit Erfolg und
Gewinn fürs Publikum? Diese Frage kann man nicht mit Ja oder
Nein beantworten.
Viele Theaterinteressierte in Deutschland und erst recht im
Ausland verstehen nicht, warum es nach der Premiere im Juli 2000
auf der EXPO in Hannover in den deutschen Tageszeitungen hämische
Kritiken und Totalverrisse nur so hagelte. Das dürfte sich auch
nach Polen herumgesprochen haben, und deswegen fange ich mit
einigen Erklärungsversuchen dazu an, denn sie betreffen auch
schon das, was ich dann über die Aufführung selbst zu sagen
habe. Eine Produktion wie diese, auch wenn sie sich in ihrer
Machart vor der Außenwelt nahezu verschließt, kann nämlich
nicht ohne ihre Vorgeschichte und Entstehungsbedingungen bewertet
werden.
Peter Stein hat seit Anfang der neunziger Jahre immer wieder für
sein Faust"-Projekt in der Öffentlichkeit geworben.
Mit Vehemenz, und diese Szene wurde berühmt, haute er vor der
Fernsehkamera mit der Faust auf den Tisch und rief: Ich
will den Faust inszenieren, verdammt noch mal!" Das wäre
einfach nur lustig, steckte darin nicht auch die Wahrheit, dass
man in Deutschland wenigstens einen Anlass oder Antrieb erklären
sollte, warum man dieses oder jenes Stück und insbesondere den
Faust" inszenieren will. Da hielt sich Stein jedoch
bedeckt. Der Hinweis auf die erste vollständige Aufführung
sollte genügen, allenfalls die hohe Schule der Sprechkultur für
die 12110 Verse wurde noch geltend gemacht. Die Berliner Schaubühne,
mit deren Name die künstlerische Karriere Steins untrennbar
verbunden ist und wo er zuletzt vor mehr als zehn Jahren Roberto
Zucco" von Koltés inszenierte, stand für dieses Projekt
nicht zur Verfügung. Stein hätte es zur Bedingung gemacht, zwei
ganze Spielzeiten für seine Arbeit zu vereinnahmen, ein Jahr für
Proben und ein weiteres für die Aufführungen. Dies mochte die
Leitung der Schaubühne nicht akzeptieren. Also musste sich der
Regisseur seine eigene Theaterstruktur schaffen, und mit ihrer
Durchsetzung hat sich das Faustische dieser Idee bereits zu Tode
gesiegt. Zunächst war an eine große Halle in Berlin gedacht,
und für 20 Millionen Mark, von denen ein beträchtlicher Teil
aus der Berliner Kultursubvention fließen sollte, wollte der
Meister zur Tat schreiten. Die Politiker der Hauptstadt wägten
vorsichtig ab, denn ihre Entscheidung für Steins Mega-Faust wäre
angesichts der desolaten Finanzlage vieler Berliner Theater
kulturpolitisch genauso riskant gewesen wie die Schließung eines
Theaters aus Kostengründen - und genau das hatte mit der Schließung
des berühmten Schiller-Theaters 1993 einen Aufruhr hervorgerufen,
von dem sich die Berliner Politik bis heute nicht erholt hat.
Stein musste sich also nach anderen Helfern umsehen, echten
Sponsoren, die er in den inzwischen aufstrebenden
Kulturstiftungen der Großindustrie und bei der Deutschen Bank
fand. Sie stellten das Geld in Aussicht, sobald ein Ort gefunden
war, den ganzen Faust" erst zu proben und schließlich
zur Aufführung zu bringen.
Hannover, das ist ein anderer wichtiger Punkt, wenn man die
Haltung der Kritik zu Stein psychologisch zu ergründen sucht.
Die EXPO, die 2000 zum ersten Mal in Deutschland stattfand, bot
sich an, Steins Projekt in ihr Kulturprogramm aufzunehmen. Der
Meister machte den Pakt mit dem, nun ja, nicht Teufel, aber
immerhin mit einer Institution, die in Deutschland wegen der in
vielen anderen Punkten beargwöhnten EXPO nicht im besten Ruf
stand und die er zuvor selbst verhöhnt hatte. Das Kulturprogramm
der EXPO sei nämlich nichts weiter als Sackhüpfen und
Wurstschnappen", also billigster Jahrmarkt. Tatsächlich
wurde die EXPO eine gigantische Pleite und blieb weit unter den
Erwartungen des Publikums wie auch der Veranstalter. Faust"
fand hier zwar das nötige Geld und auch eine vorläufige Bleibe,
aber dieser Kontext war doch insgesamt ungeeignet für eine Präsentation,
die auf ihre künstlerische Autonomie pocht und dort doch nur als
ein Teil des Ausstellungsparks wirken konnte. Als der Faust"
Ende Juli 2000 seine Premiere in Hannover hatte, war bereits
abzusehen, dass die EXPO kein Erfolg mehr werden würde. Überdies
hatte Bruno Ganz, der Darsteller des Faust, sich bei einem Unfall
auf der Probe schwer verletzt, und es ging nur darum, das EXPO-Projekt
Faust" um jeden Preis zu retten. Der junge Christian
Nickel, Darsteller des jungen Faust, sprang für die ganze Rolle
ein - und war sichtlich überfordert. In einem Theater hätte man
die Premiere wahrscheinlich verschoben, auf der Weltausstellung
war sie nicht mehr abzusagen. Eine Produktion, deren finanzieller
Aufwand dem eines mittleren Filmbudgets entspricht, ist so
beweglich wie ein Dinosaurier. Aufrecht stehen bleiben, wenn der
Boden schwankt, ist alles, was dann noch zu erreichen ist.
Um den Faust II habe ich das ganze Leben gerungen. Als 16jähriger
habe ich ihn gelesen und nicht verstanden, als Germanistikstudent
auch nicht. Ich wusste natürlich, dass Faust II ein großartiges
Werk ist. Das wissen ja alle. Nur, was da drin steht, ist einem
nicht helle geworden. Dann habe ich es als junger Theaterdirektor
wieder versucht und wieder nichts verstanden. Und plötzlich, mit
einem gewissen Alter, konnte ich es lesen", so Peter Stein
in einer Stellungnahme für die Presse.
Ein dritter Punkt in diesem Vorspiel, neben den von vielen als
obszön teuer empfundenen Produktionskosten und der Mesalliance
mit der EXPO, ist ästhetischer Natur. Genauer gesagt, es ist die
Regieauffassung, die Stein heute mit einem gewissen Alter"
vertritt. Stein, der das Regietheater deutscher Spielart
praktisch mit erfand, der viele Klassiker in überaus modernen
Interpretationen für das Theater neu erschlossen hat, hält
heute vom Regietheater nichts mehr. Es ist die werktreue, sprach-
und spielgenaue Einstudierung eines Stücks, die ihm heute heilig
ist - und nicht die bewegte Lesart, die auf Kopf und Herz des
Publikums zielt. Nun gibt es im deutschen Theater nichts Schöneres
als die Pluralität der Stile, und jemand, der mit Frank Castorf
und Heiner Müller aufgewachsen ist, sollte trotzdem auch Fühler
für das Theater des späten Peter Stein haben, das in seiner
Verwandtschaft mit Regisseuren wie Peter Zadek und Luc Bondy auch
das Menschentheater" genannt worden ist, in dem vor
allem die Klassiker der vorletzten Jahrhundertwende so gut zur
Geltung kommen. Eine unangenehme Seite Peter Steins ist jedoch,
dass er seine Auffassung mit missionarischem Eifer kundtut und
keinen Zweifel daran lassen will, dass alles andere bloß
Scharlatanerie ist. Zwischen den Zeilen hört man, dass er damit
das junge deutsche Theater, seine Regisseure, Autoren und
Schauspieler meint, die im übrigen viel mit Steins Anfängen in
den sechziger Jahren gemein haben. Damals war auch der junge
Bruno Ganz schon einer seiner Protagonisten, und erst als Ganz,
wieder genesen, nach dem Umzug des Faust-Ensembles von Hannover
nach Berlin im November die Hauptrolle übernahm, kam das Projekt
Faust" zumindest beim Publikum richtig an. Da hatte
ein Großteil der tagesaktuellen Meinungskritik allerdings schon
abgeschaltet, und zu einer Revision der harschen Aburteilung von
Hannover ist kaum jemand bereit. Nach drei Monaten Berlin steht
Stein als souveräner Theaterleiter da, der mitteilt, sein
Ensemble aus insgesamt 35, überwiegend jüngeren Schauspielern
sei nun so warm gespielt, dass man noch einige interessante
Nebenproduktionen erwarten könne. Insofern hat Stein sein Ziel
erreicht, sein Projekt sogar über das Ziel hinaus getrieben.
Aber was war das Ziel?
Schon beim Eintritt in die Riesenhalle der Arena", früher
ein Industriebetrieb direkt an der Spree, kann man das Prinzip
erkennen, nach dem die Aufführung räumlich organisiert ist.
Eine große Tribüne vor einer Hauptbühne, die wie eine reguläre
Portalbühne wirkt, und etwas weiter weg eine variable, während
der Aufführung mehr als ein Dutzend Mal völlig neu arrangierte
Spielfläche. Die beiden Ausstatter Ferdinand Wögerbauer (für
Faust I") und Stefan Mayer (Faust II")
hatten für das Gesamtkonzept vor allem Raumwechsel zu ermöglichen,
die über die Dauer der Zeit einen abwechslungsreichen Gang durch
das Stück bieten. In der Grobstruktur ist der Faust"
reine Bewegungsdramaturgie: vom Prolog im Himmel bis zu Fausts
Aufstieg in himmlische Sphären am Ende bewegt sich das Stück
mehr oder weniger rasant durch Orte und Zeiten, die auf einer
einzelnen Bühne hintereinander kaum darstellbar sind. So bewegt
sich also der Zuschauer selbst zwischen zwei Bühnen, von denen
die eine als Raumbühne immer wieder so wandelbar ist, dass man
den Eindruck hat, einen völlig neuen Raum zu betreten - zwischen
Mittelalter und Antike, vom gotischen Zimmer in deutschen Landen
bis zu fernen griechischen Gestaden sind es immer nur ein paar
Schritte, während da, wo gerade nicht gespielt wird, die Bühnenwelt
sich schon wieder im Umbau befindet. Die beiden Bühnen- und
Raumbildner sind stets von Goethes Regieanweisungen ausgegangen,
so wie sich Steins Inszenierung überhaupt als eine
buchstabengetreue Aufführung im Ganzen zeigt und das auch offen
bekundet.
Mustergültig ist die mehrfache Hinführung inszeniert: Die
Zueignung Ihr naht euch wieder, schwankende Gestalten"
wird vor schwarzem Vorhang von einem jeweils eingeladenen
Ehrengast gesprochen: Will Quadflieg, Walter Schmidinger und
andere Schauspielheroen stehen emblematisch dafür ein, dass hier
der Text in erster Linie zu Gehör gebracht werden soll. Der
zweite Rahmen, das Vorspiel auf dem Theater", in
rollentypischen Kostümen auf einer schlichten Bretterbühne,
weist schon darauf hin, dass sich das Spiel vor allem an das
gesprochene Wort halten wird. Und der dritte Rahmen schließlich,
der als Prolog im Himmel" schon Teil der Handlung ist,
schließt die ästhetische Setzung Steins ab: das Spiel nimmt
Goethe beim Wort und wird seinen Text weder szenisch
interpretieren oder gar aktualisieren noch in großartige
Illusionen hüllen, sondern einfach aufführen. Oben im
Himmel" gibt es also Theaterwolken an Stangen, darin der
Herr mit seinen Erzengeln und Mephisto spricht.
Es folgt Bruno Ganz, auf der großen Bühne in seinem nächtlichen
Studierzimmer die magischen Kräfte versuchend. Der Sprechduktus
ist klassisch, Ausstattung und Kostüm (Moidele Bickel) den gängigsten
Vorstellungen entsprechend, also insgesamt theaterhistoristisch.
Für den Erdgeist aber, wie auch mitunter für andere nicht reale
Erscheinungen, mag freilich auch Peter Stein auf Mittel zurückgreifen,
die Goethe sich noch nicht einmal vorstellen konnte. So sieht man
den Erdgeist als großformatiges Videobild mit dem Gesicht Hans
Michael Rehbergs. Das ist gut gemacht, aber wahrer Theaterzauber
ist es nicht. Geht es darum? Genügt es, den Faust so zur Aufführung
zu bringen, wie er geschrieben wurde?
Aufs Ganze gesehen lässt sich die Frage entschieden zwiespältig
beantworten. Für den ersten Teil der Tragödie ist es annehmbar,
ja die völlige Abwesenheit von Interpretation sogar spannend.
Seit den sechziger Jahren ist die in der deutschen Kultur zuvor
stets überhöhte und mythisierte Faust-Figur radikalen
Umdeutungen unterworfen worden. Diese Umdeutungen waren zumeist
mit dem Zeitgeist einhergehende kritische Reaktionen auf den
ideologischen Gebrauch des Faust-Themas und daher selbst
ideologischer Natur. Ob irrender Intellektueller oder
Schwundstufe eines deutschen Mythos, oft genug ging es um die
Verwerfung der Figur, ob nun das Streben oder das Irren
hervorgehoben wurde. Peter Steins Bruno Ganz legt den Faust an,
als hätte es diese neuere Theatergeschichte nicht gegeben und
als sollte dieser Teil der kritischen Rezeption endlich einmal außer
Acht bleiben. Das ist gelungen und führt zu einer Art Naivität
zurück, die zumindest dem ersten Teil gut bekommt, wenn er dann
mit den beiden abwechselnd auftretenden Mephistos sich auch
witzig entspinnt und mit der Gretchen-Geschichte seine erzählerische
Kontur erhält. Für den zweiten Teil, der keinen solchen
kulturellen Resonanzboden hat und über dessen Sinnzusammenhang
allein die Philologen sich in Einzelfragen zerstritten haben,
empfiehlt sich das Anti-Regietheater weniger. Hier braucht es
nicht nur Angebote, sondern mehr denn je auch szenisch deutende
Hilfe für den Zuschauer. Selbst ein Goethe-Experte dürfte sich
in den vielfach verschlüsselten Szenen des zweiten Teils kaum
zurechtfinden, geschweige denn den großen Zusammenhang
nachbilden können. Wenn der ideale Leser für Joyce einer war,
der Tag und Nacht so lange und langsam liest, wie der Autor
Finnegans Wake" geschrieben hat, dann wäre
Steins Publikum nur dann auf der Höhe dieser Inszenierung, wenn
es mit ihm all die Jahre seiner Faust"-Arbeit
zugebracht hätte. Und vielleicht wäre auch das für den zweiten
Teil noch zu wenig - und zugleich zuviel, denn dieser Faust
II" bleibt auch in seiner ersten vollständigen Aufführung
abseits des gesprochenen Worts unerschlossen. Man möge sich
Steins Zitat nochmal vor Augen halten: Und plötzlich, mit
einem gewissen Alter, konnte ich es LESEN."
Theatral geht man durch ebenso viele Qualitäten wie Räume. Die
Mephistos - Robert Hunger-Bühler etwas anregend zynischer als
der weichere Johann Adam Oest - bringen den Gang durch das Stück
geistreich auf Tempo und sind schon bald die eigentlichen Akteure.
Vor allem Hunger-Bühler weiß, wie aus dem für heutige Ohren
strengen, aber für ihn nie anstrengenden Textbau der Verse die
deftige Figur, der große Witz und ein bisschen Volkstheater
herauszuholen ist. Er ist der eigentliche Begleiter des Publikums
auf dieser weiten Reise. Der junge Faust des ersten Teils,
Christian Nickel im weißen Anzug und ebenso makelloser
Problemfreiheit, ist zwar der konzipierte Gegensatz zum gebrochen
wirkenden Ganz-Faust vom Anfang und vom Ende, an ihm kann man
aber gerade das aussetzen, was Stein am Theater der Jungen heute
bemängelt: Tiefe der Figur und Höhe der Sprechkultur. Gerade in
seinen Szenen sind es eher das visuell Atmosphärische der Szene
oder die Gegenspieler, auf die man sich als Zuschauer einläßt.
Das Gretchen Dorothee Hartingers ist unter den überwiegend jüngeren
Spielern des Faust-Ensembles die Entdeckung. Mit ihr erlaubt sich
Stein eine der wenigen Abweichungen von der szenischen Konvention,
wenn sie in der Kerkerszene aus einem winzigen Käfig kriecht.
Das ist einer der wirklich beklemmenden Momente, wo durch eine
kleine Überschreitung große Energie frei wird. Für die Helena
der kühlen Corinna Kirchhoff, heute heimatloser Star der alten
Schaubühne, sind eher opernhaft kalkulierte Auftritte geplant,
die der ja auch erotischen Suche des Faust im zweiten Teil zu
wenig geben. Erst am Schluss, wenn sich der Himmel des Anfangs zu
einer Spirale heruntersenkt und tatsächlich mit der
Riesenmaschinerie dieser Produktion noch einmal ein bisschen
gezaubert wird, erreicht die Inszenierung wieder eine
Geschlossenheit, die ihr zuvor mit dem Beharren auf Goethes Text
über lange Strecken abhanden gekommen war. Zwar steht man als
Zuschauer in der kaiserlichen Pfalz oder bildet Spalier für
einen endlosen Karneval der Ursprünge des Theaters und der
Zivilisation an sich, man hat im Rittersaal bei Wein und Käse
mit zu Tisch gesessen, und auch der Homunkulus war als Kind in
einer Glasglocke ebenso überzeugend eingängig wie noch einmal
eine eindrucksvolle, mit etwa 25 Bildschirmen hergestellte
Darstellung kosmischer Schöpfung aus Feuer und Wasser in den
Felsbuchten des Ägäischen Meeres. Doch hier, in diesem zweiten
Teil, der einen ganzen Sonntag von morgens bis beinahe
mitternachts ausmacht, wird der Zuschauer nur noch als spectator"
eines Spektakels gebraucht. Den gleichen Weg geht auch die Musik
von Arturo Annecchino. Ist sie im ersten Teil noch ein synästhetischer
Zusammenhang, vom sphärischen Flimmern bis zur klar
ausgearbeiteten Komposition, wird sie da, wo sie wirklich
gebraucht wird, akustisches Hollywood zum Verkleben des ganz
wesentlich Unzusammenhängenden. So hart es klingt, die
intellektuelle Substanz, die Goethe seiner Nachwelt wohlweislich
in einem Paket versiegelt hinterlassen hat, kann sich auch in
einer textgetreuen Aufführung nicht erschließen. Zwar wird der
Text überwiegend von dem in Ergebenheit trainierten Ensemble
richtig gut gesprochen und also zu Gehör gebracht, aber das ist
fast nur Leistung ohne echte Kunst und hat die Größe eines
Museumsbesuchs, der einem Vergangenes noch einmal bestens präsentiert,
die Gegenwart allerdings nicht heran lässt. Vergeblich ist es
dennoch nicht, was Peter Stein hier unternommen hat. In dieser
wohl einmaligen Konstellation von großem Geld und unbedingten
Bemühen wird es das nicht wieder geben. Faust II"
bleibt, und dafür war uns die Theaterwelt wenigstens einen
Beweis schuldig, als inkommensurable Weltalltragödie ein Lesestück,
für dessen entlegenste Passagen jetzt ein paar Bilder vorhanden
sind. Gott und Peter Stein seis gedankt, wir gehen wieder
auf andere Reisen.
Il teatrino della animazioni flash
I nessi tra la scena da un lato e il pc e internet dall'altro sono spesso sorprendenti. Qualche settimana fa, mi è arrivata una newsletter di ctheory (sito
di fanatici dei nuovi media) dove Nate Burgos parla delle animazioni flash (quelle che si trovano sui siti più
"moderni"):
"Un sito Flash viene sviluppato come un microcosmo che sboccia in un macrocosmo. Il medium internet è la "scena" /stage/ -- la piattaforma dove l'animatore Flash /flashanimator/ importa, incolla e scolpisce "simboli" (personaggi /charachters/) cui vengono assegnate "azioni" (ruoli /roles/) in una trama /plot/
grafica multidimensionale. L'animatore Flash è l'autore di un dramma /play/ sulle verità visuali della vita. La gamma espressiva della grafica in movimento è incredibile, dalla serenità all'ansia".
Insomma, l'ho trovato curioso (ancor di più se messo in relazione a un altro testo che cito spesso, quello di Brenda Laurel, Computers as Theatre.
Se volete leggerlo tutto, si intitola Flash Fetish.
Andrew Wyley agente della Royal Shakespeare Company
La Royal Shakespeare Company sarà rappresentatata da Andrew Wyley, uno dei più noti agenti letterari (tra i suoi clienti oltre 400 autori, tra cui Martin Amis, Salman Rushdie, Susan Sontag, Hugh Thomas, Philip Roth, Saul Bellow, Arthur Schlesinger Jr, e gli eredi di
Jorge Luis Borges e Italo Calvino, oltre a essere consulente di "New York Times" e "National Geographic"). Wyley ha l'incarico di sviluppare e promuovere presso gli editori di tutto il mondo progetti editoriali legati all'attività della compagnia.
Per ulteriori info, sul sito della RSC si trova il press release del 12 febbraio 2001.
Appuntamento al prossimo numero.
Se volete scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
copyright Oliviero Ponte di Pino 2001